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Autor: laura picchi
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«Quel pilota sapeva troppo su Ustica»











di Candida Virgone wPISA Non è stato un incidente. È stato un omicidio, 
un’esecuzione su cui si staglia ancora      l’ombra terribile e 
vergognosa di quella che è stata definita la strage di Ustica, un 
segreto che ha conosciuto      mille facce, ma che, come tanti misteri 
di questo Paese, dopo più di trent’anni è ancora a caccia di una verità 
     credibile. E ad Ustica - che avrebbe nell’armadio 21 cadaveri 
sospetti oltre agli 85 morti ufficiali, una strage per      cui sarebbe 
stato coniato il termine ormai in voga «muro di gomma» - secondo molti 
potrebbe essere legata anche      la tragica e misteriosa scomparsa di 
Alessandro Marcucci. Marcucci era un colonnello dell’aeronautica 
passato, per alterne      vicende, da una promettente carriera nella 46ª
 Brigata aerea, come esperto di G 222, a fare il pilota per la Transavio
      nel controllo degli incendi boschivi per conto della Regione: morì
 in uno strano incidente aereo vicino Carrara, a Campo      Cecina, il 2
 febbraio di vent’anni fa. Per molti, ora come allora, non sarebbe stato
 un incidente. A parlare di attentato      e a chiedere la riapertura di
 un’inchiesta che si ritiene chiusa troppo in fretta e con tante lacune,
 sono gli esponenti      dell’Associazione antimafie intitolata a Rita 
Atria, la ragazzina che aiutò Borsellino a decapitare parte dei poteri  
    mafiosi e che dopo la morte del magistrato si uccise. Dopo un 
esposto presentato in parlamento a febbraio scorso, proprio      in 
occasione dei vent’anni dalla morte del colonnello Marcucci, ma vittima 
di un disinteresse inquietante, l’associazione      ne ha presentato un 
altro due giorni fa, ma in procura, a Massa, portando certificazioni, 
filmati televisivi, fotografie e      documentazioni che, a detta dei 
suoi esponenti, smantellano pezzo per pezzo le conclusioni degli 
inquirenti di allora e della      commissione tecnica chiamata a far 
luce sull’incidente e che è stata sul posto solo il giorno dopo, quando 
tutto      era stato rimosso. Ne hanno parlato ieri, al circolo Arci di 
via Fermi, il presidente dell’associazione, Santo Laganà,      e uno dei
 fondatori, Nadia Furnari; con loro c’erano la responsabile locale, 
laura Pitthi, ed altri rappresentanti.      C’era in particolare l’amico
 di sempre di Sandro Marcucci, Mario Ciancarella, un ex militare al 
centro da trent’anni      di denunce e polemiche e che fece 
dichiarazioni eclatanti anche nel caso Scieri, un parà morto alla Smipar
 a Pisa in      circostanze misteriose, forse precipitato durante una 
prova di coraggio imposta da un gruppo di cosiddetti «nonni»      e 
abbandonato agonizzante a terra. «Abbiamo fiducia nella giustizia e 
nella magistratura - dicono Laganà, Furnari      e Ciancarella - e 
pensiamo che oggi, a Massa, cambiate le persone e in un nuovo ambiente, 
sia possibile ricostruire questa      vicenda. È stato detto che a 
tradire un pilota esperto come Sandro - ha aggiunto Ciancarella - possa 
essere stato il      vento o una manovra errata. Ma dai documenti 
dell’epoca emerge chiaramente che vento non ce n’era e che quel tipo    
  di Piper è un semiacrobatico manovrabilissino. A terra è stato trovato
 il corpo carbonizzato del pilota, mentre      Lorenzini, gravemente 
ustionato, viene soccorso fuori dall’abitacolo e muore un mese dopo. Le 
ipotesi più volte      espresse in questi anni parlano di un attentato, 
un ordigno posto nel cruscotto e al fosforo, sostanza che brucia solo le
      superfici toccate: di fatto, mentre del pilota resta poco, sia 
l’aereo che gli alberi su cui è caduto, che un serbatoio      colmo di 
carburante recuperato vicino al relitto sono intatti. Secondo l’esposto 
l’aereo, dopo un’esplosione      a bordo, si schiantò al suolo sul 
carrello anteriore destro rimbalzando e capovolgendosi contro un tronco 
d’albero      a tre metri d’altezza, scivolando poi e scortecciandone la
 superficie. Su Marcucci niente autopsia, solo un esame esterno      dei
 resti senza rilevare le ferite alla testa e l’amputazione dei piedi. 
Solo per caso nella bara non finisce proprio      un pezzo di cruscotto 
che viene consegnato agli inquirenti, ma l’intero relitto verrà 
dissequestrato e distrutto      due giorni prima della chiusura delle 
indagini, senza dare a nessuno la possibilità di chiedere ulteriori 
perizie. Al      fratello di Lorenzini, che si dice si sia trascinato 
fuori dall’abitacolo da solo e che muore un mese dopo, viene negata     
 la possibilità di dare il sangue per una trasfusione. Su questi e molti
 altri particolari si basano i dubbi da chiarire      formulati 
nell’esposto. ©RIPRODUZIONE RISERVATA