Autore: ca_favale_mlist Data: To: ca_favale_mlist Oggetto: [inquieto] racconti della guerra partigiana nel ponente ligure
Racconti della guerra partigiana nel ponente ligure, tratto da “U Curtu
Vita e battaglie del partigiano Mario Baldo Nino Siccardi, Comandante
della I Zona Operativa Liguria” di Luciano Biga, Dominici editore,
imperia
Il colonnello americano e quello britannico erano stupefatti. Come
potesse un'esercito improvvisato tener testa alle milizie fasciste e
naziste rimaneva per loro un mistero. I partigiani non aspettavano
l'arrivo degli alleati. Si erano guadagnati le armi sul campo,
attraverso imboscate, attacchi temerari, espropri ai danni dei signori
locali sempre stigmatizzati dai burocati del CLN, ansiosi di mantenere
saldo il controllo politico della situazione. Ora era il momento di
installare una base radio, qua vicino alla costa il segnale si propagava
bene. Le case diroccate in pietra sembravano fondersi con le terrazze
circostanti, rimanendo quasi invisibili... visto che tedeschi e fascisti
avevano radiogoniometri con cui intercettare i segnali radio nemici, si
trattava di trasmettere per qualche giorno, e poi cambiare posizione. Il
sistema di allarme per evitare spiacevoli visite notturne era piuttosto
rozzo, ma efficace: una bomba a mano tedesca, di quelle col manico,
rinforzata con un po' di tritolo, innescata mediante un cavo teso tra le
frasche, lungo il sentiero. La seconda notte un boato aveva messo tutti
in allarme: preparatisi al peggio, con una rapida perlustrazione avevano
sentito il guaire di un cane... forse era il caso di tenderlo un poco
piu' in alto, il cavo, cosa che fu fatta per le notti successive.
Le comunicazioni radio vennero effettuate con una certa regolarità anche
se gli attesi lanci di armi e munizioni, richiesti da mesi, mai
arrivarono. In loro vece, dal cielo scendevano casse di vestiti o
dolciumi... Sara' che armare ribelli comunisti e anarchici non rientrava
nelle prerogative della superpotenza yankee, sara' che le azioni di
questi ribelli erano invise alla dirigenza del CLN, saranno entrambe le
cose, fatto sta che di armi, neppure l'ombra.
Il 29 agosto, reparti della V brigata garibaldi “L.Nuvoloni” occuparono
vaste zone della val nervia, dando vita alla libera repubblica di Pigna.
Grazie alle informazioni ottenute via radio si prevedeva un imminente
avanzata degli alleati dalla frontiera francese. Si trattava dunque di
scendere dalle montagne per andare a liberare le citta'. Cosi', le
brigate V e I cominciarono l'avvicinamento per occupare le citta' da
Ventimiglia ad Albenga.
Ma le notizie erano false. Mentre gli alleati rimanevano sulle loro
posizioni, erano piuttosto i tedeschi ad aver cominciato una vasta
manovra di accerchiamento per rastrellare le due brigate.
Le prime avvisaglie del poderoso rastrellamento, che durera' quattro
giorni, incominciano a manifestarsi il mattino del 4 di settembre, la
massa d'urto nemica raggiungera', nello scontro, il suo momento critico
e decisivo, dopo il mezzogiorno del 5, quando una squadra d'assalto
garibaldina, conquistata la vetta del Monte Grande, riuscira' a bloccare
l'accerchiamento che, oramai, stava per chiudersi su piu' di un migliaio
di combattenti della I zona operativa Liguria. La sera prima, l'agente
“argentino” (anziano ragioniere di borgoratto), che riusciva ad avere
notizie sul nemico quasi sempre esatte, invia una staffetta munita del
piano tedesco di attacco, che prevede un impiego di circa 8000 uomini, a
Giacomo Sibilla (Ivan), comandante del II battaglione (IV brigata),
dislocato alla cappelletta del Monte Acquarone, con i distaccamenti 5 e
6. Conscio dell'importanza della notizia Ivan corre a villa Talla dove
e' gia' installato il comando della divisione e l'ispettorato di zona.
Consegna a Curto il foglio dei piani su cui tra l'altro e' scritto: “...
pare che 8000 tedeschi abbiano intenzione di circondare a attaccare I
partigiani imperiesi...”
Curto rimane incredulo. Ivan ritorna indietro per raggiungere il suo
battaglione e marciare su Oneglia. In fondo alla scala dove e'
installato il comando, incontra pure l'ispettore Simon a cui spiega
quanto ha saputo. E' proprio in quel momento che giunge una donna
ansante per la corsa fatta, portando la notizia che I tedeschi sono gia'
ai Molini di Prela'. Allora Ivan risalito alla cappelletta e raccolti I
suoi uomini con una marcia forzata si trasferisce a Prati Piani, mentre
il 7 distaccamento “Romolo” si sposta da Ville S.Pietro a San Bernardo
di Conio.
In giornata, la V brigata e' la prima a percepire quanto sta accadendo e
riesce a sganciarsi in tempo senza subire perdite.
Invece la IV brigata, che nelle prime ore del mattino del 4 era scattata
all'attacco verso la costa, e che aveva scorto da Collabassa, tra
Pontedassio e Montegrande, lungo le strade procedenti verso il nord,
colonne tedesche con mezzi motorizzati, in serata e nella notte tra il 4
e il 5 disorientata e schiacciata da piu' parti, e' obbligata a
ritirarsi dalla Val Prino. Uniformandosi all'ordine ricevuto dal Comando
a mezzogiorno, ripiega in pessime condizioni di visibilita' sulla I
brigata a S.Bernardo di Conio. Però è necessario trattenere i tedeschi
per qualche ora sotto il paese di Villatalla per dar modo alla brigata
di ritirarsi completamente, evitando di essere agganciata. Per questo
compito non facile si prestano Curto, Giulio, Simon e altri uomini del
Comando, per la posizione che occupavano in quel momento, dominante le
due strade di accesso al paese (mulattiera e carrozzabile) le cui
conformazioni rendevano il movimento dei tedeschi lento e circospetto.
Nel pomeriggio questi comandanti, quando non restava loro altro da fare
che ritirarsi e raggiungere le formazioni, riescono a sganciarsi e
ripiegare. Prevedendo un inseguimento immediato e con lo scopo di
coprire alcune forze esaurite della IV, la I brigata si schiera su
posizioni difensive nei pressi delle colline intorno a Montegrande.
Invece il Comando della divisione, quelli delle brigate I e IV e il
distaccamento d'assalto G.Garbagnati, comandato da Massimo Gismondi
(Mancen) prendono posizione presso S.Bernardo di Conio e il Battaglione
Lupi, comandato da Eraldo Pelazza, prende posizione presso il passo
della Mezzaluna.
Partigiani dei distaccamenti della IV brigata ritiratisi dalla Val
Prino, giungono a S.Bernardo di Conio al tramonto, portando drammatiche
notizie: colonne di tedeschi avanzano da tutte le direzioni, incendiando
i casolari che incontrano. Si stenta a credere a tutto ciò. Mentre gli
alleati avanzano da Ventimiglia lungo la riviera, come possono gli
avversari perdere tempo in rastrellamenti? Curto, Cion, Giulio, Simon
non riescono a rendersi conto della situazione. Ma vedendo quelli della
IV brigata affluire ininterrottamente sulle posizioni della I, sono
seriamente preoccupati. Ma la notte trascorrerà senza che si verifichino
gravi episodi.
I tedeschi si spingono su Borgomaro, occupano la zona di Moltedo,
raggiungono il paese di Carpassio e dilagano nella Val di Triora. Da
Pieve di Teco si spingono su Pornassio e su San Bernardo di Mendatica.
La trappola è pronta, scatterà il mattino successivo.
Chiara, la moglie di Curto, infermiera nell'ospedale partigiano di
Valcona, informata della terribile minaccia che incombe sulle formazioni
comandate dal marito, parte in cerca del comandante Martinengo, che ha
nelle bande complessivamente duecento uomini rimasti fuori
dall'accerchiamento. Incontrato il comandante alle Navette, Chiara non
riesce a convincerlo a portare aiuto agli accerchiati. Martinengo non
osa rischiare l'incolumità dei suoi uomini nell'impresa disperata di
tentare di aprire un varco ad una massa di uomini già sbandati, non
preparati a un simile intervento e che, di conseguenza, non avrebbero
appoggiato l'azione dall'interno del cerchio. Martinengo conclude il suo
discorso dicendo che Curto, in qualche modo, se la sarebbe cavata
ugualmente.
All'alba del 5 Settembre i nazifascisti iniziano l'attacco generale per
stroncare definitivamente la resistenza imperiese. Danno la sveglia le
prime raffiche di mitra verso le 5 del mattino. L'avamposto garibaldino
al passo della Teglia, investito da forti pattuglie di avanguardia
nemiche che con i bengala illuminano a giorno il teatro della battaglia,
mette in allarme i Distaccamenti circostanti. Sfondata la difesa
partigiana in direzione del crinale che da nord ovest conduce alla vetta
del Montegrande, i Tedeschi occupano quest'ultima piazzandovi i propri
mitragliatori.
Regnano l'ansia e il fermento nei casoni dove sono dislocati i Comandi.
Tutto viene disposto per il combattimento ravvicinato poichè, per quanto
informano le staffette che giungono da ogni parte, i Tedeschi si trovano
vicinissimi. Hanno investito in pieno la zona da Colla d'Oggia, da Monte
Grande, dal bosco e non c'è via d'uscita. Hanno occupato anche il passo
della Mezzaluna e tutta la cresta montuosa che circonda il bosco di
Rezzo a nord e a ovest, fino a Prearba.
Dalle posizioni di Montegrande il nemico è in grado di controllare e di
battere il raggruppamento partigiano a S.Bernardo di Conio. Col fuoco
intenso delle mitragliatrici pesanti può colpire le colonne di muli,
disorganizzare ogni resistenza, ogni tentativo di sganciamento o di
difesa.
Curto raduna Giulio, Simon, Cion, Giorgio e gli altri componenti il
comando divisionale, viene tenuto un consiglio d'urgenza per esaminare
la situazione profilatasi in tutta la sua gravità e, anche se può
sembrare disperata, viene presa la decisione di attaccare Montegrande
per conquistarlo e così dominare dall'alto tutta la zona e quindi
spingere a destra per aprire un varco ai circondati verso nord ovest;
oppure (ed è quello che si verificherà), bloccare il nemico sulle
posizioni raggiunte per dar tempo ai garibaldini di disperdersi nei
monti della Giara e altrove possibile, prima di rimanere agganciati in
un mortale combattimento. Mentre due mortai partigiani prendono sotto il
fuoco la cima del Montegrande, Mancen con tredici volontari inizia la
scalata del monte per conquistare la posizione tedesca. Non solo questi
uomini sono carichi di armi, ma anche di ansia tremenda perché sanno
bene a cosa vanno incontro, però al di sopra dei loro stati d'animo sta
la decisione, consci della responsabilità di avere nelle proprie mani la
vita di centinaia di uomini. Quasi alla cima del monte, i volontari,
sviluppando un fuoco intenso, attaccano la posizione tedesca e la
conquistano. Il nemico si ritira abbandonando armi, materiale ed un mulo
carico con due casse di cottura. I garibaldini, catturato un tedesco,
corrono oltre, inseguendo il nemico fin quasi al passo della Fenaira.
Si creano così le condizioni per guadagnare molto tempo, dato che il
nemico, disorientato dall'azione partigiana, blocca i suoi movimenti.
L'esercito scalzo può salvarsi perchè l'obiettivo strategico prefissato
dal comando è stato raggiunto. I distaccamenti possono iniziare lo
sganciamento e disperdersi nei boschi, al coperto dall'offensiva nemica,
verso basi più sicure.
La dispersione delle brigate I e IV occupa tutto il pomeriggio del
giorno 5 e la notte successiva. Il tempo peggiora, scrosci di pioggia e
banchi di nebbia investono le cime dei monti, un uniforme grigiore
avvolge ogni cosa. Nella notte i muli vengono disseminati per le stalle
di Rezzo e per le località vicine. Il Battaglione Lupi riesce a
spostarsi verso nord incolume.
Curto e il comando -scrive il partigiano Gino Glorio in un suo diario-
vedono e comprendono che è impossibile pretendere ancora forza dal
morale e dal fisico dei combattenti. Sarebbe necessario dare loro un
poco di cibo, ma i magazzini di Case Rosse sono andati perduti e la
pioggia impedisce di accendere il fuoco. Parecchi distaccamenti, che
avevano trascorso il giorno in tre marce continue, sono senza cibo da 48
ore, nella notte del 5 i partigiani accerchiati non possono andare a
dormire nei casoni che il nemico in rastrellamento può incendiare...
intuiscono che bisogna aprofittare del buio per uscire
dall'accerchiamento. Con questo intento le formazioni si sciolgono, con
la prospettiva di riunirsi altrove, cessato l'accerchiamento. Così
avviene. La mattina del 6 i tedeschi, ricevuti ulteriori rinforzi,
iniziano la terza fase del rastrellamento, occupano borghi e punti
strategici, cercano di chiudere il sacco, ma ad un certo momento si
accorgono che il sacco è vuoto. I partigiani, dopo una drammatica ma
brillante ritirata strategica basata sull'individuale, riescono a
mettersi in salvo. I tedeschi, durante i loro movimenti, incendiano
tutte le baite che incontrano, da ogni parte si innalzano colonne di
fumo. Tre partigiani, catturati nei dintorni, vengono fucilati a
S.Bernardo di Conio.
Gli unici uomini ancora nella zona del rastrellamento sono Curto e gli
appartenenti al comando della Divisione, rimasti fino all'ultimo per
cercare di controllare l'esecuzione dello sganciamento. Vengono sorpresi
all'alba. Riescono a rifugiarsi in un casone ubicato cinquecento metri
sopra la chiesetta della Madonna della Neve di Rezzo. Il loro numero
ridotto (sessanta uomini comprese tutte le staffette dei vari
distaccamenti e squadre), permette loro di occultarsi, evitare la
cattura e l'annientamento. Però solo per un caso fortuito non vengono
scoperti.
Come previsto, le colonne nemiche frugano i fienili, le baite, i casoni.
San Bernardo di Conio è dato alle fiamme, da ogni parte del bosco si
innalzano colonne di fumo. Ad un certo momento sette Tedeschi si
dirigono verso il casone dove è occultato il comando divisione. Quando
sono scorti è troppo tardi per fuggire. Che fare? Si può sperare non
entrino? No, perché essi avanzano proprio verso il casone. E allora?
Allora il garibaldino Franceso Alberti (Monte), maniscalco di Conio, si
offre, andrà lui, vedrà se potrà convincerli e fermarli. E' un poco
anziano, quarantacinque anni, vestito da contadino, lascerà le armi nel
casone. La partita è disperata, se i Tedeschi si accorgono dell'inganno,
la sua fine sarà atroce, e come potrà lui ingannarli se conosce a stento
la lingua italiana? Ma i compagni, prima di essere presi, spareranno e i
loro colpi gli eviteranno una fine penosa. Il volontario esce, richiude
la porta, scende pochi metri, si ferma presso una vigna a sfogliarla. I
compagni, con il fiato sospeso, osservano attraverso le fessure della
porta. I tedeschi scendono, si fermano, chiamano con le loro voci
gutturali. Il partigiano si alza, viene circondato, discute, dal casone
non si afferrano le parole. I tedeschi gesticolano, indicano
ripetutamente la casa, poi il gruppo si avvicina: non c'è dubbio,
vengono. I partigiani si schierano a semicerchio intorno alla porta,
puntano un mitragliatore. Se quelli entrano, una raffica e si balza
fuori, qualcuno forse potrà salvarsi. Quanto impiegheranno a giungere
fin qui? Un minuto forse, ma può darsi che prima circondino la casa o
che piazzino una mitraglia contro la porta o che attendano rinforzi, o
che brucino il casone senza entrarci. I minuti passano eterni, che sarà
successo? I partigiani si accostano all'uscio: i Tedeschi sono sempre lì
fuori, ridono, parlano, che fanno? Si guarda tra una tavola e l'altra:
sono sempre lì a pochi metri che mangiano mele selvatiche, alcuni
raccolgono frutti sugli alberi di mele che crescono presso il casone.
Gli altri sono seduti sull'erba. Si potrebbe far loro una sorpresa
balzando fuori all'improvviso. I tedeschi non sono in grado di reagire
ché, è evidente, non pensano di essere osservati. L'idea è buona, uccisi
parecchi, ci si disperde nel bosco. E' buona ma non si può, i Tedeschi
che sono un poco più in basso hanno un ostaggio prezioso, il compagno
che ha rischiato per tutti, piu' di tutti. Il tempo passa e il nemico è
sempre lì fuori, e se qualcuno vuole provare ad entrare? Riposatisi, i
tedeschi si alzano prendendo in mezzo il partigiano che era uscito dalla
casa e se ne vanno. Venne portato a Rezzo. Aveva detto di essere un
contadino che era in quel momento uscito dal suo casone. A Rezzo i
Tedeschi chiesero agli abitanti se lo conoscevano, se era un bandito o
realmente un contadino del luogo. La gente confermò le parole del
prigioniero. I tedeschi lo trattennero per qualche ora, poi lo
rilasciarono.
Finalmente anche il giorno 6 ha termine. Il nemico riunisce i reparti
rastrellatori, riforma le colonne, si concentra a fondo valle. Il pugno
di ferro si era stretto: che aveva preso? Nulla, quasi nulla. Su più di
un migliaio di partigiani, solo una decina erano caduti nella rete.
Alle ultime luci del tramonto, i Tedeschi lasciano il bosco, le macerie
fumanti di S.Bernardo di Conio, di Case Rosse, di Case dell'Erba, delle
cascine e dei fienili distrutti, indicano che anche lì, come a Triora, a
Molini, a Pornassio, a Villa Talle, erano passate le truppe di Hitler.
Non note le perdite nemiche. La popolazione aveva visti scendere per la
rotabile di Rezzo alcuni carri chiusi e sanguinanti. Terminato il
rastrellamento, il Comando Divisionale, su consiglio di Curto,
nuovamente dispone la sua dislocazione nel bosco di Rezzo, riuscendo a
riorganizzare in brevissimo tempo tutta la Divisione, dai comandi ai
distaccamenti, per prepararla alle previste battaglie autunnali. In
conformità alla critica storica, non si chiarì mai lo scopo degli
annunci radio alleati della loro offensiva sulla costa ligure, poi
mancata, con la conseguenza di determinare per alcuni giorni una
situazione gravissima per le formazioni partigiane.
Il paese di Upega è posto a fondovalle. Sotto il paese scorre il
torrente Negrone, a monte un ripido pendio dirupato, di fronte è il
Bosco Nero. Il nemico che giunge dal bosco può piazzarsi senza essere
visto, di fronte al paese, e di là battere col fuoco delle
mitragliatrici, precludendo ogni via di scampo.
Il nemico era stato informato sul movimento partigiano, poiché, come
prima sapeva che il Comando Partigiano era a Piaggia ed in quella
direzione aveva puntato tutte le sue forze, presto venne a conoscenza
che tale Comando si era trasferito a Upega, contro cui preparò un'azione
condotta da un “commandos” formato da circa duecento soldati SS e alpini
austriaci. La spia nel comando della Cascione aveva funzionato con
efficacia. L'attacco a Upega giunse dal Tanarello, da Limone, o da
Briga, e la sorpresa fu completa.
Il nemico si avvicina silenzioso, coperto dalla fitta boscaglia. Al
limite del paese, verso le Fascette, in una casa a destra, è il Comando
divisionale. A sinistra, in un altro locale, gacciono i feriti, tra cui
Cion, che sonnecchia e a cui il Curto ha preso il mitragliatore per
andare a compiere un giro di ispezione. I Tedeschi riescono ad eliminare
i posti di guardia partigiani e giungono alla periferia del paese senza
essere segnalati. Sono udite alcune raffiche, cadono alcuni partigiani
di Porto Maurizio. Con il nemico a due passi e con gli spari che
rimbombano vicinissimi, molti rimangono confusi e cercano di
allontarsi.
Chi conserva la calma è Curto, impassibile come sempre, cerca di
raggiungere chi si allontana, di ispirare loro fiducia, ma invano.
Fallito il tentativo di raggruppare i partigiani a scopo difensivo e
strappare al nemico il tempo necessario per trasportare i feriti nella
cappella del cimitero del paese o nel Bosco Nero, come era stato
precedentemente convenuto, Curto raggiunge al Comando il commissario
Giulio, ed i due attuano il disperato tentativo di arrestare da soli
l'avanzata del drappello tedesco. Sanno che è impossibile in due fermare
la valanga, ma forse guadagneranno i pochi minuti necessari per mettere
in salvo i feriti, per poi morire. Giunti fuori dal paese scorgono in
alto, a sinistra, i Tedeschi che avanzano su due colonne distanziate.
Giulio e Curto salgono rapidamente una mulattiera e, portatisi in cima
al borgo, all'altezza dei tedeschi, si appostano dietro una casa. Da lì
possono sparare a trecento metri con il mitragliatore contro il nemico
quando sarà giunto a tiro. Mentre Curto prepara la propria arma semi
inceppata, Giulio scorge i tedeschi, si sposta fuori dal muro che lo
ripara e li raffica. Poi, rivolgendosi a Curto, col viso pallido e lo
sguardo stupito, mormora :”sono ferito”. Compie qualche passo indietro,
a ridosso della casa, e consegna l'arma al compagno al quale si
appoggia. Arretrano entrambi qualche centinaio di metri, non visti dai
tedeschi che tardano ad avanzare. Le forze di Giulio gradatamente
cedono, non riesce più a camminare. Curto lo aiuta in tutti i modi ad
andare avanti per raggiungere almeno una località sicura, tra le rocce,
sopra il passo delle Fascette. Dal basso giungono gli urli laceranti
della mitraglia, l'eroico destino di Cion e dei suoi compagni sta
compiendosi. Il ferito si trascina ancora avanti, non desidera riposare
in un grande cespuglio, ma alle rocce delle Fascette, da cui più in là
non si può andare. Un luogo nascosto ripara i due uomini. Giulio,
disteso sul dorso e con il respiro ansante, ogni tanto a stento alza la
testa per osservare i movimenti dei nemici sottostanti. Preparate vicino
a sé le armi automatiche per una estrema difesa, e aperta la camicia
piena di sangue, Curto scruta la gravità della ferita del compagno: una
pallottola, entrata a sinistra, è uscita alla destra del ventre, e anche
i visceri sporgono fuori. Capisce che per Giulio è la fine, ma non gli
dice niente e decide di attendere lì, a fianco, la sua morte. Non gli
rivolge domande cosa dire ai parenti, affinchè il morente non si accorga
della sua fine. Poi, il ferito entra in coma, respira affannosamente,
chiede disperatamente acqua che Curto non gli può dare: ha una gran
sete, l'emorragia interna segue inesauribilmente il suo corso. L'agonia
dura tre ore, circa alle 18, dopo un sussulto, Giulio rimane esanime.
Coperto pietosamente il corpo con la giacca, raccolte le armi e
incamminatosi oltre il passo delle Fascette, alle ore 20 Curto giunge a
Carnino, ove reca la dolorosa notizia (7). Anticipando i termini
dell'ordine cronologico degli episodi, ricordiamo che Curto, ritornato
cinque giorni dopo da Fontane dove era giunto con le Brigate I e V
durante la ritirata in Piemonte, per cercare la moglie Chiara, dispersa
tra i monti nella bufera della battaglia, con le due piccole figlie Enza
e Silvia, transitando da Upega recupererà e seppellirà con l'aiuto di
due garibaldini, il cadavere di Giulio.
Anche Cion (che è nipote di Curto), ai primi spari, adagiato da
partigiani e dai congiunti, che si trovavano con lui, sulla barella,
viene portato fuori dal ricovero, ma per non cadere vivo in mano ai
tedeschi, come è noto, si uccide con un colpo di pistola, sul sentiero
che porta al cimitero.
La tragedia si conclude, il comandante della Volante muore da
partigiano. I tedeschi domandano chi era il partigiano suicidatosi, fu
loro riferito che era Cion. Essi non avevano potuto averlo vivo. La
radio tedesca in italia diede la notizia della morte di Cion come un
successo delle sue armi. Questo fu certamente l'omaggio più grande alla
sua memoria ed il riconoscimento di quanto egli valesse e di quanto
avesse perduto la Resistenza con la sua morte. I tedeschi, occupato il
paese, bruciano armi, documenti, zaini e tutto quello che di partigiano
viene trovato. Rinchiudono gli uomini del paese nella canonica. Fanno
scavare una fossa comune dagli abitanti locali e vi gettano alla rinfusa
i cadaveri dei caduti. Battono il bosco, uccidendo altri partigiani. La
tragedia di Upega è costata alla Resistenza quasi una ventina di caduti.
Nei boschi, dispersi, sono nuclei di partigiani, sono intere bande. C'è
Simon su una barella. Ci troviamo a Piaggia di Briga Marittima scrive
il cappellano partigiano Nino Don Martini nella prima metà del mese di
ottobre. Simon ha una temperatura variabile tra i 39 e i 40 gradi di
febbre. Intanto le notizie che giungono sono sconcertanti. Gli Alleati,
fissandosi sulla frontiera italo francese secondo i piani prestabiliti,
danno libertà e agibilità alla ferocia di qualche migliaio di
nazifascisti e delle SS tedesche contro i partigiani. Noi, riuscendo a
uscire fuori dal rastrellamento, troviamo rifugio e salvezza in Valle
Scura, dove Simon riuscirà a guarire.”
Giorni di inferno e di terrore, senza cibo, senza asilo, sotto la
pioggia, i partigiani si aggirano nei boschi cercando una via per uscire
dal cerchio, evitando le mulattiere e i sentieri perché vi passa il
nemico, e nel bosco si può averlo di fronte a dieci metri,
all'improvviso. Triste è in modo particolare la situazione di quegli ex
nemici della Divisione San Marco che erano passati alle formazioni
garibaldine. Essi vedono il bosco per la prima volta e non sanno dove
dirigersi e non hanno chi li guidi. Coi fuggiaschi si sparge la notizia
della tragedia. I tedeschi ripetono :”Stella Rossa Kaput, cattivi
banditi distrutti”. Essi sostano a Upega fino alla sera del 19, poi
partono, il nemico rastrella anche le valli di Mendatica e di Rezzo,
presidia Nava, Pieve di Teco, Mendatica, San Bernardo e Piaggia. Al
Tanarello scava trincee, convinto oramai che l'organizzazione partigiana
sia debellata per sempre.
Dunque, eseguendo le disposizioni emanate da Simon, mentre era
gravemente malato, il Comando della Cascione e le brigate I e V si
mettono in marcia la sera del 17 ottobre 1944 per raggiungere il basso
cuneese, attraverso il passo del Bochin d'Azeo sul Mongioie.
Inizialmente si pensa di sostare a Viozene, ma ciò non è possibile
perché, come abbiamo già ricordato, il nemico ha raggiunto Ponte di Nava
e può tagliare da un'ora all'altra la ritirata delle due brigate, per
cui nella notte si riprende la marcia. La V brigata è in testa, col suo
comandante Vittorio Guglielmo (vittò), marcia per prima, nella notte
oscura. Lunga e faticosa è la salita fino al passo, di cenare non se ne
parla. Rezzo, Piaggia, Upega, Carnino, Viozene, Bochin d'Azeo: i paesi
della ritirata della I brigata, più numerosi di quelli della ritirata
della V. La salita è aspra e faticosa, le soste sempre più frequenti, il
clima sempre più rigido. Il peso dello zaino e dell'arma durante la
marcia fa sudare, stanca; basta fermarsi pochi minuti perchè il vento
notturno geli il sudore, intirizzisca; ciò nonostante la colonna si
ferma sempre più spesso, sempre più a lungo. Durante la marcia si
propaga la notizia della morte di Cion e di Giulio. Esclamazioni di
furore rispondono al racconto del garibaldino superstite da Upega che ha
confermato la notizia tanto temuta. La triste notizia si propaga lungo
la numerosa fila di armati portando lo scoramento in quegli uomini che
idolatravano i loro capi.
Testimonia un garibaldino:” La neve si fa più alta, seguiamo in silenzio
la guida che si è offerta di accompagnarci fino al passo. Voltandomi mi
è dato di vedere una scena che non scorderò mai più: una interminabile
fila di uomini che avanzano serpeggiando sul fianco della montagna
arrancando a fatica, curvi sotto il peso delle armi; non sembravano
neppure uomini, ma bensì spettri perchè non si udiva alcun rumore,
nessuna voce che potesse far capire che non erano anime che venissero
dall'aldilà”.
Scrive il partigiano Giovanni Rebaudo (Janò), al riguardo della ritirata
della V brigata in Piemonte: “Visto che l'operazione di rastrellamento
si stava estendendo su tutto il territorio dell'imperiese, tra gli
altri, venne dato l'ordine al terzo distaccamento (V brigata) di
ripiegare gradatamente verso le alture piemontesi, anche per convincere
i nemici di avere sgominato le bande. Dopo diversi giorni di marcia in
diverse tappe, passando per Cima di Marta, Gerbonte, Castagna, Monte
Pellegrino, si arrivò a Viozene. Sperando di fermarci qui, requisimmo
come nostri accantonamenti tutti i fienili. Ventiquattro ore dopo,
mentre si attendevano notizie precise, giunse Vittò, comandante la V
brigata Nuvoloni, e si mise a capo della nostra colonna che si incamminò
per l'altura verso il passo del Bochin d'Azeo sul Mongioie. Sapemmo così
che la nostra meta era Fontane, un paese nella provincia di Cuneo,
nell'alta Val Corsaglia. Giunti quasi al passo ci fermammo un paio d'ore
per riposare mentre si decise il servizio di guardia e chi doveva
rimanere al passo per proteggere la marcia della V brigata verso
Fontane. A mezzanotte la marcia riprese e il grosso raggiunse il paese
verso l'alba. Al passo rimasero Vittò, Janò capo squadra, Domenico
Siboldi (Spada), Antonio Allavena (Cuma), Emilio Arizzi (Penna),
Giovanni Bonatesta (Vencu) e Silvio Lodi (Bersagliere), armati di due
mitragliatori, oltre alle armi individuali. Allo spuntare dell'aurora,
dopo una notte calma ma non fredda, si vide in lontananza, in
fondovalle, il movimento di una colonna che ripercorreva la stessa
strada fatta da noi la sera prima; erano i nostri del Comando Divisione
e della I brigata, già accampati a Upega e a Carnino. Li guidava Curto.
Quando giunsero al passo, potemmo notare che erano reduci da una lotta e
si visse un momento di commozione quando Curto, nella sua figura
imponente, con il vestito di tueed strappato e sporco di sangue, si
buttò nelle braccia di Vittò singhiozzando e poi quando ci disse che
erano morti Cion, Giulio, De Marchi e alcuni altri. Nel raccontarci ciò,
pur pacatamente, Curto non si vergognò di farsi vedere piangere. Mi
rimase impresso quest'uomo che pur con lo strazio di chi vide uccidere i
compagni davanti agli occhi, mantenne la calma e non ebbe odio disperato
verso i nemici. Dopo un riposo di circa trenta minuti, si riprese la
marcia verso Fontane, dove giungemmo a mezzogiorno, dopo aver superato
mille ostacoli. Infatti, la neve è alta, i muli affondano fino alla
pancia, dei sessantaquattro che seguono la colonna, tre muoiono
congelati, molti vengono trascinati a braccia dai garibaldini attraverso
le scoscese pietraie sulle quali non possono procedere da soli. La
stanchezza è grande e le scarpe fradice fanno male. Quando la neve
scompare, la colonna procede più rapida. Oramai il giorno 18 appare
chiaro. Le castagne che si possono raccogliere durante la marcia,
vengono mangiate crude.