[Forumlucca] La svolta autoritaria del neoliberismo. Debito …

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著者: aunchb -
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題目: [Forumlucca] La svolta autoritaria del neoliberismo. Debito e austerità: il modello tedesco del pieno impiego precario




La svolta autoritaria del neoliberismo. Debito e austerità: il modello tedesco del pieno impiego precario di MAURIZIO LAZZARATO

Prefazione all’edizione italiana de La Fabbrica dell’uomo indebitato, Derive Approdi, marzo 2012.



L’indebitamento dello Stato era, al contrario, l’interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Ogni nuovo prestito era una nuova occasione di svaligiare il pubblico, che investe i suoi capitali in rendita dello Stato.
— K. Marx, Le lotte di classe in Francia

L’uscita dalla crisi si fa fuori dai sentieri tracciati dall’Fmi. Questa istituzione continua a proporre lo stesso tipo di modello di aggiustamento fiscale, che consiste nel diminuire i soldi che si danno alla gente – i salari, le pensioni, i finanziamenti pubblici, ma anche le grandi opere pubbliche che generano lavoro – per destinare il denaro risparmiato al pagamento dei creditori. È assurdo. Dopo quattro anni di crisi non si può andare avanti a togliere denaro sempre agli stessi. È esattamente quello che si vuole imporre alla Grecia! Tagliare tutto per dare tutto alle banche. L’Fmi si è trasformato in un’istituzione con lo scopo di proteggere unicamente gli interessi finanziari. Quando si è in una situazione disperata, com’era l’Argentina nel 2001, bisogna saper cambiare carte.
— Roberto Lavagna, ministro argentino dell’Economia tra il 2002 e il 2005




Meno di vent’anni dopo la «definitiva vittoria sul comunismo» e a quindici anni dalla «fine della storia», il capitalismo è entrato in un’impasse storica. Dal 2007 è vivo grazie alle trasfusioni di somme astronomiche di denaro pubblico. Eppure continua a girare a vuoto. Nel migliore dei casi, riesce a riprodursi, ma dando un colpo di grazia, con rabbia, a ciò che resta delle conquiste sociali degli ultimi due secoli.

Da quando è scoppiata la «crisi dei debiti sovrani» fornisce uno spettacolo esilarante del proprio funzionamento. Le regole economiche di «razionalità» che i «mercati», le agenzie di rating e gli esperti impongono agli Stati per uscire dalla crisi del debito pubblico sono le stesse che hanno prodotto le crisi del debito privato (d’altra parte all’origine della prima). Le banche, i fondi pensione e gli investitori istituzionali esigono dagli Stati il riordino dei bilanci pubblici, quando ancora detengono miliardi di titoli spazzatura, che sono il risultato di una politica di sostituzione di salari e reddito con un sistema di credito. Le agenzie di rating, dopo aver dato un giudizio di triplice A a titoli che oggi non valgono più niente (con un campione di 2679 titoli su 17.000, relativi a prestiti immobiliari, una banca ha fatto un’analisi dei giudizi di Standard & Poor’s: il 99% aveva una triplice A al momento dell’emissione, ma oggi il 90% ha giudizi che scoraggiano l’investimento: non-investment grade), hanno la pretesa, contro qualunque buon senso, di detenere il giusto giudizio e la buona misura economica. Gli esperti (professori di economia, consulenti, banchieri, funzionari di Stato ecc.) – la cui cecità sui disastri che la presunta autoregolazione dei mercati e della concorrenza ha prodotto sulla società e sul pianeta è direttamente proporzionale alla loro servitù intellettuale – sono stati catapultati dentro governi «tecnici», che ricordano irresistibilmente i «comitati d’affari della borghesia». Più che di «governi tecnici» si tratta di «tecniche di governo» autoritarie e repressive che segnano una rottura persino con il «liberalismo» classico.

Ma al colmo del ridicolo stanno probabilmente i media. L’«informazione» dei telegiornali e i talk-show ci spiegano che «la crisi è colpa vostra, perché andate troppo presto in pensione, perché spendete troppo in cure mediche, perché non lavorate così a lungo e così bene come si dovrebbe, perché non siete abbastanza flessibili, perché consumate troppo. Insomma, avete la colpa di vivere ben al di sopra dei vostri mezzi».

La pubblicità, invece, che viene regolarmente a chiudere il becco ai discorsi colpevolizzanti di economisti, esperti, giornalisti e uomini politici, afferma esattamente il contrario: «Siete del tutto innocenti, non avete alcuna responsabilità! Nessun errore e nessuna colpa macchia la vostra anima. Tutti, senza eccezione, meritate i paradisi della nostra merce. È un vostro dovere consumare in modo compulsivo».

Gli «ordini» e le ingiunzioni veicolati dalle semiotiche significanti del senso di colpa e dalle semiotiche iconiche e simboliche dell’innocenza si scontrano. C’è aperta contraddizione tra la morale ascetica del lavoro e del debito e la morale edonista del consumo di massa, esse non sono più ricomponibili.

Più che a un’uscita dalla crisi, tutta questa agitazione somiglia a un circolo vizioso nel quale il capitalismo sembra impantanato. La visione delle nostre classi dirigenti non andando mai oltre il loro portafogli, c’è da aspettarsi il peggio. La ferocia con la quale i governi tecnici e non perseguono il rimborso del debito e la difesa della proprietà privata (i rappresentanti delle banche e dei fondi creditori del debito greco hanno provato, stando al «New York Times», a portare in giudizio alla Corte europea per i Diritti dell’uomo lo Stato greco, che violerebbe dei diritti fondamentali: «property rights are human rights») non indietreggia di fronte a niente. Persino la recessione e la depressione (Grecia) sono mali minori di fronte all’eventualità di non mantenere la promessa di rimborsare il debito. In una recente intervista, il presidente della Bce propone, con un cinismo alquanto tatcheriano, rimedi che non solo sono all’origine della crisi, ma che non faranno altro che aggravarla: diminuzione dell’imposizione per arricchire i ricchi e riduzione delle spese sociali per impoverire i poveri. I politici sono ridotti a fare i contabili e i «procuratori» (Marx) del capitale. Sarkozy ha proposto che le entrate per pagare «gli interessi del debito greco vengano depositate su un conto bloccato che funzioni da garanzia affinché i debiti dei nostri amici greci vengano saldati». Angela Merkel, «favorevole» all’idea, ritiene che la cosa consentirebbe di essere «sicuri che questi soldi siano disponibili in modo durevole».

Se vi è una costante nel capitalismo, è appunto quella di uno stato di guerra al quale il liberalismo sembra condurre in forma quasi «automatica». La guerra inter-capitalistica appare oggi meno intensa di quella che ogni singolo capitale nazionale conduce contro il proprio nemico interno. I diversi capitalismi, in disaccordo su come dividersi la torta dello sfruttamento mondiale, convergono su come intensificarla all’interno dei singoli Stati.

Per uscire dalla crisi, i tempi sono quelli delle «riforme» strutturali: regolazione della finanza? Ridistribuzione della ricchezza? Riduzione delle disuguaglianze, della precarietà, della disoccupazione? Fine della scandalosa «assistenza» dello Stato sociale e dei regali fiscali ai ricchi e alle imprese? Le uniche «riforme di struttura» immaginate e messe in opera sono due: ristrutturazione del mercato del lavoro accompagnata dalla riduzione dei salari e drastici tagli alle spese sociali, a cominciare, come sempre, dai sussidi di disoccupazione. Il modello di riferimento è tedesco. In una delle sue comparsate televisive, Sarkozy ha citato la Germania nove volte e il governo tecnico di Mario Monti seduce la novella «lady di ferro», dalla quale riceve diretti «consigli».



Il modello tedesco

Da dieci anni la Germania porta avanti politiche di flessibilizzazione e di precarizzazione del mercato del lavoro e di rigidi tagli allo Stato sociale. Al parlamento europeo, Daniel Cohn-Bendit ha chiamato in causa direttamente Angela Merkel: «Com’è possibile che un paese ricco come la Germania abbia il 20% di poveri?»1. L’ex sessantottino è un grosso ingenuo o soffre di amnesia? Meglio dire un cinico ipocrita, visto che è stato il governo «rosso-verde» di Schröder ad aver introdotto, tra il 2000 e il 2005, la gran parte delle leggi all’origine della situazione attuale: quelle di un «pieno impiego precario» che hanno trasformato disoccupati e «inattivi» in una massa impressionante di working poors. Servono un minimo di storia e qualche dato per scovare le miserie del modello tedesco che la troika (Europa, Fmi, Bce) sta imponendo a tutti i paesi europei.

Tra il 1999 e il 2005 il governo «rosso-verde» ha portato avanti, appoggiandosi allo slogan «Fördern und fordern» (promuovere ed esigere), quattro riforme dell’assistenza alla disoccupazione e del mercato del lavoro, l’una più catastrofica dell’altra (leggi Harzt).

Nel gennaio 2003 la legge Harzt II ha introdotto i contratti «mini-job», una sorta di contratto di lavoro al nero legalizzato (sollevano i datori di lavoro dalle contribuzioni sociali e non garantiscono agli assunti né copertura per la disoccupazione né pensione), e i contratti «midi-job» (salario tra i 400 e gli 800 euro), spingendo tutti a farsi imprenditori della propria miseria.

Nel gennaio 2004, la legge Harzt III ristruttura le agenzie per l’impiego nazionali e federali, con l’obiettivo di intensificare il controllo dei comportamenti e della vita e l’accompagnamento individuale dei lavoratori poveri. Una volta pronti i dispositivi della “governance” dei lavoratori poveri, il governo rosso-verde approva una serie sbalorditiva di leggi per «produrli». La legge Hartz IV, entrata in vigore il primo gennaio 2005, prevede:

– Riduzione della durata delle indennità, da tre anni a un anno; irrigidimento delle condizioni di accesso e obbligo di accettare qualunque lavoro proposto. Per avere diritto al sussidio di disoccupazione occorre essere stati assunti per almeno dodici mesi nel corso dei due anni precedenti la perdita dell’impiego. Dopo un anno di sussidio, il disoccupato percepisce l’aiuto sociale (l’equivalente di un reddito di solidarietà) pari a un importo di 359 euro a persona, rivalutato a 374 euro. Una relazione dell’agenzia federale per l’impiego indica che un lavoratore su quattro che perde il proprio impiego riceve direttamente l’aiuto sociale (Arbeitslosengeld II: ALG II) e non l’indennità di disoccupazione (ALG I). La ragione sta nella tipologia di impiego che il lavoratore ha appena perso: precario o mal pagato.

– Riduzione delle indennità versate ai disoccupati di lunga durata che rifiutino di accettare lavori sotto-qualificati.

– I disoccupati devono accettare impieghi a un salario di 1 euro l’ora (addizionale al sussidio disoccupazione che percepiscono).

– Possibilità di ridurre gli indennizzi dei disoccupati che hanno dei risparmi e dunque possibilità di accesso ai conti bancari degli «assistiti». Possibilità di valutare lo standard dell’alloggio dell’«assistito» e di richiedere, se necessario, un trasferimento.

I beneficiari dell’aiuto sociale Hartz IV sono stimati in 6,6 milioni, di cui 1,7 milioni di bambini. I restanti 4,9 milioni di adulti sono in realtà dei working poors impiegati per meno di 15 ore settimanali. Nel maggio 2011, le statistiche ufficiali ormai dichiaravano cinque milioni di contratti mini-job, con un aumento del 47,7%, preceduti solo dal boom dell’interinale (+134%). Si tratta di forme di contratto molto diffuse anche tra i pensionati: 660.000 di loro cumulano le pensioni a un mini-job2. Una parte importante della popolazione, il 21,7%, nel 2010 è assunta part-time.

L’istituto di statistica tedesco ha misurato l’aumento della precarietà e delle forme che essa assume: tra il 1999 e il 2009, tutte le forme di lavoro atipico sono cresciute almeno del 20%3. Le più colpite sono le famiglie monoparentali (le donne) e gli anziani. Nella cornice del pieno impiego precario, il tasso di disoccupazione ufficiale esibito come un segno del «miracolo economico tedesco» non significa granché! L’esercito di working poors in continua espansione non è formato unicamente da precari, ma anche da lavoratori con un contratto a durata indeterminata. Nell’agosto 2010, una relazione dell’istituto del lavoro dell’università di Duisburg-Essen ha infatti stabilito che oltre 6,55 milioni di persone in Germania ricevono meno di 10 euro lordi all’ora, con un aumento di 2,26 milioni in dieci anni. Per la maggior parte sono vecchi disoccupati che il sistema Hartz è riuscito ad «attivare»: quelli con meno di 25 anni, gli stranieri e le donne (69% del totale). D’altra parte, due milioni di occupati guadagnano meno di 6 euro all’ora, mentre nell’ex Repubblica democratica tedesca sono in molti a tirare avanti con meno di quattro euro all’ora, cioè 720 euro al mese a tempo pieno. Risultato: i working poors rappresentano il 20% degli occupati tedeschi.4

Durante la crisi finanziaria, il governo è ricorso massicciamente alla disoccupazione parziale, che consente all’impresa di versare solo il 60% della normale retribuzione e di pagare solo la metà delle contribuzioni sociali. Altro risultato della svolta iniziata da Schröder: rispetto al Pil, dal 2002 la quota dei salari è scesa del 5% oltre-Reno. I cambiamenti voluti dai «rosso-verdi» sono significativi: dopo anni di proliferazione caotica e selvaggia della precarietà, di sotto-impieghi e sotto-salari, era venuto il momento di introdurre una regolazione e una razionalizzazione della povertà e della precarietà, costituendo un «vero» e «coerente» mercato del lavoro di «pezzenti», che spingerà alla flessibilità e all’adeguamento alla ragione economica anche i meglio occupati. È la popolazione nel suo complesso – precari, working poors, lavoratori qualificati – a diventare fluttuante, disponibile alla flessibilità permanente. Le diverse componenti della «forza lavoro» sociale sono ormai una semplice variabile di aggiustamento della congiuntura economica.

Il programma «rosso-verde» si è guadagnato il nome che porta: «Agenda 2010»5; perché dieci anni dopo la prima legge Hertz i risultati sono, fuor di metafora, micidiali. In Germania, l’aspettativa di vita dei più poveri – di coloro che arrivano solo al 75% del reddito medio – diminuisce. Per le persone a basso reddito, stando alle cifre ufficiali, è scesa da una media di 77,5 anni nel 2001 a 75,5 nel 2011. Nei Länder dell’Est del paese è ancora peggio: l’aspettativa media di vita è scesa da 77,9 a 74,1 anni.

La Germania è il primo paese europeo a seguire gli Stati Uniti sulla strada del progresso liberista. Ancora due decenni di sforzi per «salvare il sistema pensionistico» e la morte coinciderà con l’età della pensione. Anche la guerra interna ha i suoi «bombardamenti chirurgici» mirati. Se niente cambia, nell’ex Germania dell’Est l’aspettativa di vita scenderà a 66 anni, appena un anno prima del diritto alla pensione. Mors tua, vita mea! Ma poco importa: l’economia è sana, le «agenzie» danno giudizi positivi, i creditori si abbuffano e l’aspettativa di vita della parte più ricca della popolazione continuerà ad aumentare.

Serve una breve digressione su Peter Hartz, promotore delle leggi sul regime di disoccupazione e della riforma degli aiuti sociali; perché la sua condanna a due anni di prigione con condizionale e al pagamento di una multa di 576.000 euro è un esempio della «corruzione» consustanziale al modello neoliberista. Peter Hartz, ex responsabile delle risorse umane di Volkswagen e grande moralizzatore degli Anspruchdenker, dei «profittatori del sistema», ha ammesso di aver versato a Klaus Volkert, sindacalista dell’IG Metall ed ex presidente del consiglio di fabbrica del costruttore di automobili tedesco, diverse mazzette, per pagare prostitute e viaggi esotici. Klaus Volkert, inevce, è stato portato in giudizio per incitamento all’abuso di fiducia, esattamente come l’ex direttore del personale, Klaus-Joachim Gebauer, accusato di complicità.

Fare della povertà e della precarizzazione una variabile strategica della flessibilità del mercato del lavoro è quanto, dietro il ricatto del debito, sta avvenendo in Italia, Portogallo, Grecia, Spagna, Inghilterra e Irlanda.6 La Francia si è impegnata su questo terreno con l’arrivo al potere di Sarkozy, anche se qui i risultati non sono così eclatanti come in Germania. Grazie ancora una volta a un uomo di centro-sinistra, Martin Hirsch, assunto dal presidente di destra in occasione della sua apertura a «sinistra», in Francia verrà sperimentata la trasformazione dell’aiuto sociale (Reddito minimo di inserimento – Rmi –, a 417 euro a persona) in arma di produzione di working poors (Reddito di solidarietà attiva – Rsa). È con le tecnologie di governo dei poveri che si testano dispositivi di potere e di controllo che in un secondo tempo verranno estesi all’insieme della società, cosa che non sembra interessare né la sinistra né i sindacati. Il Reddito di solidarietà attiva comporta il superamento dei dualismi fordisti (disoccupazione/impiego, salario/ reddito, diritto del lavoro/diritto dell’assistenza sociale, legge/contratto) e organizza la loro sovrapposizione e il loro concatenamento grazie alla figura del working poor. Fissa in maniera stabile lo statuto di un lavoratore/assistito che permette di accumulare salario di attività e reddito di «solidarietà». Questa confusione tra «salariato» e «assistito», tra lavoro, disoccupazione e assistenza sociale, tra diritto del lavoro e diritto del Welfare, è la condizione della costruzione di un grande segmento de mercato del lavoro, che ha per norma il sotto-impiego e un sotto-salario. Il Reddito di solidarietà attiva segna così l’ufficiale abbandono dell’obiettivo del pieno impiego e l’istituzione di politiche di «piena attività», intesa come un’attività per tutti, indipendentemente dalla durata e dalla qualità dell’impiego.7

Anche la riforma del mercato del lavoro che il «governo tecnico» italiano si sta apprestando ad approvare s’ispira direttamente al modello tedesco. Il ministro delle Politiche sociali Fornero, in una lettera alla «Stampa» del 4 marzo lo dice a chiare lettere. La traduzione della realtà tedesca nella Nuova Lingua con la quale si esprime la «governance», è un capolavoro di ipocrisia e di falsità:

“L’esempio più recente di una riforma complessiva del mercato del lavoro e degli strumenti di protezione sociale – prescindendo dal percorso recentemente avviato dalla Spagna – è offerto dagli interventi realizzati in Germania all’inizio del decennio scorso quando il Paese era ritenuto il «malato d’Europa», incapace di crescere e di superare l’urto della riunificazione. Le riforme tedesche hanno interessato tutti gli aspetti del mercato del lavoro e del Welfare: miglioramento degli strumenti di istruzione professionalizzanti e facilitazione del passaggio tra scuola e lavoro; sostegno alla partecipazione al mercato del lavoro e all’occupazione, anche parziale, delle fasce più svantaggiate; rafforzamento del legame tra il godimento di particolari trattamenti e l’effettiva azione di riqualificazione e di ricerca di lavoro; potenziamento dell’attività dei centri per l’impiego; introduzione di maggiore flessibilità, sia con nuove tipologie contrattuali sia negli spazi della contrattazione tra impresa e lavoratore”.

Dietro il ricatto del debito, lo Stato intende portare a termine quel passaggio, inaugurato negli anni Ottanta, dal Welfare (diritti e servizi sociali) al Workfare (subordinazione delle politiche sociali alla disponibilità e alla flessibilità del pieno impiego precario). La svolta autoritaria del neoliberismo sta per farla finita col «modello sociale europeo», perché, come afferma Mario Draghi, non possiamo più permetterci di «pagare la gente che non lavora».

A ogni cambiamento di fase economico-politica ritroviamo sempre lo Stato e la sua amministrazione al comando delle operazioni. Proprio come ha favorito e spinto le politiche neoliberiste del credito negli anni Ottanta e Novanta, è allo Stato che spetta l’organizzazione della loro continuità nelle nuove forme autoritarie e repressive del rimborso del debito e della figura dell’uomo indebitato. Cade così un’altra illusione della sinistra, quella che oppone alla logica della proprietà privata del mercato la logica di un «pubblico» statale. Non c’è né autonomia del politico, né neutralità dello Stato. Le sue amministrazioni agiscono in profondità sull’economia, la «società» e le soggettività, come la costruzione del mercato del lavoro dimostra in modo paradigmatico.



Crisi della finanza o crisi del capitalismo?

Non si tratta tanto di dimostrare l’onnipotenza del capitalismo quanto di rilevarne la debolezza, a medio e lungo termine. Se le controriforme strutturali andranno drammaticamente a colpire una gran parte della popolazione, non tracciano per questo alcuna strada di uscita dalla crisi. Gli esperti, i mercati, le agenzie di rating e gli uomini politici, non sapendo né dove andare né come, dietro il ricatto dei deficit di bilancio, perseguono le politiche neoliberiste di produzione e di intensificazione delle differenze di classe che sono la vera origine della crisi.

La macchina capitalistica si è ingrippata non perché non fosse ben regolata, non perché vi fossero degli eccessi o perché i finanzieri fossero avidi (un’altra illusione della «sinistra» regolatrice!). Tutto questo è vero ma non coglie la natura della crisi attuale, che non è cominciata con il disastro finanziario. Quest’ultima è piuttosto il risultato del fallimento del programma neoliberista (fare dell’impresa il modello di qualunque relazione sociale) e della resistenza che la figura soggettiva da questi promossa (il capitale umano e l’imprenditore di se stessi) ha incontrato. È questa resistenza, anche se passiva, che ostacolando la realizzazione del programma neoliberista ha trasformato il credito in debito. Se il credito e il denaro esprimono la loro comune natura di «debito», è perché l’accumulazione è bloccata, è incapace di garantire nuovi profitti e di produrre nuove forme di assoggettamento, non il contrario.

Tra il 2001 e il 2004, negli Stati Uniti, la crescita del 10% del Pil è stata possibile unicamente perché misure di rilancio dell’attività hanno iniettato nell’economia 15,5 punti di Pil: riduzione dell’imposizione di 2,5 punti del Pil, credito immobiliare passato da 450 a 960 miliardi (1300 prima della crisi del 2007), aumento delle spese pubbliche di 500 miliardi.

A cavallo del secolo, la Germania era nella stessa situazione. La crescita del Pil tedesco tra il 2000 e il 2006 è stata di 354 miliardi di euro. Ma se paragonata ai numeri del debito nello stesso periodo (342 miliardi), non è difficile constatare che il risultato reale è una «crescita zero».

È stato il Giappone a entrare per primo – dopo l’esplosione della bolla immobiliare negli anni Novanta (e la successiva esplosione del debito per rimettere in sesto il sistema bancario) – in una «crescita zero» che volge ormai alla recessione. Meglio di altri paesi, il Giappone rivela la natura della crisi contemporanea. Le ragioni dell’impasse del modello neoliberista non vanno cercate unicamente nelle contraddizioni economiche, seppure molto reali, ma anche e soprattutto in ciò che Guattari chiama «crisi della produttività di soggettività».

Il miracolo giapponese, che è stato capace di forgiare una forza lavoro collettiva e una forza sociale «molto integrata al macchinismo» (Guattari), sembra girare a vuoto, preso anch’esso, come tutti i paesi sviluppati, nelle maglie del debito e dei suoi modi di soggettivazione. Il modello soggettivo «fordista» (impiego a vita, un tempo unicamente dedicato al lavoro, il ruolo della famiglia e la sua divisione patriarcale dei ruoli ecc.) è esaurito, e non si sa con cosa sostituirlo. La crisi del debito non è una follia della speculazione, ma il tentativo di mantenere in vita un capitalismo già malato. Il «miracolo economico» tedesco è una risposta regressiva e autoritaria alle impasse che si erano già manifestate prima del 2007. È per questa ragione che la Germania e l’Europa sono così feroci e inflessibili con la Grecia. Non solo in nome del «I want my money back» (quello dei creditori), ma anche e soprattutto perché la crisi finanziaria apre una nuova fase politica, nella quale il capitale non può più contare sulla promessa di una futura ricchezza per tutti come negli anni Ottanta. Non può più disporre degli specchietti per le allodole della «libertà» e dell’«indipendenza» del capitale umano, né di quelli della società dell’informazione o del capitalismo cognitivo. Per dirla come Marx, può solo contare sull’estensione e l’approfondimento del «plusvalore assoluto», ovvero un allungamento del tempo di lavoro, un incremento del lavoro non retribuito e dei bassi salari, dei tagli ai servizi, della precarizzazione delle condizioni di vita e di impiego, sulla diminuzione della speranza di vita. L’austerità, i sacrifici, la produzione della figura soggettiva del debitore non rappresentano un brutto momento da superare in vista di una «nuova crescita», ma tecnologie di potere, di cui solo l’autoritarismo, che non ha più niente di «liberale», può garantirne la riproduzione. Il governo del pieno impiego precario e la tagliola del saldo del debito richiedono l’integrazione nel sistema politico democratico – che dagli anni Ottanta funziona su altro che la rappresentanza – di interi blocchi del programma delle estreme destre. La resistenza passiva che non ha aderito al programma neoliberista rappresenta la sola speranza di fuggire alle «tecnologie di governo» dei «governi tecnici» del debito. Di fronte alla fiera degli orrori dei piani di austerità imposti alla Grecia, c’è chi dovrebbe dirsi, in un modo o nell’altro, de te fabula narratur!

È di te che si parla.

Berlino, 5 marzo 2012







Note

1. Le statistiche dicono un aumento della povertà dal 12,2% della popolazione nel 2005 al 15,6% nel 2010. Dati comunque notevoli e notevole soprattutto la progressione. È risaputo che i numeri della povertà non diminuiscono con la «crescita», anzi. Cosa che la dice lunga sulla natura di quest’ultima.

2. Se rispetto al totale rappresentano solo il 3%, in termini di flusso sono in costante aumento. Nel 2000 erano solo 416.000. Ma in dieci anni il loro numero è aumentato del 58%. Nel 2007, il governo tedesco ha portato l’età pensionabile da 65 a 67 anni, quando l’età reale di pensionamento è di 62,1 anni per gli uomini e di 61 anni per le donne, cosa che comporta una precarizzazione e un abbassamento travestito del livello delle prestazioni.

3. L’11 gennaio 2012, Destatis pubblica il rapporto «Ombre e luci sul mercato del lavoro», nel quale si legge: «Il numero di impieghi cosiddetti atipici – part-time a meno di venti ore settimanali, incluse le attività marginali, gli impieghi temporanei e l’interinale – tra il 1991 e il 2010 è aumentato di 3,5 milioni, mentre il numero di attivi che dispongono di un impiego regolare è precipitato di circa 3,8 milioni».

4. Le ultime statistiche parlano di 4,1 milioni di lavoratori che guadagnano meno di 7 euro, 2, 5 milioni meno di 6 e 1,4 milioni meno di 5 euro lordi all’ora. La maggior parte di questi lavoratori sono donne, giovani, persone senza formazione e immigrati.
http://www.focus.de/finanzen/news/23-prozent-billig-arbeitskraefte-jeder-vierte-deutsche-schafft-fuer-niedriglohn-_aid_723968.html

5. La socialdemocrazia, dopo essersi convertita all’economia sociale di mercato (ordoliberalismo) nel Dopoguerra, il primo giugno 2003 si è convertita al neoliberismo, approvando l’Agenda 2010 con una maggioranza dei delegati dell’80%. Il 15 giugno 2003 il congresso dei Verdi ha adottato con una maggioranza pari al 90% lo stesso programma, che prevede anche un sistema pensionistico a capitalizzazione, la privatizzazione dei servizi pubblici ecc.

6. L’Europa procede a marcia forzata verso il modello americano del libero licenziamento. Il governo spagnolo ha approvato, il 10 febbraio 2012, leggi che perseguono la stessa logica: facilitazione dei licenziamenti, riduzione delle indennità di disoccupazione e taglio dei salari. Le indennità di disoccupazione passano da un massimo di 42 a 24 mensilità. I licenziamenti per ragioni finanziarie, con una cassa integrazione limitata a 12 mensilità, vengono facilitati. Per licenziare con ragioni finanziarie, è sufficiente che l’azienda abbia tre semestri consecutivi di ribasso di vendite, anche se continua a fare profitti. Dopo tre trimestri di ribasso di vendite, le imprese possono imporre ribassi di salario unilaterali. Il rifiuto comporta il licenziamento.

7. Con il Reddito di solidarietà attiva si passa da una logica statutaria e istituzionale (uguali diritti per tutti!) a una logica contrattuale e discrezionale (per accedere ai diritti il beneficiario deve firmare un contratto preventivo) che, avendo di mira situazioni specifiche, approfondisce il solco di ogni politica sociale: l’individualizzazione. Il contratto di inserimento è un ibrido tra «legge» e «contratto» che, secondo Alain Supiot, non esprime l’uguaglianza e l’autonomia dei contraenti ma l’affermazione di un’asimmetria di potere: «Il loro oggetto [dei contratti di inserimento] non è scambiare beni determinati, né stringere un’alleanza tra uguali, ma legittimare l’esercizio del potere», visto che il contraente, per poter ottenere il sussidio, è costretto a firmare. Si passa da una logica del diritto dell’«avente diritto» a una logica che subordina il sussidio a un investimento soggettivo, la cui prima prova è rappresentata da un «lavoro su di sé», volto a dimostrare di «essere disponibili al sotto-impiego e a un sotto-salario». Il Reddito di solidarietà attiva effettua un rovesciamento della logica dell’aiuto sociale, cioè un rovesciamento del «debito». Chiude una volta per tutte la breccia aperta dal Reddito minimo di inserimento dentro il diritto all’assistenza sociale: un sussidio non vincolato al «lavoro» e privo di «contropartita» diretta. Il Reddito minimo di inserimento affermava, anche se in modo ambiguo, un debito della «nazione» nei confronti dei «cittadini più svantaggiati». Il Reddito di solidarietà attiva, al contrario, ha come obiettivo quello di indicizzare il sussidio a un sotto-impiego, alla disponibilità all’occupabilità e a un contratto di inserimento. Oltre a istituire un working poor, ne forma il senso di colpa, poiché il lavoratore viene implicitamente ritenuto responsabile della propria condizione e dunque in debito con la società e con lo Stato.