Intervista a Joseba Sarrionandia, scrittore ed esiliato basc…

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Auteur: EHLINFO
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Sujet: Intervista a Joseba Sarrionandia, scrittore ed esiliato basco
Riportiamo di seguito un'intervista allo scrittore basco Joseba Sarrionandia, pubblicata da Il Manifesto.

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La vitale grammatica della resistenza
Un'intervista con lo scrittore e saggista basco Joseba Sarrionandia. I rapporti di potere nella realtà contemporanea e il conflittuale rapporto tra i processi di omogeneizzazione culturale tesi a imporre un «pensiero unico» e le manifestazioni di insorgenza e alterità politica, sociale e economica che caratterizzano la globalizzazione Il linguaggio dei dominanti cancella la vita dei dominati. Per questo, il Paese Basco è considerato una realtà immaginaria solo perché ancora non esiste.

Joseba Sarrionandia è uno scrittore poeta e saggista basco esule dal 1985 quando, con una rocambolesca fuga riuscì a evadere (nascosto nella cassa di un gruppo musicale) dal carcere di Martutene (San Sebastian) assieme ad un altro miltiante basco, Inaki Pikaebea. Entrambi erano in carcere accusati di essere militanti dell'Eta. Da allora, Sarrionandia scrive dall'esilio. Nel 2011 ha vinto il Premio letterario Euskadi istituito dal governo della Comunità Autonoma Basca, per il libro Moroak gara behelaino artean? («Siamo mori nella nebbia?»). Il libro è un saggio che affronta l'epoca della guerra coloniale spagnola in Marocco negli anni Venti del Novecento. Lo scrittore e saggista è considerato una pietra miliare nella letteratura basca contemporanea e la sua prolifica produzione comprende poesia, romanzi, saggistica caratterizzata da una scrittura «sperimentale».

In italiano è possibile leggere Lo scrittore e la sua ombra (Giovanni Tranchida Editore, traduzione dal basco di Roberta Gozzi).


INTERVISTA di Gorka Bereziartua, Andoni Olariaga (Il Manifesto)

In questo ultimo libro - Moroak gara behelaino artean? («Siamo mori nella nebbia?») - affronti i temi dell'esilio, della lingua, della «spagnolità» dei baschi, dei comportamenti dei poteri di forti (mezzi di comunicazione, borghesia, esercito...)..

Il tema principale è il potere. Una grammatica berbera scritta a Tetuan e a Tangeri, alla fine del XIX secolo, è il punto di partenza. Possiamo paragonarla al vaso di Pandora, che una volta aperto provoca catostrofi di ogni tipo. Volevo raccontare di come uomini e donne vivono in società basate su rapporti di potere e di oppressione, tenendo ben presente il fatto che nel nord Africa, l'imperialismo europeo ha raggiunto l'apoteosi. Nello sviluppo capitalista, come ha mostrato Max Webber, è stato decisivo il concetto religioso, puritano della vita, legato al denaro. Successivamente, la costruzione degli stati nazione, il colonialismo nel Terzo Mondo, così come la globalizzazione e il consumismo attuali, non ne sono che la continuazione. Questo saggio è un invito a prendere coscienza dei rapporti di potere che controllano il mondo oggi. .

Hai optato per la sperimentazione quando ti sei avvicinato alla saggistica (in Ni ez naiz hemengoa o in Hitzern ondoeza, per esempio). Questo vuol dire che è finita l'epoca del saggio che difendeva un punto di vista forte? Che occorre destrutturare il pensiero?

Nelle università, la forma-saggio tiene ancora banco, ma spesso non serve a nulla se non all'autore per ottenere un «titolo». Thorstein Veblen aveva analizzato bene questo fenomeno più di un secolo fa. Il libro di Veblen era un saggio sociologico, The Theory of the Leisure Class, An Economic Study of Institutions ma, quando lo lesse, George Luis Borges pensò che si trattasse di una satira. E la cosa è andata peggiorando. Le università basche assomigliano a quelle di Chicago di un secolo fa: contribuiscono cioè a burocratizzare il pensiero.

Sono convinto che quando quando un pensiero unico spinge verso la dissoluzione di tutti gli altri pensieri, è il momento buono per pensare seriamente le cose. Quando dicono che la storia è finita, significa che c'è davvero in gioco qualcosa nella storia del mondo.

Negli ultimi tempi, le domande e le preoccupazioni, le inquietudini sull'identità e sulla «baschitudine» si sono moltiplicate. Si svolgono numerose conferenze sulla costruzione dell'identità, sulla storia della Navarra, la lingua, il territorio, il Paese Basco immaginario. Si rivendica che siano la lingua o la volontà, i sentimenti, la storia, ciò che rende baschi. Nel tuo ultimo libro approfondisci anche questa tematica. Esiste un'identità che si potrebbe chiamare basca? Per definire questa identità siamo in possesso di una idiosincrasia, una storia, un folklore o dei valori propri?

Quello che definiamo come identità, in realtà, è una cosa ordinaria: è ciò in cui ti identifichi; è ciò che funziona come punto di riferimento. Se questo processo avviene in modo naturale, se non trova ostacoli, non ci sono ragioni per cui tu gli dia importanza. Ma, se ci sono degli ostacoli, allora diventa un problema. L'identità proibita può arrendersi e piegarsi al modello imposto, oppure può scegliere di resistervi.

È evidente che esiste un'identità basca, con una storia dolorosa, con una lingua emarginata, con una geografia divisa. L'identità non ha niente di meraviglioso in sé, è qualcosa di ordinario. Tutte le persone hanno un'identità, come hanno i piedi. Ma, se ti pestano i piedi, li noti di più, perché fanno male. Anche le identità negate sono cosa corrente e se ne può parlare usando la formula iniziale di tutti i racconti: «C'era una volta...». Le storie passano, le lingue si dimenticano, le carte geografiche si rinnovano, le identità cambiano. Ma quando, nel XIX secolo, si affermarono gli stati nazionali, molti baschi non vollero integrarsi nell'identità spagnola o francese e, da allora in poi, l'identità dei baschi è diventata un'identità di resistenza.

Attualmente siamo in una terza fase, non abbiamo ancora capito/scoperto come trasformare questa identità-resistenza in identità-progetto, e i tentativi realizzati/fatti nel corso del XX secolo si sono rivelati sbagliati. Esiste una comunità basca, ma il progetto politico nazionale non arriverà da solo, lo si può solo costruire.

Noam Chomsky sostiene che tutte le persone attingono a grammatica universale, mentre Anna Wiersbicka ha parlato di una «semantica universale». Sono teorie che possono essere utilizzate come argomento a favore delle lingue dominanti. Qual è il tuo punto di vista?

A me piacciono entrambe le tesi: «ogni lingua ha la sua propria visione del mondo» e «tutte le persone possiedono una grammatica universale». Sono elementi complementari, due belle metafore.

D'altra parte, qualunque pretesto può essere utilizzato come argomento a favore delle lingue dominanti. Siccome esiste un'unica grammatica universale uguale per tutti, chi detiene il potere dirà che le altre lingue sono di troppo. Oppure che le lingue delle comunità che vivono, per esempio, in montagna, danno una visione differente e più limitata del mondo, vale a dire, più o meno, che quelli che parlano la lingua di montagna sono degli idioti. E si potrebbe anche arrivare a dire che non c'è abbastanza carta per pubblicare libri in diverse lingue. Chi vuole imporre una lingua dominante ha la legge della forza dalla sua parte.

Si è spesso proclamato il valore, l'essenza, la razza e l'idiosincrasia della baschitudine, Tu, per contro, hai spesso proposto una cultura basca aperta. In quest'epoca di sincronismo o metissage, di cosa parliamo quando parliamo di cultura basca?

Se si dovesse fare un museo, la «cultura basca» sarebbe quella che non è in un'altra lingua, la parte specifica della cultura basca, con le sue bizzarrie da esporre accuratamente dietro una vetrina. Ma in senso più ampio, la «cultura basca» è tutta la cultura dei baschi, incluso gli elementi che condividiamo con le altre culture. La cultura dei baschi, in generale, è aperta e ampia, non perché sia io a proporlo, ma perché è così. Il mélange e il cambiamento esistono da sempre, con la cultura romana, con secoli di civiltà cristiana, con la Spagna, con la Francia.

Il potere rivendica sempre di più la multiculturalità, l'apertura... Ma, nella realtà, questo discorso porta con sé la richiesta di un atteggiamento aperto da parte degli emarginati. L'apertura stessa, come concetto, è diventata un terreno di conflitto ?

La globalizzazione, ha detto l'economista J. K. Galbraith, è il soprannome utilizzato per nascondere l'espansionismo senza limiti dell'impero. In ambito culturale, la globalizzazione è americanizzazione. In realtà non si tratta di un nuovo genere di imperialismo e la memoria della nostra lingua è migliore della nostra, quando si tratta di ricordare del passato. C'è stata, per esempio, una dominazione romana: bake (pace), kate (catena), galtzada (strada), lege (legge), errota (ruota, mulino) gorputz (corpo), ortu (giardino, orto), fede (fede), denbora (tempo)...

A differenza del colonialismo di un tempo, l'imperialismo attuale funziona utilizzando un'ideologia multiculturale. È la faccia pulita della globalizzazione, perché l'impero ha più di una faccia, come Giano: la faccia militarista e usurpatrice e la faccia moderna e cosmopolita. Gli apparati della globalizzazione non impongono una cultura monolitica, almeno in apparenza, ma promuovono la diversità culturale sul mercato.

L'apertura culturale non è affatto innocente, come non lo è in economia l'apertura del mercato. È indispensabile un po' di senso critico. Questo marketing multiculturale non viene di per sé a dare una mano alla diversità. Si potrebbe dire che si tratta di una maschera per nascondere il saccheggio economico e la violenza politica. E c'è, secondo me, un punto chiave: la società neoliberale consumistica propone il multiculturalismo, ma distrugge le basi comunitarie delle culture.

Di fronte a questo multiculturalismo del mercato è indispensabile un multiculturalismo critico.

Il rapporto fra l'individuo e il mercato è un rapporto di consumo. In un negozio trovi dodici marche diverse di burro, puoi scegliere. Non solo puoi, ma devi continuamente scegliere fra dodici marche diverse di burro. Puoi anche pensare di avere un grande margine di potere di decisione, anche se hai sempre meno possibilità di decidere qualcosa di importante. Dobbiamo recuperare gli spazi di comunicazione e di democrazia, noi baschi dobbiamo trasformare il Paese Basco in uno spazio di comunicazione. Una nazione è soprattutto questo, uno spazio di comunicazione. Gli spazi di comunicazione, in politica, diventano spazi di decisione. La comunicazione e la solidarietà potrebbero essere le basi si una buona democrazia.

Bisogna andare oltre la resistenza, bisogna proporre un progetto culturale e politico. Con scelte di maggior consistenza rispetto a quelle che ci vengono proposte al supermercato o in tv. Bisogna proporre degli spazi culturali e politici migliori del MacWorld e del Celtiberia Show. Se si produce una buona letteratura, leggerò in euskera. Se la letteratura in basco non mi dice niente, preferisco leggere le opere di Rafael Sanchez Ferlioso, tanto per citare uno scrittore.

In questo scontro tra omogeneizzazione e diversità culturale, l'occidente dimostra una superiorità morale, politica (e militare) rispetto all'oriente. Tenendo conto di ciò, come far fronte alle questioni morali e politiche poste dai nuovi sistemi di valori e di credenze giunti nel nostro paese?

Non credo/penso che i conflitti sorgano a causa delle differenze culturali e filosofiche, i problemi fra le persone sorgono quando qualcuno cerca di sottomettere l'altro. Siamo immersi in rapporti di potere duri, e questa relazione fra il restare intrappolati e la resistenza non è nata ieri. Bisogna affrontare le cose non in modo unilaterale, bensì ascoltando gli altri.

La ragione non è assoluta. La ragione è contingente, storica e cangiante. Non è facile rendersene conto, né essere coerenti.

Alla fine del libro sostieni che il compito dei baschi consiste nel creare una nazione senza stato, al di là dello stato francese e di quello spagnolo. Per questo proponi di redigere una costituzione: la costituzione di una nazione libera senza stato. Viste le caratteristiche socio-politiche della realtà attuale, credi che questo sia possibile? Cioè, realizzabile?

Mi piacerebbe vedere i baschi difendere delle buone idee, in modo creativo, a favore della sovranità e di una società più egualitaria. Gli Stati che ci dominano non ci daranno nessun «diritto». Ognuno di noi deve diventare sovrano. Noi baschi dobbiamo imparare a organizzarci come una comunità. Se fosse possibile sotto forma di stato-nazione, come gli altri, tanto meglio. Finché non è possibile, in un altro modo.

Le fondamenta della nazione non sono ancora state poste. I giovani di Atharratze o di Tudela non sanno chi sia Mikel Laboa, non abbiamo ancora creato uno spazio di comunicazione collettivo. Uno spazio di relazioni e di solidarietà. Una nazione è uno spazio di comunicazione e, come corrisponde a qualsiasi comunità, di decisione. La capacità di decisione arriverà se siamo in grado di formare un «insieme».

Il filosofo spagnolo Fernand Savater sostiene che il Paese Basco è un'invenzione e che, quindi, è falso....

Direi il contrario. Il Paese Basco è stato pensato e, proprio per questo, è vero. Qualunque nazione che esista è una rappresentazione sociale. Anche la Spagna lo è, e questo non vuol dire che sia falsa. Il Paese Basco è frutto di un'invenzione quanto lo è la Spagna. Se per i baschi è reale il Paese Basco, anche la Spagna sarà più reale nel Paese Basco. Affermare che il Paese Basco è frutto dell'immaginazione per sostenere che la Spagna non è un'invenzione/è reale, questo sì mi sembra un ragionamento contorto. Anche la bussola fu un'invenzione, e forse per questo è falsa?


Qual è il ruolo della letteratura, della fiction o della filosofia, nella costruzione del Paese Basco?

L'immaginazione è importante, la fantasia è necessaria anche per rendersi conto di ciò che è vero. Si prende la forma di/assomiglia a ciò che si immagina e si plasma. Se non immagini niente, assomiglierai a quel niente. La realtà è molto più estesa e complessa di quanto possa spiegare qualunque forma di realismo ed è l'immaginazione a darle un significato.Dobbiamo imparare a vedere le cose. A vedere anche le possibilità ancora non realizzate. Attualmente, parliamo sempre di più in questa nave spaziale di McWorld, ci sono in giro sempre più immagini e suoni, ma le parole e le idee si annebbiano e si sporcano facilmente. La letteratura e la filosofia sono come una lavatrice, si possono usare per ripulire un po' le parole e le idee, come si puliscono gli occhi, o i vetri delle finestre.

(traduzione di Roberto Gozzi)

Da:
https://www.infoaut.org/index.php/blog/culture/item/4049-la-vitale-grammatica-della-resistenza

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