[Forumlucca] IL SACRO ROMANO IMP-EURO

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著者: Aldo Zanchetta
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題目: [Forumlucca] IL SACRO ROMANO IMP-EURO
NASCE IL SACRO ROMANO IMPEURO
2021, così era nato il Reich asburgico

Da Il Foglio 23 novembre 2011 ma ATTUALISSIMO (ma forse finiremo sotto
altre bandiere: Francia o Spagna purchè se magna...)

Lo storico Ferguson ci immagina tra dieci anni, quando tutti faremo i
giardinieri nelle case dei tedeschi
Benvenuti in Europa, anno 2021. Sono passati dieci anni dalla grande
crisi del 2010-2011, che ha strappato lo scalpo a non meno di dieci
governi, compresi quelli di Spagna e Francia. Alcune cose sono rimaste
uguali, molte altre sono profondamente cambiate.
L’euro è ancora in circolazione, anche se ormai si vedono ben poche
banconote (anzi, la diffusione e la facilità dei pagamenti elettronici
spinge parecchie persone a domandare stupiti come si sia potuto
considerare utile la creazione di una moneta comune europea). Ma
Bruxelles non è più il quartier generale politico dell’Europa. La
scelta di Vienna si è rivelata un grande successo. “C’è qualcosa di
speciale nell’eredità asburgica”, spiega l’energica nuova cancelliera
austriaca Marsha Radetzky; “Fa sembrare molto più divertente la
politica multinazionale”. Anche ai tedeschi piace la nuova
disposizione. “Per qualche ragione non ci siamo mai sentiti benvenuti
in Belgio”, ricorda il cancelliere tedesco Reinhold Siegfried von
Gotha-Dämmerung.
La vita continua a essere tutt’altro che facile negli stati periferici
degli Stati Uniti d’Europa (così ora è chiamata l’Eurozona). In
Grecia, Italia, Portogallo e Spagna la disoccupazione è arrivata al 20
per cento. Ma la creazione di un nuovo sistema di federalismo fiscale,
nel 2012, ha garantito un flusso costante di fondi da parte dei paesi
dell’Europa settentrionale. Come già i tedeschi orientali prima di
loro, gli europei del sud si sono abituati a questo compromesso. Con
un quinto della propria popolazione ultrasessantacinquenne e un altro
quinto disoccupato, la gente ha tutto il tempo di godersi la vita. Ci
sono parecchi soldi da guadagnare in questa economia sommersa,
lavorando come camerieri o giardinieri per i tedeschi, che tutti ora
possiedono una seconda casa nel soleggiato sud.
Gli Stati Uniti d’Europa hanno acquisito nuovi membri. La Lituania e
la Lettonia hanno mantenuto il proprio impegno di entrare
nell’Eurozona, seguendo l’esempio dell’Estonia. La Polonia, sotto
l’energica guida dell’ex ministro degli Esteri Radek Sikorski, ha
fatto la stessa cosa. Questi nuovi paesi sono i figli adottivi della
nuova Europa, che attirano gli investimenti tedeschi grazie alle
imposte ad aliquota fissa e ai salari relativamente bassi. Altri paesi
invece se ne sono andati.
David Cameron – che inizia il quarto mandato come premier britannico –
ringrazia la buona sorte per avere deciso, piegandosi alle pressioni
degli euroscettici tra i Tory, di rischiare un referendum
sull’appartenenza all’Ue. I suoi colleghi di coalizione, i Lib-Dem,
hanno commesso un suicidio politico aderendo alla disastrosa campagna
laburista del “Yeah to Europe”. Incitata dai battaglieri tabloid
londinesi, i britannici hanno votato per l’uscita dall’Ue (al 59 per
cento) e poi hanno dato ai Tory la maggioranza assoluta alla Camera
dei Comuni. Liberata dalla cintura di Bruxelles, l’Inghilterra è
diventata la destinazione preferita degli investimenti cinesi in
Europa. I cinesi ricchi adorano i loro appartamenti a Chelsea, per non
parlare delle splendide tenute di caccia in Scozia.
Per alcuni aspetti questa Europa federale darebbe grande gioia ai
padri fondatori dell’integrazione europea. Il suo cuore pulsante è
costituito dalla partnership franco-tedesca, lanciata da Jean Monnet e
Robert Schuman negli anni 50 del XX secolo. Ma gli Stati Uniti
d’Europa del 2021 sono molto diversi dall’Ue cascata a pezzi nel 2011.
Sembra davvero appropriato che la disintegrazione dell’Ue abbia avuto
come epicentro le due grandi culle della civiltà occidentale, Atene e
Roma. Ma George Papandreou e Silvio Berlusconi non sono stati certo i
primi leader europei a cadere vittime di quella che si potrebbe
definire la maledizione dell’euro. Da quando, nel giugno del 2010, s’è
diffusa la paura finanziaria in tutta l’Eurozona, sono caduti non meno
di altri sette governi: in Olanda, Slovacchia, Belgio, Irlanda,
Finlandia, Portogallo e Slovenia. Il fatto che in meno di diciotto
mesi fossero caduti nove governi era già di per sé una cosa
rimarchevole.
Ma l’euro non era diventato soltanto una macchina ammazza-governi.
Stava anche favorendo l’affermazione di una nuova generazione di
movimenti populisti, come il Partito Olandese per la Libertà e quello
dei Veri Finlandesi. Il Belgio stava per spaccarsi in due. Le
strutture portanti della politica europea stavano andando in frantumi.
Chi sarebbe stato il prossimo? La risposta era ovvia. Dopo le elezioni
del 20 novembre 2011, il primo ministro spagnolo, José Luis Zapatero,
fu costretto a dimettersi. La sua sconfitta era talmente sicura che
lui stesso, già nell’aprile di quell’anno, non si era nemmeno
preoccupato di chiedere la propria rielezione. E dopo di lui? Il primo
leader a cadere fu il presidente francese Nicolas Sarkozy, che avrebbe
dovuto vincere le elezioni nell’aprile dell’anno successivo, il 2012,
per ottenere un secondo mandato.
La domanda che ronzava nella mente di tutti nel novembre del 2011 era
se l’unione monetaria europea – creata con tanta cura negli anni
Novanta – fosse sul punto di crollare. Molti esperti pensavano di sì.
L’illustre professore della New York University Nouriel Roubini
sosteneva che non soltanto la Grecia ma anche l’Italia avrebbe dovuto
uscire dall’Eurozona, o ne sarebbe stata cacciata fuori. Ma se questo
fosse accaduto, la moneta unica non sarebbe sopravvissuta. Gli
speculatori avrebbero immediatamente concentrato la propria attenzione
sul nuovo paese più debole (con ogni probabilità la Spagna). Nel
frattempo, i paesi che uscivano dall’Ue si sarebbero trovati in una
situazione ancora peggiore della precedente. Nel giro di una notte
tutte le loro banche e la metà delle loro corporation non finanziarie
sarebbero state dichiarate insolventi, con passività calcolate in
euro, ma asset in dracme e lire.
Anche la reintroduzione delle vecchie valute sarebbe stata
rovinosamente costosa in un periodo di deficit già cronici. Sarebbe
risultato impossibile sostenere nuovi prestiti se non stampando nuovo
denaro. Questi paesi si sarebbero presto trovati in una spirale
inflazionaria che avrebbe neutralizzato i benefici di una
svalutazione.
Per tutte queste ragioni, non mi aspettavo affatto che l’Eurozona
sarebbe andata in frantumi. Ai miei occhi, sembrava ben più probabile
che la moneta comune sarebbe sopravvissuta, e che a disintegrarsi
sarebbe stata invece l’Ue. Dopo tutto, per un paese come la Grecia non
esisteva alcun meccanismo legale per uscire dall’unione monetaria. Ma,
in base all’articolo 50 del Trattato di Lisbona, uno stato membro
poteva decidere di uscire dall’Ue. E fu esattamente ciò che fece
l’Inghilterra.

La forza del movimento Occupy Frankfurt
La Gran Bretagna ebbe fortuna. Per un semplice caso, vale a dire la
faida personale tra Tony Blair e Gordon Brown, il Regno Unito, dopo la
salita al potere dei laburisti, nel 1997, non era entrato
nell’Eurozona. Quando scoppiò la crisi, il Regno Unito riuscì così a
evitare quella che sarebbe stata una catastrofe economica. Con una
situazione fiscale soltanto leggermente migliore di quella della
maggior parte dei paesi mediterranei e un sistema bancario ben più
esteso di quello di ogni altra economia europea, la Gran Bretagna, se
fosse entrata nell’euro, sarebbe diventata un’Irlanda all’ottava
potenza. Invece, la Banca d’Inghilterra riuscì a condurre una politica
espansiva. Tassi nulli, prestiti ingenti a garanzia e svalutazione
ridussero considerevolmente le sofferenze e permisero al “cancelliere
di Ferro” George Osborne di superare la crisi dei mercati dei titoli
con un programma di austerità preventiva. Sarebbe stato quasi
impossibile trovare una pubblicità migliore sui vantaggi
dell’autonomia nazionale.
All’inizio del nuovo mandato di David Cameron nel 2010, si era diffuso
il timore che il Regno Unito potesse spaccarsi. Ma la crisi
finanziaria tolse agli scozzesi ogni ipotesi di indipendenza; i paesi
piccoli se l’erano passata malissimo. E nel 2013, con una svolta
storica che soltanto i più irriducibili Unionisti dell’Ulster avevano
sognato di veder realizzata, gli elettori della Repubblica d’Irlanda
votarono per abbandonare l’austerità degli Stati Uniti d’Europa e
scegliere la prosperità del Regno Unito. Gli irlandesi postsettari
celebrarono la loro nuova cittadinanza in un Regno Riunito della Gran
Bretagna e dell’Irlanda con il seguente slogan: “Meglio i britannici
che Bruxelles”.
Un’altra cosa che nessuno aveva previsto nel 2011 fu ciò che accadde
nei paesi scandinavi. Ispirati dal movimento dei Veri Finlandesi di
Helsinki, gli svedesi e i danesi – che non erano mai entrati nell’euro
– si rifiutarono di accettare la proposta tedesca di un “transfer
union” per salvare l’Europa meridionale. Quando i norvegesi, forti
delle loro ricchezze energetiche, suggerirono la creazione di una Lega
nordica a cinque paesi, includendovi anche l’Islanda, la proposta fu
accolta a braccia aperte.
Senza dubbio, la nuova strutturazione non è particolarmente popolare
in Germania. Ma a differenza di altri paesi, dall’Olanda all’Ungheria,
in Germania qualsiasi tipo di politica populista continua a essere
verboten, proibita. Ogni tentativo di lanciare un partito di “Veri
Tedeschi” (Die wahren Deutschen) naufraga sotto il peso delle consuete
accuse di neo nazismo.
La sconfitta della coalizione guidata da Angela Merkel nel 2013 non fu
affatto una sorpresa dopo la crisi vissuta dal sistema bancario
tedesco nel corso dell’anno precedente. I contribuenti si opposero
alla decisione, presa da Merkel, di salvare la Deutsche Bank, malgrado
il fatto che i prestiti da essa rilasciati all’European Financial
Stability Fund fossero stati decretati dal suo governo. L’opinione
pubblica tedesca era semplicemente stufa di salvare banchieri. Così,
vinse il movimento “Occupy Frankfurt”.
Ciononostante, i socialdemocratici, ora all’opposizione, continuarono
a seguire le stesse politiche di prima, soltanto con maggiore
convinzione europeista. Fu proprio l’Spd a condurre la revisione del
trattato che portò alla creazione dell’European Finance Funding
Office, sostanzialmente un ministero del Tesoro europeo con sede a
Vienna.
Fu ancora l’Spd ad accettare di buon grado l’uscita dei permalosi
britannici e scandinavi, persuadendo i rimanenti ventun paesi a unirsi
alla Germania nei nuovi e federali Stati Uniti d’Europa con la firma
del Trattato di Potsdam, nel 2014. Con l’ingresso dei sei stati
creatisi dopo la dissoluzione della Jugoslavia (Bosnia, Croazia,
Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia), il numero totale dei membri
degli Stati Uniti d’Europa salì a ventotto, uno in più rispetto a
quello dell’Ue prima della sua scomparsa. Poi, dopo la separazione del
Belgio in Fiandre e Vallonia, si arrivò a ventinove.
Cosa ancora più importante, fu l’Spd a coprire le iniziative di Mario
Draghi, il banchiere italiano eletto presidente della Bce nel novembre
del 2011. Draghi si spinse ben oltre le mansioni del proprio mandato
nel massiccio acquisto indiretto di titoli italiani e spagnoli che
portò alla fine della crisi del mercato dei titoli appena poche
settimane dopo la sua elezione. In effetti, Draghi trasformò la Bce in
un prestatore di ultima istanza per i governi.
Ma le iniziative di Draghi ebbero il grande merito di funzionare.
L’espansione dello stato patrimoniale della Bce ha posto un livello
minimo ai prezzi del capitale fisso e ha restaurato la fiducia
nell’intero sistema finanziario europeo, proprio come era avvenuto
negli Stati Uniti nel 2009. Come disse lo stesso Draghi in
un’intervista rilasciata nel dicembre del 2011: “Si può salvare l’euro
soltanto stampandone di più”. Così, l’Unione monetaria europea non
andò a pezzi, nonostantante le disastrose previsioni degli esperti che
circolavano alla fine del 2011. Al contrario, nel 2021 l’euro viene
utilizzato in un numero di paesi maggiore di quello precedente la
crisi.
Ora che sono iniziati i colloqui per l’ingresso dell’Ucraina, i
funzionari tedeschi parlano con entusiasmo di un nuovo Trattato di
Yalta, per dividere nuovamente l’Europa orientale in sfere d’influenza
russe ed europee. Una fonte vicina alla cancelliera Gotha-Dämmerung la
scorsa settimana ha fatto la seguente battuta: “Non ci importa se i
russi hanno gli oleodotti, almeno finché continuiamo a tenerci le
spiagge del mar Nero”.
La ricaduta sui luoghi di vacanza
A rifletterci, è stato probabilmente un vantaggio che l’euro si sia
salvato. Una disintegrazione completa dell’Eurozona, con tutto il caos
monetario che avrebbe comportato, avrebbe potuto avere conseguenze
disastrose. Era facile, nella baraonda delle febbrili macchinazioni
che portarono alle dimissioni di Papandreou e Berlusconi, dimenticare
che sulla sponda del Mediterraneo stavano verificandosi eventi ancora
più drammatici.
Allora, nel 2011, c’erano ancora persone convinte che il nord Africa e
il medio oriente stavano per varcare la soglia di una splendida nuova
era di democrazia. Ma dalla prospettiva del 2021, un simile ottimismo
appare davvero incomprensibile. Gli eventi del 2012 sconvolsero non
soltanto l’Europa, ma il mondo intero. L’attacco israeliano contro gli
impianti nucleari iraniani gettò un tizzone acceso nella polveriera
della “primavera araba”. L’Iran contrattaccò con i propri alleati a
Gaza e in Libano.
Non essendo riusciti a porre il veto sull’azione israeliana, gli Stati
Uniti rimasero in secondo piano, offrendo aiuti insignificanti e
cercando vanamente di tenere lo Stretto di Hormuz senza sparare
nemmeno un colpo. (Quando l’intero equipaggio di una nave da guerra
americana venne catturato e tenuto in ostaggio dalle Guardie della
Rivoluzione iraniane, le già sottili speranze di una rielezione del
presidente Obama svanirono del tutto).
La Turchia colse l’occasione per passare dalla parte iraniana,
ripudiando allo stesso tempo la netta separazione, voluta da Atatürk,
tra stato e islam. Incoraggiati dalla vittoria elettorale, i Fratelli
musulmani presero il potere in Egitto, abolendo subito il trattato di
pace con Israele. Il re della Giordania non ebbe altra scelta che
adeguarsi. I sauditi ribollivano di rabbia, ma non potevano sostenere
apertamente Israele, per quanto desiderassero non vedere la nascita di
un Iran nucleare. Israele era completamente isolata. Gli Stati Uniti
erano indaffarati in altre faccende, in particolare il tentativo messo
in atto dal nuovo presidente Mitt Romney di “ristrutturare”, in tipico
stile Bain Capital, lo stato patrimoniale del governo.
Fu solo all’ultimo momento che gli Stati Uniti d’Europa intervennero
per impedire che si verificasse lo scenario più temuto, in particolare
dai tedeschi: il disperato ricorso di Israele alle armi nucleari.
Parlando dalla splendida nuova sede del ministero degli Esteri degli
Stati Uniti d’Europa, nella Ringstrasse, il presidente europeo Karl
von Habsburg spiegò così la situazione ai giornalisti di al Jazeera:
“Per prima cosa, eravamo preoccupati dall’effetto che una nuova
impennata dei prezzi petroliferi avrebbe avuto sul nostro adorato
euro. Ma soprattutto temevamo gli effetti della ricaduta radioattiva
sui nostri luoghi di vacanza preferiti”.
Riguardando i precedenti dieci anni, il signor von Habsburg – ancora
chiamato dai suoi più stretti collaboratori con il titolo reale di
Arciduca Carlo d’Austria – poteva sentirsi giustamente orgoglioso. Non
soltanto era stato salvato l’euro. In qualche modo, appena un secolo
dopo la deposizione di suo nonno, l’impero asburgico si era
ricostituito come Stati Uniti d’Europa. Non c’è da sorprendersi che i
britannici e gli scandinavi preferivano chiamarlo l’Impero Interamente
Tedesco.
di Niall Ferguson Copyright Wall Street Journal per gentile
concessione di MF (traduzione di Aldo Piccato)