Autore: Bagunça Rossa Data: To: INTERGAS Oggetto: [Intergas] da Campi Aperti: altre due riflessioni sui prezzi
Ciao tutt*,
in attesa dei verbali delle assemblee di dicembre e gennaio,
giro ulteriori due riflessioni sui prezzi che provengono dal "gruppo
prezzi" Genuino Clandestino di Campi Aperti.
Buona lettura
Lucio
*"La strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni."
K.M.*
Ciao,
continuo ad inoltrare le riflessioni uscite dal "gruppo prezzi" genuino
clandestino di CampiAperti. Questi sono mio e di Mattia e Marzia.
Buona lettura.
Specifichiamo che la condivisione vuole anche essere stimolo all'incontro
del tavolo prezzi che si terrà in Val di Susa.
Michi
«Avevo deciso che volevo spender poco per pranzo, e allora sono andato dal
panettiere a comprare due panini, e me li sono fatti riempire di mortadella
nella gastronomia accanto»,
«ma due panini fatti di aria che saran pesati 150 grammi, il ho pagati un
euro e novanta.»
Il pane a Bologna è caro rispetto alle altre città.
A meno che non vai alla Coop e c'è sempre il pane EURO, con l'etichetta
gialla, te lo dà la «panettiera» al bancone dei prodotti da forno, pesa un
chilo e costa un euro.
Quando lo affetti la crosta si stacca dalla mollica, e ogni fetta si
sgretola sotto la lama del coltello.
Un chilo di pane della Fede costa 4 euro. Che non è poco, rispetto al pane
coop, ma lo rimane rispetto a quello del panettiere in centro.
Personalmente impazzisco per i carciofini sott'olio. I carciofini
sott'olio a Bologna costano come in tutto il resto d'Italia. Bene o male al
discount tra uno e due euro, in un supermercato medio, costano tra i tre e
i quattro euro circa per 200 grammi.
I carciofini di Laura costano 4 euro, 100 grammi.
Per andare a Napoli un paio d'anni fa' ho fatto solo statali e non
autostrada. E tra il Lazio e la Campania ho visto distese infinite di
carciofi. Monocoltura. Anche tra l'aereoporto di Girona e il centro di
Barcellona ci sono grandi estensioni di carciofi.
Il prezzo del supermercato nella maggior parte dei discorsi è considerato
come il prezzo accettabile, il prezzo di riferimento.
E' il supermercato che, nelle dinamiche del libero mercato, detta il
prezzo. Il supermercato, per arrivare al banco col prezzo più basso
possibile, sottopaga i produttori. Dà il resto al trasporto, e la maggior
parte del costo se lo tiene poi lui. Di conseguenza il produttore ha a
disposizione un budget molto limitato, con il quale deve pagare i concimi,
i diserbanti e i braccianti. L'unico prezzo su cui può giocare è quello
della manodopera, perché i prodotti chimici hanno quel costo e basta.
Molto spesso i braccianti - e non solo per i carciofini - sono persone
svantaggiate, il cui inserimento nella società è reso difficile da norme
che li rendono fuorilegge già solo perché si trovano in Italia. E vengono
sottopagati.
Comprare i carciofini di massa, mi renderebbe complice di un sistema
ingiusto. In cui per mangiare, della terra è stata impoverita, delle
persone sfruttate e pochi si arricchiscono.
Io posso innalzare la mia autostima, io «consumatore» divento consapevole
di essere «co-produttore». Questo potere ce l'ho tutte le volte che faccio
la spesa.
Se compro al supermercato dò i soldi a un compratore senza anima che
guarda solo al proprio profitto. Così si possono definire gli attori
dell'economia finanziaria.
Scegliere di non comprare i carciofini al supermercato, potrebbe in questo
senso rivelarsi un gesto politico e militante. Non solo per dove vanno a
finire i miei soldi, ma perché se li compro da chi li ha coltivati insieme
ad altri ortaggi, in una piccola azienda agricola, senza uso di diserbanti
e concimi, in un modo sostenibile per la terra e per l'uomo, genero un
meccanismo sociale diverso.
Incontro Giovanni al mercato, e gli chiedo se ce li ha, e lui mi racconta
di come è andata quest'anno con i carciofi e io decido quanti comprarne.
Freschi.
La relazione tra me e Giovanni esiste perché lui fa le verdure e io le
mangio.
Esco di casa per il bisogno di mangiare e vado da Giovanni perché mi fido
di lui.
Immagino che un tempo i vicini di casa si conoscevano perché ognuno aveva
delle competenze diverse e ciascuno aveva bisogno dell'altro. Chi aveva una
sega ad acqua, chi il forno del pane, chi i conigli ecc...
Con la società dei consumi di massa, molto spesso le relazioni sociali
ruotano solo attorno ai soldi. Senza alcun interesse di conoscersi. Come
tra la cassiera e noi in fila alla cassa. E questo porta alla competizione
e alle male lingue. A una società in cui non c'è complicità, ma
competizione.
Nei mercati di contadini a vendita diretta di Campiaperti il percorso di
autorganizzazione verso l'emancipazione dalla competizione è difficile e
lungo. Ma pian piano, anche nei mercati giovani, i produttori abbandonano
la paura, in nome della complicità con i propri vicini di banco,
consapevoli che l'ampliamento dell'offerta porta quasi sempre ad un aumento
del numero dei frequentatori del mercato, e non ad una diminuzione delle
vendite personali.
Quella scatoletta di tonno che passa sul tapis roulant del supermercato,
accompaganata dal tlin tlin dello scanner dei codici a barre, viene da
un'isola del pacifico dove si fa una pesca industriale devastante che sta
facendo sparire i tonni dal mare. Il mio desiderio di tonno va di pari
passo con l'occhio che non vede, e il cuore che non duole.
E io contribuisco. Se non dò peso a quello che passa sul tapis roulant, se
non immagino che posso far altro invece che mettermi in fila, io
contribuisco alla devastazione sociale, politica e ambientale che ci
circonda.
L'obiezione che sento più spesso rispetto al comprare dal contadino è che
costa troppo.
Che va bene, ma va bene per una nicchia di persone, che i precari che
guadagnan poco come fanno. Recentemente un assessore in regione ci ha
detto: «Dobbiamo sempre avere presente il pensionato o il precario che
vanno alla coop e che comprano il pollo arrosto a 6 euro, perché prendono
600 euro al mese. Anche io me lo chiedo come sia possibile che da quei 6
euro si paghi l'allevatore, il mangime, il macello, la pulizia, la cottura,
il sacchetto dove me lo vendono e la cassiera. Ma c'è chi non ci pensa».
Mio padre è un uomo di sinistra. Oggi non ha molto senso in Italia forse
definirsi così. Ma un tempo lo aveva. E quando mi sono trasferita a Bologna
e mi lamentavo dei prezzi e nel frattempo nascevano i discount e io andavo
al discount, mio padre alle mie lamentele rispondeva con estrema gravità,
che quel prezzo era troppo basso. Che in realtà noi paghiamo troppo poco il
cibo che mangiamo. Io mi sentivo profondamente offesa da queste sue
affermazioni, mi sembrava che ci provasse gusto a dirmi che c'è del marcio
dietro, a voler essere sempre contro, a non essere complice di sua figlia.
E' stata una sorpresa, dopo dieci anni di presa di autocoscienza e
scoperta del mondo, dire che son d'accordo con lui.
Chiedere il pane ad un euro al chilo, significa dare la propria
disponibilità ad alimentare un mondo dove le farine vengono da campi
coltivati da decenni solo a grano, la cui terra è ormai povera e dipendente
da concimi chimici di sintesi. Che inquinano le falde e l'acqua che
beviamo. Che danno lavoro solo a una persona su un trattore, che usa
petrolio, che per estrarlo popolazioni lontane (ad esempio in Niger)
vengono derubate, espropriate della terra. Gli impianti il più delle volte
inquinano le falde rendendo l'acqua non potabile, i gas che i pozzi
rilasciano bruciati a fuoco vivo vita natural durante - causando malattie
croniche alle vie respiratorie che poi diventano tumori - invece che essere
utilizzati per fornire energia elettrica agli autoctoni.
Mentre se volessimo pagare il giusto, un pane prodotto con farine sane
provenienti da sistemi agricoli rispettosi della terra e dell'uomo e
macinate a dovere, cotto in un forno a legna con legna buona, ebbene il
pane costerebbe più di un euro al chilo.
E se non posso permettermi di pagare il pane più di un euro al chilo posso
sempre farmelo io.
Chiedere la passata di pomodoro a un euro significa rendersi disponibili
ad alimentare le tasche di un'industria che imponendo un prezzo al chilo
ridicolo ai produttori, li costringe a usare manodopera sfruttata
rivolgendosi a caporali. Persone che vivono in casolari senza luce e acqua
e fognature, e che dipendono dal caporale, che a volte li paga a volte no,
chiede dei soldi per il trasporto sul luogo del lavoro, per la bottiglietta
d'acqua e il panino di pausa pranzo. 20 euro al giorno che diventano 15.
La passata di pomodoro di Michele costa 2 euro.
La rivoluzione economico politica che si genera scegliendo di acquistare
solo direttamente da chi produce, abbiamo detto che genera anche una
rivoluzione sociale. Mettendo su un altro livello lo scambio tra persone.
Non su quello dei soldi, ma su quello della complicità.
Anche chi guadagna 600 euro al mese potrebbe smettere di alimentare un
mondo ingiusto, comprando cibo locale. Ma spesso dire che non si hanno
soldi se non che per accedere ad un cibo da proletari, è molto appagante
politicamente e identitariamente. Sono costretto ad andare al discount.
Invece iniziare a dedicare una parte più grande del proprio reddito al cibo
e meno a servizi e telefonini, televisioni, automobili, vestiti e
quantaltro risulta più «cristiano» come gesto, più legato al sacrificio, un
immaginario da San Francesco. Che non è molto figo ai giorni nostri. O per
lo meno il proletario è più figo.
Emilio (apicoltore di montagna) un po' di anni fa', ad un'assemblea disse
che aveva fatto il voto di povertà, e a me era venuto in mente San
Francesco. Mi veniva un po' da ridere. Quando poi mi son accorta che per le
statistiche io sono povera, ho pensato che ho dato i consumi futili in
cambio del benessere. E va bene così.
Ma ciò, a mio avviso, non dovrebbe servire a sentirsi diversi dalla massa,
una nicchia _radical__ __chic_ che ha capito - perché istruita e forse mai
venuta a stretta conoscenza della fame - ma ad emanciparsi dalla necessità
di costruire la propria identità tramite i consumi. Compro bio quindi sono
bravo.
Per ridurre i consumi, bisogna spogliarsi dell'appagamento identitario che
deriva dall'acquisto. E questo è molto rivoluzionario, visto che il
liberismo per funzionare dice: la società non esiste, esistono solo gli
individui. M. Tatcher.
Ricostruire una società dove le persone parlano tra di loro dopo cena
invece che chiudersi in casa a guardare la tv,
e io individuo mi costruisco parlando con gli altri e non comprando cose
che servano a far capire chi sono.
Acquistare perché necessario alla propria vita. Mangiare è necessario a
vivere.
In questo senso, acquistare in un circuito economico di cui si conoscono i
metodi produttivi e si decidono le regole, dovrebbe portare a capire che,
nel sistema capitalistico, consumiamo troppo. Più del necessario. E non
posso pensare di traslare la mia spesa pari pari dal supermercato al
mercato contadino biologico. Perché i soldi non mi basterebbero.
Diminuire la quantità ma aumentare la qualità. Più nutrimento in meno
cibo. Farine più proteiche perché macinate da poco, frutta e verdura ricca
di vitamine perché fresca ecc...
Nella società di massa solo una minima parte del reddito viene destinata
all'alimentazione. Quando si era tutti più poveri invece quasi tutto il
reddito veniva utilizzato per mangiare.
Insomma questo per dire che dietro la frase "costa troppo"
si cela la paura di abbandonare uno stile di vita che dà sicurezza e
appagamento istantanei e sicuri a buonmercato.
Basta entrare allo spaccio dei cinesi e si possono comprare un sacco di
cose.
Ma poi quel mondo di cui ci si sente vittima perché non ci dà il salario
minimo garantito
La prima cosa che vorremmo sottolineare è che la questione dei prezzi dei
prodotti biologici contadini venduti nei nostri mercati, non può essere
scissa da un ragionamento più ampio sugli stili di vita, sulle scelte di
consumo delle persone e sul sistema economico generale.
Ci viene da più parti fatto notare che i prezzi praticati nei nostri
mercati non sarebbero alla portata delle fasce di reddito basso della
popolazione e che quindi l'alimentazione di qualità diventerebbe privilegio
di un'élite economica e cioè delle famiglie con redditi medio-alti.
Ciò che sottintende questo discorso è che i nostri prezzi sono alti
rispetto a un prezzo giusto.
A volte chi sostiene questa tesi combatte giustamente contro lo
sfruttamento del lavoro, migrante o italiano, in agricoltura o in altri
settori, senza rendersi conto del paradosso che incarnano le due istanze.
Delle due l'una: o lo sfruttamento del lavoro è sbagliato e i prezzi
praticati nei nostri mercati sono giusti perché garantiscono un reddito
dignitoso a chi lavora la terra, un reddito che si aggira attorno ai mille
euro al mese. Oppure lo sfruttamento del lavoro è giusto e quindi i prezzi
praticati nei nostri mercati sono troppo alti.
Sarebbe però molto ipocrita lottare contro lo sfruttamento e comprare, per
fare un esempio, verdure, passate di pomodoro o agrumi a prezzi stracciati
e che provengono probabilmente da lavoro sfruttato quando non da lavoro
schiavo.
Stabilito che di prezzo giusto si tratta bisogna allora verificare se
questo prezzo giusto sia davvero soltanto alla portata delle famiglie con
reddito medio-alto.
Crediamo che il reddito non sia un reale fattore determinante nella scelta
di avvicinarsi ai nostri mercati, e laddove viene addotto come
giustificazione crediamo che nella maggior parte dei casi funga piuttosto
da alibi che da reale impedimento. Riteniamo che la nostra clientela
appartenga, molto più che ad un élite economica, ad una minoranza di
persone che fatto percorsi di consapevolezza e di critica dell'esistente.
Intendiamo dire che alla scelta di fare la spesa nei nostri mercati ci si
può arrivare attraverso molte strade e con l'obbiettivo di soddisfare
esigenze di diverso genere: la salvaguardia dell'ambiente e della terra; la
cura della propria persona attraverso un'alimentazione il più sana
possibile; il bisogno di un cibo fresco e saporito dalle intatte proprietà
nutritive; la costruzione di un diretto rapporto di fiducia con chi il cibo
lo produce; il bisogno di restituire allo scambio quel carattere di
socialità che i supermercati, i discount e gli ipermercati hanno distrutto
o deformato in maniera aberrante.
Queste esigenze (e molte altre) che fanno avvicinare le persone ai nostri
mercati, che convivano tutte in una sola persona o che siano sparpagliate
tra più persone, emergono sotto forma di "interferenze culturali" nella
trasmissione _mainstream_ che va in onda ogni giorno nella testa dei
cosiddetti "consumatori". Queste interferenze al sistema, che allo stadio
larvale non vengono spesso percepite come tali e che possono continuare ad
essere vissute in maniera inconsapevole anche in fasi successive del
processo, possono, se coltivate, portare le persone a una piccola
rivoluzione interiore che le trasforma da consumatori/trici in
co-produttori/trici del proprio cibo.
Ciò che avviene è uno scarto culturale tra una cultura di massa che trova
nel super/ipermercato, tempio della religione del consumo e dell'offerta
totalitaria e totalizzante, la propria fonte di approvvigionamento, e una
vera e propria controcultura delineatasi nell'ultimo decennio che vede nei
piccoli mercati locali gestiti da contadini biologici non soltanto una
fonte alternativa per il reperimento del cibo ma anche una tessera
importante nella costruzione di una concreta alternativa di vita al modello
culturale/economico dominante.
Quella che inizialmente si configura come semplice scelta di consumo può
trasformarsi consapevolmente nel corso degli anni in vera e propria scelta
politica e anche laddove non vi sia questa consapevolezza è innegabile che
le ripercussioni della propria scelta siano anche politiche e non solo
economiche. La stessa parola 'consumo' perde di senso in questo processo
poiché nulla viene consumato, a partire dal suolo, passando per il cibo
venduto nei nostri mercati, che non conosce scarti di produzione, per
finire con il reddito delle persone che lungi dall'essere consumato o eroso
diventa parte di un circolo virtuoso di produzione che può portare nel
corso degli anni ad un miglioramento concreto della vita di tutti i
soggetti in campo.
Il prezzo non costituisce un ostacolo laddove le persone si avvicinano ai
nostri mercati mosse da una o più di queste interferenze culturali che
hanno iniziato a disconnetterle dal sistema di consumo.
Una recente tesi di laurea in sociologia ha dimostrato che la maggior parte
delle famiglie che fanno la spesa nei nostri mercati rientrano in una
fascia di reddito familiare medio basso, compreso tra i 1000 e i 3000 euro;
non si può certo parlare di élite economica. La stessa tesi ha rilevato nei
nostri clienti un livello di istruzione medio-alto con una quota
maggioritaria di persone laureate.
Tratto da Maria De Cola, _Oltre__ __il__ __mercato.__ __Il__ __caso__
__di__ __Campi__ __Aperti,__ __2012,__ __TESI__ __DI__ __LAUREA__ __in__
__Sociologia__ __(UNIVERSITÀ__ __DEGLI__ __STUDI__ __DI__ __TORINO)._
Se consideriamo il titolo di istruzione come uno degli indicatori che rende
possibile l'attivarsi di una di quelle interferenze di cui parlavamo sopra,
questo dato va a sostegno del fatto, come già sottolineato sopra, che ad
essere determinante nella scelta di avvicinarsi ai nostri mercati non è il
dato economico ma quello culturale.
Scendendo più nello specifico riteniamo che qualsiasi famiglia che non sia
realmente indigente, e che cioè sia in grado di reperire il cibo nelle
tradizionali catene di supermercati, possa rivolgere il proprio potere
d'acquisto verso i nostri mercati se è disposta a mettere in discussione
nel suo complesso il regime dei propri consumi, ovvero se è disposta a
modificare non solo la propria alimentazione ma anche il proprio stile di
vita. Dovrebbe cioè essere disposta a rimettere il cibo, il nostro
principale bisogno primario, in cima alle priorità, ovvero in quella
posizione naturale da cui è stato scalzato in questi decenni a favore di
un'ampia gamma di prodotti verso i quali il sistema capitalista ha
indirizzato i nostri bisogni profondi (di sicurezza, di identità, di
piacere, di accettazione, di libertà ecc.), di cui gli onnipresenti gadget
tecnologici di ultima generazione sono soltanto l'ultimo anello. Forse non
è superfluo sottolineare che questi gadget tecnologici, non propriamente
economici, si rivelano in pratica più accessibili alle persone con redditi
medio-bassi del cibo venduto nei nostri mercati (e questo anche attraverso
le modalità di vendita rateali che inducono le persone a comprare
apparentemente "per pochi soldi" il/i gadget del momento). Ciò che rende
più o meno accessibili i beni alle persone non è dunque il prezzo ma il
modo (sistema del debito) e il valore che il sistema attribuisce a quei
beni. Per quest'ultimo fattore sono la propaganda e la pubblicità che
rendono molto più appetibili e accessibili, colmandoli di senso e di
valore, beni come telefoni cellulari, i-pod, i-pad e via dicendo, piuttosto
che cibi sani rispettosi dell'ambiente e delle persone. Una famiglia media
con reddito medio-basso che non si avvicina ai nostri mercati non lo fa
perché andrebbe sul lastrico ma perché non è disposta a mettere in
discussione altri consumi che ritiene più importanti: dalle rate di un'auto
al di sopra delle proprie possibilità, all'abbonamento Sky, agli ultimi
supporti tecnologici o ad abiti e scarpe sempre nuovi.
Un altro elemento del quadro è l'obsolescenza programmata e/o quella
percepita delle cose: oggetti del nostro bisogno e/o del nostro desiderio
che chiedono di essere continuamente rinnovati o perché oggettivamente di
breve durata a causa della scarsa qualità della loro manifattura (diventata
una prassi indispensabile al sistema capitalista), oppure perché sono le
persone che le ritengono "vecchie", non più funzionali, non "alla moda" e
le vogliono cambiare in quanto non corrispondono più ai propri desideri che
si sono già orientati (quasi immediatamente dopo l'acquisto) verso un
"giocattolo" nuovo (e qui si va dagli elettrodomestici agli abiti, dalle
auto ai mobili, dai telefonini ai cosmetici). Il desiderio compulsivo di
acquistare sempre nuove cose, rinnovato continuamente dall'onnipresente
propaganda che indirizza verso il consumo la ricerca di senso e di
felicità, è funzionale al sistema di produzione che ha bisogno di sempre
nuovi rifiuti per poter produrre sempre nuove "cose".
Questo meccanismo non riguarda soltanto le fasce medio-alte ma anche quelle
medio basse e basse che molto spesso sono quelle più vulnerabili di fronte
alla propaganda e al mito della ricchezza. A questo proposito le
tabaccherie e i bar sono piene di povera gente che erode parte
significativa del proprio reddito in "gratta e vinci", lotterie e _slot__
__machines_ (cresciuti a dismisura negli ultimi 10 anni insieme ai centri
scommesse) nella speranza di diventare "ricche". Ancora una volta a essere
determinante è il fattore culturale e non quello economico a orientare
questa scelta di consumo.
Va in onda una "trasmissione" implicita e impalpabile ma onnipresente che
dice continuamente che l'ultima cosa in cui spendere è sempre e comunque il
cibo, relegato a questione da discount o da supermercato dove il mangime
delle multinazionali è propinato a bassi prezzi a scapito della sua
genuinità ed eticità: cibo malsano che fa ammalare e che proviene dallo
sfruttamento di animali, suolo, acqua ed esseri umani.
Nel senso comune il biologico deve restare il privilegio di un'élite anche
se questa convinzione non trova conferma nella realtà se ci si sofferma ad
analizzare il regime di consumo e gli stili di vita delle persone. Laddove
il cibo diventa una questione di "senso", quello stesso senso altrimenti
indirizzato verso l'acquisto compulsivo e frustrante di "cose", e di
ricerca del sé e del proprio rapporto col mondo, allora il prezzo passa in
secondo piano e risulta essere quello che è: un prezzo giusto.