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Auteur: News AutOrg.anizzazione Stud.entesca BO
Date:  
À: Autorganizzazione Studentesca, Collettivo SPA
Sujet: [autorgstudbo] The thunder’s gonna come. Salario, sindacato e terzo sciopero dei Fast Food Workers
http://www.connessioniprecarie.org/2013/08/14/california-lo-sciopero-della-fame-dei-prigionieri-e-la-guerra-ai-poveri-negli-stati-uniti/

The thunder’s gonna come. Salario, sindacato e terzo sciopero dei Fast
Food Workers

di Sean Patrick Casey

È partita intorno alle 6 e mezza la terza grande mobilitazione dei Fast
Food Workers. In circa 60 città americane si sono svolti scioperi,
picchetti, azioni e occupazioni simboliche dentro ai ristoranti, piccoli
cortei e presidi. La denuncia delle condizioni di lavoro è la stessa di
quando la campagna è partita quasi un anno fa: salari insufficienti per
mantenere se stessi o una famiglia, mancanza di garanzie e incentivi,
maltrattamenti e soprusi, controllo ossessivo e aggressivo sul posto di
lavoro. La coalizione che sostiene la organizing drive è la stessa, ma nel
frattempo si è ingrossata, raccogliendo quella tipologia di realtà a metà
tra sindacalismo di base e community organizing che stanno cogliendo la
sfida dell’organizzazione del lavoro posta dalla crisi e dal riflusso
post-Occupy: New York Communities for Change, Fast Food Forward, 99
Pickets Brigade e altre.La mobilitazione ha scelto parole d’ordine molto
semplici: l’aumento del salario minimo e il diritto di organizzarsi in
sindacato. Se la media nazionale complessiva di salario è di 18.30$
all’ora, per quasi il 90% degli addetti del settore la media è di 8.94$, e
in città come New York moltissime lavoratrici e lavoratori percepiscono un
salario di poco superiore al minimo legale di 7.25$. Da qui lo slogan
molto diffuso nella mobilitazione di oggi: «You can’t survive on 7.25».
L’obiettivo nazionale è di un minimo sindacale di 15$ all’ora per tutto il
settore, rivendicazione che sottolinea come queste precarie e questi
precari percepiscono il loro lavoro, non come qualcosa di temporaneo, ma
come qualcosa che deve permettere di vivere e sopravvivere nelle città in
cui lavorano.

Questo piano rivendicativo mette in crisi la giustificazione da sempre che
viene dato per questo regime di precarietà e sfruttamento: la ristorazione
fast food è un settore entry level, ovvero un settore di lavoro temporaneo
per fornire le prime esperienze lavorative ai giovani: uno sfruttamento
pedagogico insomma. Il fatto che l’età media di chi ci lavora sia in
aumento (sempre più sui 24-30 anni, molti con famiglie a carico), che
senza il lavoro di queste precarie e di questi precari un’industria
multimiliardaria non potrebbe andare avanti, difficilmente riesce a
scalfire questa narrativa della destra (e sinistra) neoliberista, per cui
chiedere un lavoro dignitoso è chiedere troppo. Il salario diviene anche
occasione per una forma di razzismo mascherato, per cui certe comunità,
dovendo già considerarsi fortunate ad avere un lavoro, non devono
azzardarsi a chiedere altro.

"Solo un paio d’anni fa, la maggioranza (di destra o di sinistra, o nei
sindacati stessi) ha detto che una cosa di questo tipo non poteva essere
fatta. Tu sostieni questa cosa. Vai a un picchetto. Quello di domani è uno
sciopero di un solo giorno, per dimostrare che può essere fatto."

In un post su Facebook nei giorni precedenti lo sciopero, Boots Riley ha
così riassunto succintamente la novità di questa mobilitazione e
l’importanza politica di sostenerla. La posta in gioco, la scommessa
politica, è alta. La rivendicazione di un living wage, di un salario per
vivere, separa il salario dal lavoro, dalla crisi, dall’obbligo
propedeutico allo sfruttamento. Fare della vita di migliaia di lavoratrici
e lavoratori la misura del salario, significa farne una misura politica
che non può essere misurata economicamente. È la stessa scommessa messa in
campo da tante lotte «impossibili», che prima di vincere sul piano
salariale devono conquistare l’agibilità minima necessaria per lottare,
cambiando i rapporti di forza base del loro settore. Di conseguenza tirare
le somme di questa giornata è difficile, se non impossibile. Bisogna
aspettare per vedere se questa lotta, insieme a quella dentro alla
Walmart, e altre riesce a innescare un ciclo di conflitto in tutto il
settore entry level, andando oltre ai singoli franchise e ai circa 4
milioni di lavoratrici e lavoratori del settore fast food. Detto questo,
alcuni risultati sono già chiari. Migliaia di precarie e di precari si
sono organizzati, hanno scioperato e sono scesi in strada. Anche se il
movimento rappresenta ancora una minoranza di lavoratrici e lavoratori del
settore complessivo, e non è ancora in grado di produrre chiusure in massa
di ristoranti e massicci danni economici nelle varie catene coinvolte
(McDonald’s, Burger King e Wendy’s le più grosse), la risonanza mediatica
è stata molto forte, provocando dibattiti accesi sulla legittimità della
lotta, la plausibilità delle rivendicazioni e la natura stessa del minimum
wage in tempi di crisi. C’è stata anche una certa risonanza politica a New
York, evidenziata dalla partecipazione di diversi candidati e campaigners
(le prossime elezioni a sindaco e ad altre cariche cittadine sono a
novembre) alle iniziative di lotta, che non hanno perso l’occasione di
farsi intervistare dai (tanti) giornalisti presenti. Il tutto s’inserisce
nella spinta dell’amministrazione Obama (nei pochi momenti lasciati liberi
dalla nuova spinta alla guerra) di aumentare il salario minimo federale a
nove dollari all’ora.

In questo emerge quella che sarà una sfida fondamentale se questo
movimento continuerà ad esistere. Già i sindacati mainstream, in crisi da
tempo, si stanno inserendo in un contesto inizialmente segnato da una
forte autonomia delle lavoratrici e dei lavoratori. C’è anche la
possibilità che il partito democratico cerchi di cavalcare la lotta a
livello locale per sostenere la proposta (tutt’altro che radicale, ma
comunque importante) dell’aumento del salario minimo di 1.75$ e mostrarsi
sensibile alle esigenze della working class e più in particolare delle
comunità afroamericana e ispanica, che rappresentano una parte consistente
(e in molti contesti maggioritaria) della forza-lavoro nella ristorazione
fast food.

Emerge con certezza che lo spazio di conflittualità di classe aperto dalla
crisi e potenziato dal ciclo di Occupy continua a produrre situazioni
d’interesse e riproporre il problema dell’organizzazione, mettendo al
centro il salario ma andando oltre il singolo luogo di lavoro,
intercettando le contraddizioni delle comunità of color e non solo (come
suggerito dallo stesso Boots Riley qualche tempo fa in un’intervista per
questo sito). La forma sindacale è al centro della discussione, ma non è
il soggetto di riferimento, la troviamo come tattica e come
rivendicazione, ma non come forma definitiva dell’organizzazione della
lotta.

Per info:
http://fightfor15.org/
http://www.nycommunities.org/
http://fastfoodforward.org/
http://99pickets.org/