- Linda Chiaramonte
Marina Barham, che con la compagnia palestinese al Harah, lavora soprattutto nei campi profughi della Cisgiordania, racconta come il palco diventi per i bambini uno strumento potente, «l'unico posto sicuro per esprimere ciò che sentono senza paura»
«Theater is hope», il teatro è speranza, dice con un sorriso aperto e gli occhi che brillano Marina Barham, esponente del gruppo teatrale palestinese al Harah, vicino Betlemme. Una compagnia itinerante che lavora soprattutto con bambini e giovani nei campi profughi di tutta la Cisgiordania, con una vocazione culturale, sociale ed educativa molto forte che coinvolge la società civile promuovendo i diritti umani, la democrazia e la libertà di espressione come chiave per costruire una società dinamica. La compagnia non perde mai di vista che per i ragazzini il palco e i laboratori rappresentano «l'unico posto sicuro in cui stare per esprimere ciò che sentono e pensano, senza paura né censura». Un momento importante in cui i più piccoli «hanno uno spazio in cui essere bambini e godere della loro infanzia, mentre ogni cosa intorno a loro è politica».
Alla fine dello scorso anno Barham è stata ospite del teatro dell'Argine, alle porte di Bologna, per tenere un workshop nell'ambito del progetto di teatro interculturale Acting Diversity, di cui fa parte anche l'inglese Badac Theatre Company, rivolto a richiedenti asilo, giovani migranti e non solo. Da alcuni anni il teatro bolognese lavora con una compagnia formata da rifugiati politici, con cui costruisce diversi spettacoli. Cosa che accadrà anche dopo questo scambio, sui temi del razzismo, della tolleranza e dei diritti.
I veterani dei profughi
Chi, meglio del popolo palestinese, può incarnare lo status di rifugiato, partendo dalla consapevolezza che esserlo è differente nelle diverse parti del mondo e che, come sottolinea la Barham, «i profughi palestinesi sono un caso unico al mondo perché lo sono da oltre sessant'anni, da cinque generazioni; a partire dal 1948, quando quella condizione si credeva temporanea, mentre nel 1967 lo siamo diventati per la seconda volta. Fra West Bank, Striscia di Gaza, Giordania, Siria e Libano, il numero dei rifugiati è più alto di quello dei residenti».
All'incontro con Marina Barham hanno partecipato più di una ventina di ragazzi, afgani, nordafricani, congolesi, camerunensi, e una giovane cinese, in città per motivi di studio, che ad un tratto prende la parola e fa un intervento sulla mancanza che sente per il proprio paese, ma che affiora solo la notte, in sogno o negli incubi che le ha raccontato la sua compagna di stanza. Uno strappo, che di giorno fatica ad ammettere, da un paese da cui ha voluto andare via e dove non intende fare ritorno. Una coetanea africana racconta il suo dolore per essere stata costretta a lasciare tutto, accenna solo a quanto è stata dura senza scendere nei particolari, che si intuiscono essere drammatici.
«Nessuna persona lascia il suo paese se non è costretta a farlo - commenta Marina Barham - non si sceglie di lasciare tutto e ricominciare da capo da un'altra parte, ecco perché il teatro è uno strumento utile, perché si può interpretare il ruolo di altri e condividere la propria storia. Questo aiuta molto per capire se stessi e gli altri. Noi di Al-Harah - aggiunge - siamo convinti che si possa usare il teatro per cambiare la comunità in maniera positiva, che abbia una funzione socialmente utile per i diritti delle donne, dei bambini, dei disabili. Mettere in scena un lavoro può avere un grande impatto sulla gente e cambiare il modo di vedere le cose. Lavorare con i bambini e i giovani serve a renderli consapevoli e capaci di avere fiducia in se stessi, un posto sicuro in cui esprimersi liberamente su tutto ciò che accade intorno a loro in fatto di violenza e occupazione. Ascoltiamo le storie, e questa è una fase in cui sentiamo che tutta la stanchezza, la fatica e gli sforzi che facciamo hanno un senso». La Barham fa l'esempio di Christine, 20 anni, laureata e sposata, che durante una visita da parte di una delegazione svedese ha spiegato cosa rappresenta il teatro per lei che vive in una società patriarcale, dove in famiglia, a scuola, ovunque le dicono cosa fare, ma che dal palco nessuno può fermarla dal dire quello che vuole. La platea è obbligata ad ascoltarla. Un altro ragazzo ha definito il teatro come qualcosa senza limiti se non il cielo. Dove può dire quello che vuole e nessuno lo può fermare. «Abbiamo lavorato in vari campi dove il teatro ha avuto un effetto concreto sulle vite dei giovani - racconta ancora Barham - che provano a scegliere un futuro migliore. È uno strumento davvero potente, con cui trattiamo questioni molto difficili, tabù nella società, come lo stupro nella comunità, o l'accettazione dei malati di Aids e dei disabili».
Lo spazio dell'infanzia
È un teatro senza palco né spazi, ma che si sposta ed entra nelle scuole, nei centri culturali, un teatro che si esibisce anche per le strade di città e villaggi, che ha forti relazioni con la società civile. «Nelle performance per i bambini cerchiamo di non parlare di politica - spiega Marina Barham - scegliamo soggetti significativi, ma pieni di musica e colori per dar loro la possibilità di avere uno spazio in cui essere bambini. Anche se spesso durante i laboratori disegnano il muro e le sparatorie. Una volta una ragazzina ci ha detto che un giorno sarà una martire, dobbiamo lavorare e lottare contro tutto ciò che ha causato questo, per convincerla a non pensare così. La realtà è che molti bambini nascono e crescono vedendo morte attorno a loro. Attraverso il teatro vogliamo che vivano la loro infanzia e la vita con la consapevolezza che non è loro responsabilità lottare. Molti bambini sentono che l'unico modo per aiutare la Palestina sia prendere in mano una pietra e lanciarla. Il teatro offre loro un'altra scelta; esprimere se stessi attraverso l'arte. Costruiamo anche spettacoli sul tema degli abusi usando le marionette, così, attraverso un medium, si fanno parlare i ragazzi di cose che stanno nascondendo».
Non parla solo di teatro Marina Barham, ma anche del riconoscimento di stato osservatore conferito alla Palestina dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a fine novembre scorso. «Secondo la legge internazionale se diventassimo uno stato vero e proprio - spiega - perderemmo subito il diritto ad ogni richiesta di fare ritorno nei nostri villaggi di origine. Potremmo perdere lo status e i diritti di rifugiati. È una presa in giro, perché siamo ancora sotto occupazione militare israeliana. È solo scritto sulla carta, ma non significa niente».
Una luce in fondo al tunnel
Al-Harah ha in programma un lavoro insieme al teatro dell'Argine sul tema delle donne single in Palestina, menter l'attore e regista bolognese Pietro Floridia contraccambierà presto la visita di Marina Barham a Bologna recandosi in Palestina per condurre un laboratorio teatrale.
Al-Harah sarà poi in tour in Svezia con una produzione europea su un testo marocchino che parla di rifugiati in Belgio. Del suo sorriso aperto Marina Barham dice: «Se non sorridessimo sulla nostra situazione non saremmo in grado di continuare a creare soluzioni. A volte siamo molto frustrati, ma dobbiamo trovare una luce in fondo al tunnel. Senza questa convinzione moriremmo. Forse il teatro ci sta aiutando a fare questo. Proprio quel teatro che dà speranza ai giovani, al pubblico e a noi che ci lavoriamo, che racconta le nostre storie agli altri. Attraverso le arti possiamo educare la gente sulla situazione in Palestina».