Autor: rimbaud Data: Para: hackmeeting Asunto: [Hackmeeting] Back to the boh?
Quando riesco, forse modifico un po' la pagina wikipedia sul biennio
rosso, che non cita nemmeno di striscio gli anarchici... e se qualcuno
lo fa prima di me, ha vinto! ghgh.
Cmq...
Il 7 settembre [1920, credo] Umanità Nova ammonisce:
(...) gli operai si sono asserragliati nelle loro fortezze del lavoro
scacciandone i capitalisti. Il governo è un’altra volta impotente a
reagire e cerca un accomodamento e un compromesso con gli operai. Se
riuscirà a farli uscire dalle fabbriche, si rimangerà poi abilmente
tutte le promesse, magari anche quella della liberazione delle vittime
politiche, e si preparerà alacremente ad allestire nuovi mezzi di
difesa e di offesa contro i lavoratori per salvare ancora una volta la
baracca borghese. (...) Un’occasione così favorevole per iniziare
l’espropriazione dei capitalisti col minimo sacrificio di sangue non si
presenterà mai più!
E, avendo forse raccolto le voci di una non improbabile compravendita,
conclude il suo appello con un’invocazione di tono quasi biblico:
«Operai (...). Guai a voi ed ai vostri figli se vi lasciate ancora una
volta ingannare!»i. Se è vero che gli anarchici, proclamando
l’occupazione delle fabbriche «momento rivoluzionario» hanno assunto,
come scrive Gianni Bosio, una posizione non soltanto «non (...)
abborracciata e improvvisata»ii ma «di altissima responsabilità», una
posizione che permette loro di trattare «un avvenimento e un congegno
tanto delicato e pericoloso come l’avvio per la rivoluzione» con
esemplare «coerenza propagandistica e politica», con «misura»,
«consapevolezza» e «diremmo quasi (...) gradualità»iii, viene spontaneo
chiedersi se in definitiva non fu proprio questo senso di
responsabilità, stimolato dalla manovra confederale di Sampierdarena, a
comprometterne irrimediabilmente l’azione.
Il movimento anarchico e l’Usi, i quali teoricamente erano spinti in
avanti da un’analisi continua, rinnovantesi e corretta fino a
ipotizzare che questa rivoluzione, trovando le masse naturalmente
disposte a occupare tutti i luoghi di lavoro, sarebbe stata la meno
sanguinosa, e che senza la spinta in avanti non vi sarebbe stata che
una reazione sanguinosa, e che avevano architettato, solo architettato,
di far prigionieri alcuni dirigenti confederali, cioè di toglierli
dalla circolazione, al primo responsabile, decisivo impatto con il
reale per un’azione che sarebbe stata determinante, esitano, rimandano
e poi si ritirano.iv
Nonostante la sfiducia cominciasse a serpeggiare tra gli operai che
occupavano le fabbriche («si erano disamorati, avevano visto che
diventava un bidone»)v, Malatesta – che era stato uno dei primi a
lanciare l’idea dell’occupazione e che qualcosa di simile aveva fatto
sei anni prima ad Ancona durante la Settimana Rossavi – continuò a
girare per gli stabilimenti. Il 7 settembre diceva alle maestranze
della Bianchi:
Quale che sia la piega che prenderà il movimento, voi dovete essere
pronti a tutto: esso può estendersi a tutte le fabbriche, alle miniere,
alla terra, ecc., senza che governo e borghesia abbiano la forza di
arrestarne l’estensione e l’intensificazione. Ma se la forza bruta dei
vostri padroni interverrà, non dovrete spaventarvi per questo. Attorno
a voi si stringe tutto il proletariato, si stringono tutti i sovversivi
rivoluzionari d’Italia. Allora sarà la lotta decisiva, e voi avrete
iniziata la battaglia per la completa emancipazione dei lavoratori.vii
La denuncia, la distinzione, l’opposizione anarchica saranno però da
questo momento «puramente verbali e scritte, tali cioè da dare il
crisma di credibilità all’azione confederale»viii. L’8 settembre un
«gruppo di operai anarchici» distribuisce nelle fabbriche di Milano un
volantino:
Oggi non è più questione di trattative e di memoriali. Oggi è questione
di tutto per tutto: per voi come per i padroni. Per far fallire il
vostro movimento i padroni sono capaci di concedere tutto quello che
domandate: poi, quando voi avrete rinunciato al possesso delle
fabbriche e queste saranno presidiate dalla polizia e dalla truppa,
allora guai a voi! Non cedete, dunque. Avete in mano le fabbriche,
difendetele con tutti i mezzi. Entrate in relazione tra fabbrica e
fabbrica e coi ferrovieri per il rifornimento delle materie prime,
intendetevi colle cooperative e col pubblico. Vendete e scambiate i
vostri prodotti senza tenere alcun conto di coloro che furono i
padroni. Padroni non ve ne debbono essere più – e non ve ne saranno se
voi vorrete.1
Il 9 settembre, dopo aver constatato che né l’Usi né la Uai sotto state
invitate al «convegnissimo» confederale in programma per il giorno dopo
a Palazzo Marino2, Umanità Nova denuncia il tradimento. L’11 settembre
– affidando, nota Bosio, «a uno sperato potere taumaturgico delle
parole ciò che doveva essere invece esito di una azione e di consenso
politico»ix – lancia un appello alle forze operaie:
Metallurgici,
qualunque cosa stiano per decidere «i dirigenti», non abbandonate la
fabbrica, non cedete la fabbrica e non consegnate le armi. Se oggi
uscite dalla fabbrica, domani non vi rientrerete che decimati, dopo di
esser passati sotto le forche caudine della tracotanza padronale.
Operai di tutte le industrie, arti e commerci; seguite «subito» i
metallurgici nell’occupazione degli stabilimenti, dei cantieri, dei
depositi, dei panifici e dei mercati. Contadini, occupate la terra!
Marinai, occupate le navi! Ferrovieri, non fate marciare i treni se non
per la causa comune! Postelegrafonici, sopprimete la corrispondenza
della borghesia! Una imprevista possibilità viene prospettata dalla
occupazione delle fabbriche: quella di compiere una grande rivoluzione,
senza spargimento di sangue e senza disorganizzare la vita nazionale.
Non lasciamocela sfuggire! E voi soldati fratelli nostri, ricordatevi
che quelle armi che vi hanno dato per difendere il privilegio e
massacrare i proletari che anelano alla loro emancipazione possono
essere adoperate contro gli oppressori e [per] la redenzione dei
lavoratori tuttix
Parole inutili. Il 10 settembre, a Palazzo Marino, la rivoluzione era
stata messa ai voti e rinviata a una occasione più propizia. Ricorda
Perelli:
Dopo i primi giorni, ch’io sappia, non siamo più andati in giro per le
fabbriche. Il momento era passato. Eh, le cose bisognava farle di
slancio. Malatesta insisté fino alla fine, parlando e scrivendo3. Per
onor di bandiera, ma non ci credeva più nemmeno lui. Non ci credeva più
nessuno. Dopo otto giorni era finito tuttoxi
E gli anarchici, erano tutti d’accordo con Malatesta?
C’era una diversificazione di attività. Chi faceva il suo giornalino
continuava a farlo. Chi discuteva di Nietzsche o di Kropotkin
continuava a discuterne. C’era una parte, la parte sindacalizzata del
movimento anarchico, che partecipava attivamente anche perché era in
fabbrica. Ma gli anarchici come... ideologia erano spezzettati. Ognuno
aveva la sua chiesuola.xii
E l’Usi non era un momento coagulante?
No, l’Usi non aveva mai goduto di troppa considerazione tra gli
anarchici. L’Usi, in fondo, era legalitaria, perché il movimento
sindacale non esce dalla legalità: devi riconoscere un padrone e
lottare con lui sul terreno dei fatti. Non c’era molto slancio verso
l’Usi. La si considerava uno strumento per diffondere certe idee, non
un organismo capace di far qualcosa. Nell’organismo non si aveva molta
fiducia.xiii
Ci fu la sensazione che le masse l’avrebbero pagata?
No, no, no. Il pensiero della «grande paura»? Credo che non li abbia
neanche sfiorati. No. A Milano, almeno, andò così. Pochi capirono che
si era perduta una grandissima battaglia.xiv
Scrive Gino Cerrito:
L’entusiasmo che animava gli anarchici durante le settimane di
occupazione delle fabbriche è perfettamente rispecchiato dalle colonne
di Umanità Nova. (...) Ma il movimento rimase slegato e quasi isolato
località per località; mentre i dirigenti confederali, con il tacito
consenso della pavida direzione socialista, coordinavano i loro sforzi
con Giolitti per svuotarlo di ogni contenuto rivoluzionario,
ostacolando altresì il suo estendersi. D’altra parte, dopo i primi
giorni, il blocco borghese contro l’occupazione si irrigidì e fu
evidente che, facendo a meno del credito e dell’organizzazione
bancario-commerciale a cui gli stabilimenti erano legati, il movimento
non avrebbe resistito a lungo. Anarchici, comunisti, sindacalisti
sostenevano in maniera differenziata che, per sopravvivere e
trasformarsi in rivoluzione sociale, il moto avrebbe dovuto uscire
dalle fabbriche e usufruire della solidarietà coordinata della classe
lavoratrice tutta. Sarebbe stata – scriveva allora Malatesta – la
rivoluzione meno sanguinosa (...).xv
Tre volte nel dopoguerra, secondo Luigi Fabbri, le istituzioni
monarchiche erano state a un pelo dall’esser rovesciate. La prima nel
1919, quando i moti del caroviveri si propagarono in tutta Italia «come
una striscia di fuoco», qua e là favoriti anche da elementi militari.
La seconda nel 1920, quando la rivolta militare di Ancona provocò uno
scompiglio nel governo: allora «una mossa audace sarebbe bastata a far
proclamare la repubblica, cui (...) era disposta favorevolmente anche
una parte della borghesia». La terza fu rappresentata dall’occupazione
delle fabbriche, finita la quale il governo avrebbe confessato di non
aver mai avuto le forze sufficienti per espugnare «tante fortezze
quanti erano gli stabilimenti» dove si erano trincerati gli operai.xvi
L’occupazione fallì e la responsabilità maggiore di questo fallimento
fu dei socialisti.
Ma un po’ di responsabilità (...) spetta anche agli anarchici, che
negli ultimi tempi avevano conquistato un notevole ascendente sulle
masse e non seppero utilizzarlo. Essi sapevano, per averlo mille volte
detto prima e per averlo ripetuto nel loro congresso a Bologna (...),
che cosa bisognava fare. Il governo e la magistratura, anzi, credettero
proprio che gli anarchici avessero fatto quel lavoro di preparazione
che tanto avevano propugnato.xvii
Per questo, quando anche gli operai più ostinati furono costretti a
rientrare nei ranghi, la reazione si scatenò. L’abbandono delle
fabbriche fu «come il principio della ritirata per un esercito che
aveva fino a quel giorno avanzato»xviii. Mentre lo scoraggiamento si
propagava nelle file del movimento operaio, il governo riprendeva
animo. Una pioggia di perquisizioni e di arresti si abbattè sugli
anarchici, che erano in quel momento il gruppo rivoluzionario più
aggressivo e meno numeroso4. Quando qualcuno chiese il loro aiuto, i
socialisti spalancarono le braccia: che cosa avrebbero potuto fare? Gli
anarchici furono lasciati soli. E su quella grande sconfitta del
movimento operaio il fascismo costruì il suo regno di violenza e di
oppressione5.