[NuovoLab] Sulla crisi del Manifesto

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Autore: giacomo casarino
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To: forumsege@yahoogroups.com, forumgenova inventati
Oggetto: [NuovoLab] Sulla crisi del Manifesto

INTERVENTO INVIATO LUNEDI'  E NON  - ANCORA (?) PUBBLICATO
Un po’ di ripensamento storico
non guasta. Ho ragione di credere che chi critica la “fattura” del Manifesto di
questi ultimi tempi non sia mosso da ragioni nostalgiche e conservatrici verso
una forma d’antan di “giornale-partito”, per il semplice motivo che in nessuna
fase della sua esistenza, neppure e soprattutto nel tormentato periodo
“partitista” (PdUP-Manifesto, 1974-76) il quotidiano ha preteso assumere una tale
natura, anzi ha combattuto quanti, dall’esterno, avrebbero voluto imporgliela.
Quindi chi muove questo rimprovero per l’altro ieri e assume questo pregiudizio
per il domani, nei confronti dei “critici” dell’attuale direzione del giornale,
lotta contro i mulini a vento.Esso si è concepito, nei suoi momenti “alti”,
quando il suo marchio risultava inconfondibile e autorevole, come “una forma
peculiare della politica”, atta non solo a creare opinione, ma a far politica
in forme diverse da quelle organizzate, tradizionali. Il che non significava forgiare
una “linea organica” piuttosto che un’altra, quanto rendere virtuoso il
circuito tra il pluralismo (presente, del resto, anche tra i padri fondatori) e
un peculiare “punto di vista”, sostenuto da una cultura irriducibile, nei
fondamenti, a quella del PCI né assimilabile a quella dei “gruppi” vocati al
minoritarismo. Questo valore aggiunto rendeva 
sopportabile il costo di un “secondo giornale”, come il Manifesto non
poteva non essere. In una fase di politica diffusa (e di relativa domanda),
questa formula ha funzionato, anche se non possiamo dimenticare che nei suoi
primi anni di vita, all’epoca dei movimenti di massa, il giornale non vendeva
più di 13-16 mila copie (ma esistevano anche altri quotidiani di estrema
sinistra, oggi scomparsi). Chi comprava il Manifesto non lo faceva per un mero
bisogno di controinformazione e di mobilitazione immediata, salvo che nelle
emergenze democratiche: 1994-95, ascesa di Berlusconi e punta massima, oltre la
media delle  cinquantamila copie. In
tempi, per così dire, normali lo si acquistava e lo si sosteneva proprio in
relazione a quel “punto di vista”, a quella metodologia di analisi che si
realizzava compiutamente attraverso la presenza (ed il carisma) dei padri
storici, da Pintor a Rossanda a Parlato. A distanza di trent’anni il mondo è
cambiato radicalmente, e qui l’elenco sarebbe infinito. Quindi l’eredità
ricevuta (metabolizzata dai nuovi redattori?) non basta, anzi, come ci diciamo
ad ogni piè sospinto, occorre dotarsi di una nuova “cassetta degli attrezzi”,
impresa improba e di non breve momento, se vogliamo che il Manifesto mantenga,
anzi riacquisisca una sua utilità, un suo alto valore d’uso. Il lettore del
Manifesto è sempre stato molto esigente, ha chiesto formazione al giornale, anche
se spesso lo ha trovato di difficile lettura. Questa ricerca, militante certo,
oltre che agli specialisti (e alle pagine culturali) dev’essere parte
integrante del lavoro redazionale: non può essere che le pagine della politica
e dell’attualità si appiattiscano sulla fotografia degli eventi e, nel loro
insieme, non trasmettano il nuovo “respiro del mondo” (crisi del neoliberismo,
ma, nello stesso tempo, perdurante suo potere globale- nonostante la crisi - ed
una sorta di metamorfosi antropologica). Su questo terreno il pluralismo non
può trasformarsi nel suo opposto, in una palese divaricazione, magari da una
pagina all’altra del giornale: ad esempio, sul giudizio di fase: declino
dell’America oppure imperialismo ovunque trionfante; cifra geopolitica come
prevalente chiave di lettura oppure valore intrinseco dei movimenti di rivolta
e di rivoluzione nel mondo; disfatta mondiale della sinistra o valorizzazione
delle pur contraddittorie esperienze “progressiste” in atto nell’America
Latina? Se ne convincano i compagni della direzione e della redazione: un
Manifesto, autonomo economicamente,  non
sopravviverebbe come mera impresa giornalistica. C’è  chi compra il giornale per il valore, il
pregio anche di un solo articolo, ma non a tutti possiamo chiedere tanta
generosità.Bisogna forse spingersi più in là per accrescere l’utilità e la
fascinazione di un prodotto come il nostro giornale: anticipare quello che
accadrà il giorno dopo (anziché riprendere notizie già abbondantemente
assimilate il giorno prima attraverso il mezzo televisivo o telematico),
spiazzare i lettori, scrollarli dalla pigrizia mentale di vedervi confermate le
proprie opinioni. Alzando il livello, potremmo forse bruciare le scorie di
molti settarismi e settari che prendono le distanze da noi  e offrire l’opportunità  ai vari movimenti ed associazioni, che
limitano il loro orizzonte ad uno specifico issue, di non bloccarsi sulla
soglia della politica.