Liste arancioni.Il metodo è sostanza – Livio Pepino (Il Manifesto)
20/1/2013
Siamo arrivati alla chiusura delle liste elettorali la cui messa a punto 
è stata, come sempre, assai laboriosa. Per tutti, anche per Rivoluzione 
civile, intorno alla quale si è aperto su queste pagine un dibattito 
interessante sul presente e il futuro della sinistra.
Da ultimo con un intervento di Alberto Burgio che invita rudemente i 
critici (tra cui mi annovero) a smetterla di fare gli schizzinosi e a 
prendere atto che questa è la zattera di salvataggio per la sinistra 
italiana, da cinque lunghi anni «in attesa di uscire dalle catacombe». 
Sorprende che Burgio non ricordi che è stato proprio un progetto simile 
a questo (la Sinistra Arcobaleno) a relegare la sinistra in quelle 
catacombe. Dimenticarlo non aiuta a riportarla alla luce, neppure in 
caso di superamento del quorum.
Il programma di Rivoluzione civile – si dice – è l’unico autenticamente 
antiliberista. È vero ed è cosa di grande rilievo. Aggiungo che esso non 
si limita alla critica ma contiene, almeno in nuce, un progetto 
alternativo per uscire dalla crisi. Lo dico con convinzione anche perché 
vi si è arrivati grazie all’influenza del progetto elaborato da 
«Cambiare si può» (come si può agevolmente constatare confrontando i due 
programmi). Perché, allora, criticare la nuova lista? Perché le 
indicazioni programmatiche, se non sorrette da un reale radicamento 
sociale e da adeguate garanzie personali, rischiano di restare dei 
«pezzi di carta», come usava dire Bettino Craxi che della materia si 
intendeva… Segnalarlo non è un preziosismo perché le scottature bruciano 
ancora (chi ha dimenticato i ripetuti voti in favore di operazioni 
belliche da parte di una sinistra programmaticamente pacifista?) e 
perché – sarebbe bene ricordarlo – la Sinistra Arcobaleno non fu certo 
sconfitta, politicamente prima ancora che elettoralmente, per carenze o 
ambiguità programmatiche! Il fatto è che un reale cambiamento deve 
passare attraverso una profonda discontinuità di prassi e comportamenti.
È questo il nodo irrisolto (e decisivo): chi fa la politica? i 
cittadini, singoli e organizzati nella rete di movimenti, associazioni, 
comitati (e, con essi, i partiti) che animano il quotidiano e i 
territori? o un ceto politico professionale, investito di una ampia 
delega, che trae la sua legittimazione da una sperimentata capacità 
tecnica (sic!)? Questo è il tema vero: un tema strutturale, che 
prescinde da inadeguatezze e scandali (pur intollerabilmente diffusi) e 
che sopravanza le questioni (strumentalmente e demagogicamente agitate) 
dell’età dei candidati o della esistenza di precedenti mandati. Non solo 
i partiti tradizionali ma la stessa forma partito, così come la 
conosciamo, è superata, finita, travolta dagli eventi (pur essendo stata 
– meritoriamente – l’asse portante dello sviluppo della democrazia del 
dopoguerra). E quel che è finito non si può resuscitare.
Occorrono forme diverse, nuovi modi di partecipazione, una revisione dal 
basso dei sistemi della rappresentanza. Senza una rifondazione profonda 
– inutile illudersi e illudere – è finita anche la sinistra. Ed è 
proprio il punto che Rivoluzione civile elude riproponendo metodi logori 
e perdenti.
C’è in essa, anzitutto, una perversa accentuazione del personalismo e 
del leaderismo, che non si può accantonare con sufficienza all’insegna 
del «così fan tutti…». Il candidato premier sovrasta con il proprio 
nome, scritto a caratteri cubitali, il simbolo e compare come capolista 
in tutte le circoscrizioni, relegando gli altri in posizione 
ostentatamente subalterna: a riprova che l’elezione è determinata non da 
una investitura dei cittadini ma dalla benevolenza del leader e dalla 
sua scelta, dopo il voto, del dove dimettersi (indicando così i sommersi 
e i salvati). Ma in questo modo non si fa che incentivare il processo di 
trasformazione del leader in capo e unico titolare del rapporto con 
l’elettorato (da gestire a distanza, al di fuori di un contatto diretto, 
attraverso gli schermi televisivi della «democrazia del tinello»). Ciò, 
inoltre, non riguarda solo il leader: pressoché ovunque i candidati che 
lo seguono sono estranei alle realtà virtuose dei territori e 
catapultati, con una designazione dall’alto, in una pluralità di collegi 
in modo da consentire poi, attraverso il gioco delle rinunce, la 
costruzione della rappresentanza come un puzzle studiato a tavolino e 
con logiche spartitorie. Tutto questo mortifica le energie migliori e 
aumenta il senso di estraneità alla politica, con conseguenti 
disaffezione e astensionismo. Né vale a porvi rimedio l’inserimento 
nelle liste di personaggi provenienti dalla cosiddetta «società civile». 
Espediente per certi versi ancor più grave, in quanto cumula la 
continuità burocratica con un rapporto solo proclamato con il tessuto 
sociale: mentre questo rapporto ha un senso se significa immissione 
nella scena politica di metodi diversi (per portare nel palazzo non solo 
persone ma rapporti con il territorio e processi alternativi di 
rappresentanza e di decisione), non anche se si limita alla cooptazione 
dall’alto di alcuni esponenti (pur personalmente apprezzabili).
Di questo sarebbe stato – e sarebbe – utile parlare senza stracciarsi le 
vesti per le critiche. Non per esibire antichi vizi intellettualistici 
ma per evitare che la sinistra continui ad essere condannata alle 
catacombe: anche se, come mi auguro, riuscirà a mandare in Parlamento un 
pugno di rappresentanti (inevitabilmente isolati e tra loro divisi).