[Forumlucca] VIVERE SENZA LAVORO di Gustavo Esteva

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著者: Aldo Zanchetta
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To: forumlucca, 'Lista di discussione politica della Valle del Serchio \(Garfagnana e Media Valle\)', lucca-mattaccio
題目: [Forumlucca] VIVERE SENZA LAVORO di Gustavo Esteva
Questo articolo di Gustavo Esteva apparso su La Jornada di lunedì scorso e
solertemente tradotto dagli amici di Comune-info ci sembra di particolare
interesse. Nel corso di un tour che inizierà a Venezia il 4 aprile e si
concluderà a Roma il 13 e 14 successivo, Gustavo Esteva sarà a Lucca giovedì
11. Seguiranno dettagli sull’incontro organizzato dal GAS Il Mattaccio e
dalla Fondazione Neno Zanchetta



<http://comune-info.net/2013/03/vivere-senza-lavoro/> VIVERE SENZA LAVORO

GUSTAVO ESTEVA

22 marzo 2013

La peggiore delle crisi è quella dell’immaginazione. Generalmente, perfino
chi perde un lavoro salariato che umilia la sua dignità, non riesce a
pensare a nulla che vada oltre la necessità di «conservare» la propria
sopravvivenza. La crisi del sistema sottopone l’enorme massa di persone che
vive senza un lavoro salariato – e non può aspettare di trovarne uno – a un
inedito e violento attacco ai mezzi di sussistenza. Il sistema che ci
domina, per riprodursi, ha nuovi bisogni: avvelenare l’acqua (con le miniere
in <http://comune-info.net/2013/03/la-nuova-resistenza-andina/> Perù),
sterminare i pesci (con l’eolico in
<http://comune-info.net/2013/03/la-vita-e-la-lotta/> Messico) e varare altre
attività vandaliche necessarie alla costruzione di mega-impianti e grandi
opere (contro le quali si muovono diversi
<http://comune-info.net/2013/03/la-primavera-dei-beni-comuni/> movimenti
territoriali). I «senza lavoro», allenati a inventare percorsi nuovi e
(fr)agili per procurarsi da vivere, non hanno nulla da conservare, sono
costretti a creare nuove forme di resistenza

In tutto il mondo, e particolarmente in Europa e in America Latina, i
lavoratori salariati protestano nelle strade. A milioni. Chiedono che gli
sia restituito ciò che hanno appena finito di togliergli e che non gli sia
tolto altro. Chiedono lavoro. Riescono a ottenere, qui e là, il cambiamento
di qualche funzionario, oppure a limare gli spigoli più acuti alle politiche
neoliberiste, come qualche volta ha proposto López Obrador (il candidato
progressista messicano sconfitto nelle ultime «presidenziali», ndt). Non ce
la fanno, tuttavia, ad andare oltre questo.

Il loro messaggio è chiaro. C’è qualcosa di peggiore che essere sfruttato:
non essere sfruttato. Esigere lavoro significa chiedere la restituzione
delle proprie catene. Dobbiamo cercare di comprendere, tuttavia, l’animo
conservatore di tanti lavoratori. Non è che siano diventati improvvisamente
reazionari. È che non hanno scelta: senza lavoro non possono sopravvivere e
molti patiscono la peggiore delle nostre crisi, quella dell’immaginazione.
Non riescono a immaginare un altro senso della lotta attuale.

Tuttavia, queste persone non stanno avendo successo nemmeno in questo
obiettivo di pura sopravvivenza. I governi hanno imparato a non far caso
alla gente… e non sanno come muoversi, dentro il loro limite mentale,
politico e pratico. Per questo c’è bisogno di varcare quel limite; e siccome
non accade arriba (in alto), bisogna farlo abajo (in basso). È esattamente
quello che stanno facendo milioni di persone, ovunque. Non possono
continuare ad aspettare.

Nelle loro file ci sono, prima di tutto, coloro che non hanno mai avuto un
lavoro e non nutrono alcuna speranza di conseguirne uno. Essi non hanno
altra opzione pratica che quella di vivere senza lavoro, facendo la loro
vita.

Il gruppo più numeroso di questo settore è quello di chi lavora «in
proprio», senza rendere conto a un padrone. Queste persone hanno alcuni
mezzi o abilità che gli permettono di agire con indipendenza.
Occasionalmente, poi, s’impiegano qui e là, quando capita qualche lavoretto
temporaneo. In questa fascia sociale, si trovano anche i migranti, che a
volte vanno via per una stagione dai luoghi in cui risiedono, aiutano la
loro famiglia e la loro posizione nella comunità con le rimesse, e poi
tornano a casa.

È un settore immensamente eterogeneo ed è il più grande della popolazione
che vive in America Latina. Ne fanno parte i contadini e quelli che qualcuno
continua a chiamare i «marginali» urbani, sebbene, ben lontani dal restare
«al margine», si costituiscono sempre più come il centro della vita sociale.

Molte persone tra quelle che possiamo collocare in questa parte della
società non se la passano tanto male quanto alcuni lavoratori che sono
rimasti senza impiego. Sanno sopravvivere da sé e la crisi è sempre stata il
loro contesto di vita, del quale fa parte dunque anche la lotta. Per alcuni
di loro è un atto quotidiano inevitabile: lottare con la polizia, con
l’ispettorato, con tutte le strutture di potere che li vedono come una
minaccia o una patologia. Per altri è come l’aria, come respirare, non
riescono a immaginare la vita in un altro modo.

Di certo, alcuni non se la passano male quanto i disoccupati, ma sarebbe da
irresponsabili dire che stanno bene. Le crisi che patiamo causano
deterioramento per tutti. Per loro, ciò di cui si risente maggiormente è il
salto indietro del capitale. Di fronte all’impossibilità di continuare ad
accumulare rapporti di produzione nell’economia reale, che nessuno riesce a
resuscitare, il capitale intensifica le forme di accumulazione per esproprio
che non aveva mai abbandonato. Quello che questo settore patisce, più degli
altri, è l’assalto brutale ai suoi mezzi di sussistenza, come ai tempi della
recinzione degli ambiti di comunità che fondò il capitalismo.

I governi «progressisti» dell’America Latina, e perfino quelli che si
cimentano con il socialismo del secolo XXI, appoggiano questo assalto al
settore informale. Come ha spiegato García Linera, il vicepresidente della
Bolivia, quando è venuto da queste parti (in Messico, ndt), loro si
mantengono nel recinto della struttura formale dello sfruttamento, pubblico
o privato, cosa che giustificano con il fatto che redistribuiscono
l’«eccedenza», che non hanno il coraggio di chiamare plusvalore, attraverso
i programmi sociali. Oppure, come ha detto Correa (il presidente
progressista dell’Ecuador, ndt ), nel cercare di giustificare
l’estrattivismo: Marx non ha detto nulla contro le miniere. È vero. Ha
parlato, però, forte chiaro contro lo sfruttamento, ha parlato
dell’accumulazione originaria e dell’esproprio. Di questo si tratta oggi.

Coloro che attualmente difendono il loro territorio dalle imprese minerarie,
da quelle dell’energia eolica, dai mega-progetti e così via, non sono
neo-luddisti e nemmeno vogliono andare a marcia indietro nella storia.
Affrontano con lucidità la guerra contro la sussistenza, contro l’autonomia,
contro la vita stessa, una guerra che si dispiega in uno stile che ha un
taglio sempre più coloniale.

Nel farlo, quelli che difendono i territori non vogliono solo conservare
quel che hanno. Sanno che la sola maniera efficace per resistere è creare
qualcosa di nuovo, aprirsi a una nuova società, occuparsi seriamente di un
cambiamento radicale. A differenza dei lavoratori salariati, non c’è in loro
un animo conservatore. Essi sanno che soltanto un cambiamento radicale potrà
fermare l’orrore che è in corso. E lo stanno facendo.

Questo articolo è uscito sul quotidiano messicano La Jornada (che
ringraziamo per la gentile concessione) del 18 marzo 2013 con il titolo
«Escapar del conservadurismo».

Traduzione per Comune-info m.c.

Il reportage di Raúl Zibechi sul Perù, «
<http://comune-info.net/2013/03/2013/03/la-nuova-resistenza-andina/> La
nuova resistenza andina», è un esempio pratico di quello che dice Gustavo
Esteva. Questi temi sono al centro anche di «Crack capitalism» (Derive
Approdi) di John Holloway (in particolare i capitoli dedicati al lavoro
astratto e al «fare» contro il lavoro). Con Gustavo Esteva sarà possibile
parlarne durante l’iniziativa «
<http://comune-info.net/2013/03/linsurrezione-delle-persone-comuni/>
L’insurrezione delle persone comuni» promossa da Comune-info sabato 13
aprile a Roma.