Autor: Massimiliano Piagentini Data: Para: forumlucca Asunto: [Forumlucca] Messina e la Folgore: "A chi l'Università?" "A noi!"
Messina e la Folgore. “A chi l’Università?” “A noi!”*
di /Antonio Mazzeo/
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All’Università degli Studi di Messina comandano pure quelli della
Brigata Folgore. Anni addietro in tanti ci avevano messo gli artigli:
massoni, ‘ndranghetisti e faccendieri, ordinovisti e avanguardisti,
procacciatori di voti e clientele, le grandi aziende farmaceutiche e di
costruzione, perfino le società arricchitesi con il mito del ponte sullo
Stretto. Adesso arrivano pure i vecchi e i nuovi parà a dettar legge,
imporre liste di proscrizione contro qualche docente e ordinare il
disconoscimento e la rimozione delle ricerche scientifiche sgradite.
Casus belli la pubblicazione nel gennaio 2012 nei quaderni del “Centro
Interuniversitario per le ricerche sulla Sociologia del Diritto,
dell’Informazione e delle Istituzioni Giuridiche” (CIRSDIG) di un saggio
dal titolo /Autoritarismo e costituzione di personalità fasciste nelle
forze armate italiane/.Autori i sociologi Charlie Barnao e Pietro Saitta
che articolano la ricerca sulla base del racconto autobiografico sul
servizio di leva che ilBarnao stesso svolsedal settembre 1993 al
settembre 1994 nella Brigata Paracadutisti Folgore (i primi due mesi
nella Caserma addestrativa diPisa e il restante periodo nel 186°
Reggimento di Siena), arricchito da alcuni ritorni sul campo e
interviste a testimoni privilegiati tra il2000 e il 2009.
La ricerca ha inteso dimostrare come il processo addestrativo che si
svolge nel Corpo dei parà sia concepito per formare “personalità
autoritarie e semi-apertamentefasciste”. In particolare vengono
analizzati rituali, pratiche e meccanismi adattativi tipici
dell’organizzazione militare ma anche la modalità di riproduzione ed
espansione del background culturale di coloro che transitano poi dalle
file dell’esercito a quelle delle forze dell’ordine (polizia,
carabinieri, ecc.) interagendo con la popolazione civile sia in scenari
di routine (pattugliamento, assistenza, pronto intervento) che di ordine
pubblico. Per Barnao e Saitta la professionalizzazione e lasostanziale
commistione di ruoli, attitudini, pratiche e ideologie delle forze
armate e di polizia rappresentano un grave pericolo per la tenuta della
debole democrazia italiana e per i diritti di libertà dei cittadini. “E
la Folgore costituisce un modello di riferimento per il dispositivo
sicuritario nazionale, rivolto al fronte interno come a quello esterno”,
spiegano i ricercatori.
Le pratiche quotidiane di formazione dei giovani parà, sin dal loro
ingresso nell’istituzione, sono segnate da deliberati, ricorrenti e
gravi episodi di violenza. “Si inizia con l’azzeramento delle abitudini
acquisite, della cancellazione dell’orizzonte valoriale e normativo
precedentemente appreso”, scrivono Barnao e Saitta. Lo scenario in
caserma è quello magistralmente descritto nelfilm /Full Metal Jacket/ di
Stanley Kubrick: ordini urlati, annullamento di qualunque individualità,
azioni imposte dai superiori in modo apparentemente illogico e per
ragioni incomprensibili, ecc. “L’appellativo più usato per indicare
l’allievo paracadutista è quello di /mostro/. Si è mostri perché si è
vestiti con taglie sbagliate, con baschi troppo grandi o troppo piccoli,
con divise che deformano. Si entra in quella terra di nessuno in cui non
si è né carne né pesce, né civili né militari, né fanti né
paracadutisti”. A sancire e rinforzare il passaggio verso lo status di
paracadutista c’è un rituale d’eccellenza: si tratta della
cosiddetta“pompata”, una serie infinita di piegamenti sulle braccia,
eseguita dai giovani su ordine diretto di un superiore. Per forgiare ed
esaltare la forza bruta, muscolare, piegandosi con busto e braccia
davanti all’autorità assoluta dei capi.
Ci sono poi le piccole e grandi tragedie della recente storia d’Italia,
a partire dalle missioni di guerra in Corno d’Africa nei primi anni ’90.
Il diario rivisitato di Charlie Barnao riporta alla primavera del 1994
quando nella Caserma Lamarmora di Siena i parà rientrati dalla Somalia
erano soliti raccontare impunemente i crimini commessi contro la
popolazione. “Si vantavano di avere sparato e ucciso a freddo un gran
numero di somali e raccontavano di stupri e pestaggi fatti per
rappresaglia. Gli abitanti erano solo /sporchi negri/”. Nei racconti dei
reduci c’era l’esplicito riferimento al “forte permissivismo” dei
comandi italiani per l’uso di hashish e marijuana, sostante notoriamente
disinibenti. E Barnao ricorda pure la grandedelusione provata dopo un
colloquio con il cappellano militare, alla vigilia della partenza di un
nuovo contingente per la Somalia. “Gli chiedemmo di parlare della morte
o di che significa uccidere un uomo per la patria o per una missione
umanitaria.Il sacerdote ci rispose che doveva attenersi strettamente
alla circolare ricevuta:ipunti della discussione dovevano essere il
linguaggio volgare e l’uso esasperato dei giornaletti porno nelle
camerate. Cioè lebestemmie e le masturbazioni”.
La pubblicazione online della ricerca sulla /costruzione delle
personalità fasciste nelle forze armate/ ha scatenato le proteste e le
manifestazioni di dissenso di numerosissimi (ex) appartenenti alla
Folgore. In pochi mesi la casella di posta del Centro universitario
messinese è stata letteralmente bombardata da centinaia di e-mail che
invocano la gogna per i due ricercatori. Oltre 500 parà hanno
sottoscritto una petizione al Rettore dell’ateneo Francesco Tomasello e
al CIRSDIG. /Giù le mani dalla Folgore!/ il leitmotiv. “L’articolo
millanta una qualche pretesa di scientificità”, scrivono i militari.
“Anche ad una prima lettura da parte di non esperti nella sociologia,
esso appare viziato da gravi difetti metodologici, da interpretazioni
estreme, da una carenza totale di fonti oggettive e, più in generale, da
manifesta superficialità nell’affrontare le varie tematiche e nel
riportare fatti senza verifiche”.
Nei siti web che rilanciano la petizione imperversano le note di
disprezzo a firma dei parà. /Un lavoro mediocre finalizzato ad acquisire
unicamente un titolo utile alla carriera universitaria/, scrive uno. Per
molti altri si tratta di /fantascienza di serie C/, /collage di luoghi
comuni e leggende da radio naja/, /abominio metodologico/, /squallide
menzogne e calunnie/, /considerazioni scellerate, false, miserevoli/ e
/villanzone/, /chiacchere dei quaqquaraqquà/” e, perfino di /illecito
grave/ e /falso ideologico/. C’è poi chi si spinge a etichettare il
/libello/ quale /frutto della cultura egemone di stampo marxista/,
dottrina /scientificamente orientata e programmata per la
disinformazione e la mistificazione della realtà a fini politici/.
Ovviamente non mancano le bordate e le folgori contro i due ricercatori,
/affetti da vanagloria pseudoscientifica/ e che /certamente si possono
trovare tra i delinquenti che vanno alle manifestazioni in assetto di
guerra/. Per il comandante Vincenzo Arcobelli, presidente del Comitato
tricolore per gli italiani nel mondo (sezione Nord America) Barnao e
Saitta sembrano /elementi del disciolto, per fallimento, KGB di
sovietica memoria/. Ma è soprattutto il sociologo ex parà a finire nel
mirino. Rompere l’omertà significa /tradire /e/rinnegare/ lo spirito di
Corpo e il senso del cameratismo. /I suoi istruttori di Lei non hanno
fatto né un soldato né un uomo/, si rammarica un ex militare.
La valanga d’insulti non ha però indignato né preoccupato gli accademici
peloritani e i due ricercatori hanno atteso invano qualsivoglia
espressione di solidarietà e vicinanza. A far precipitare gli eventi,
giunge la pubblicazione il 7 dicembre del 2012 di un articolo su /Il
Giornale/, dal titolo “L’università di Messina infanga la Folgore”,
pieno di invettive contro il saggio e i suoi autori. Per inficiarne il
rigore scientifico, il quotidiano berlusconiano si rivolge aMarco
Orioles, insegnante di sociologia del giornalismo presso la Facoltà di
lettere dell’Università di Verona, già tutor nel 2005 di un
progetto-convenzione tra l’ateneo di Trieste e lo Stato Maggiore
dell’Esercito. “Si tratta di una grande bufala teoricamente debole e
metodologicamente azzardata, che denota un grandissimo velo ideologico”,
accusa Orioles. Barnao e Saitta sperano in una replica dell’università a
difesa della libertà di pensiero e di ricerca e invece il prof. Domenico
Carzo, direttore dei /Quaderni CIRSDIG/, con una nota ufficiale prende
le distanze dai due sociologi e rincara la dose. “Rammaricandomi
dell’omissione della doverosa vigilanza, determinata da una mal riposta
fiducia, rendo noto che il testo è stato pubblicato senza la mia
autorizzazione ed a mia insaputa dal redattore dr. Pietro Saitta, che
gestisce operativamente il sito”, scrive Carzo. “Il testo in questione,
contrariamente alle regole dei /Quaderni/, non è stato preventivamente
sottoposto alla procedura di referaggio anonimo, quindi è stato
eliminato dal sito stesso. Informo, pertanto, di aver già provveduto a
rimuovere dall’incarico il dr. Saitta, di concerto con il Comitato
Scientifico”.
Il sociologo messinese fornisce però una versione dei fatti ben
diversa.“L’articolo raccoglie i lavori di un seminario pubblico, tenuto
nel dicembre del 2011 presso il Dipartimento “Pareto” dell’ateneo
peloritano”, spiega Saitta.“Per posta elettronica il successivo 27
gennaio avvisai il direttore e tutti i colleghi del nuovo inserimento. A
distanza di qualche giorno ricevetti la sua approvazione e pubblicai
l’articolo sul sito. Il prof. Carzo pagò le stampe di alcune copie da
depositare presso le biblioteche nazionali e regionali e pure le spese
di spedizione”. Saitta spiega di essersi volontariamente dimesso dal
CIRSDIG il 13 novembre 2012, prima cioè dell’articolo de /Il Giornale/,
in ragione di alcuni “accesi dissapori” sulla linea editoriale.
“Comunque è abbastanza curioso che un articolo capeggi nella pagina web
di un’istituzione per un anno senza che il suo direttore se ne avveda.
La vicenda dimostra che i nostri sono tempi molto tristi per la libertà
accademica, non solo in ragione degli attacchi esterni, ma anche e
sopratutto per l’incapacità di alcuni di saperla difendere”.
A più di 13 anni dalla prima pubblicazione del “diario” sull’esperienza
militare di Charlie Barnao, l’intolleranza verso coloro che hanno
l’ardire di analizzare valori, atteggiamenti e comportamenti all’interno
delle forze armate è ancora la stessa. Guai poi a stigmatizzarne le
ideologie pretoriane e parafasciste. Un certo spirito nostalgico per il
Ventennio aleggia tra le caserme e i reparti della Folgore. Le sue
radici storiche risalgono ai “Fanti dell’aria Libici”, voluti subito
prima della seconda guerra mondiale da Italo Balbo, fedelissimo di
Benito Mussolini, già Ministro dell’Aeronautica e Governatore generale
della Libia.
Charlie Barnao ricorda cheil comandante della sua compagnia aveva
tatuato sul petto la testa del Duce e che “non erano rare” le svastiche
impresse sulle braccia dei parà delle varie compagnie. Anche certi canti
dei commilitoni rispecchiavano una simpatia diffusa per l’estrema
destra. “La più importante delle canzoni, /Avevo un camerata/, coronava
il rituale di congedo dei parà”, aggiunge il sociologo. “Pochi dei
congedanti sapevano però che era la versione italiana di una delle più
note canzoni cantate dai nazisti, /Ich hatt’einen Kameraden/. Ideale per
sancire la conclusione di un percorso educativo autoritario come quello
della formazione di un giovane paracadutista”.
Un legame nero pluridecennale che a leggere alcuni commenti in calce
alla petizione online contro Barnao e Saitta, sembra non essersi mai
interrotto. “Romantici, idealisti, interventisti, Dannunziani? Se
fedeltà, rispetto, onore e lealtà hanno questo significato, allora sì,
possiamo considerarci tali”, scrive un ex ufficiale paracadutista. “Se
poi amare il proprio Paese, la propria cultura e le proprie tradizioni
significa essere /fascisti/, bene sia, piuttosto che rinnegare tutto a
vantaggio dell’ipocrisia congenita in coloro che rinnegano l’amor di
Patria”. E per epigrafe una velata minaccia. /Ora sì, lasciamo pure che
abbaino alla luna. Noi rimarremo qui, all’erta, sempre pronti alla
difesa dei valori e dei principi in cui crediamo/.
Articolo pubblicato in /I Siciliani giovani/, n. 12, febbraio 2013