[Lecce-sf] Ilva di Taranto: la voglia di giustizia nella mor…

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Ilva
di Taranto: la voglia di giustizia nella morsa tra lavoro e saluteLo
scorso 17 febbraio, a Taranto, si è tenuta la prima udienza
sull'incedente probatorio, disposto dal Gip Patrizia Todisco,
nell'ambito dell'inchiesta sull'inquinamento provocato dai fumi dello
stabilimento Ilva Spa. Venti giorni prima i giornali avevano
pubblicato una cinquantina di pagine riportanti le conclusioni della
perizia chimico-scientifica chiesta dal Gip. I periti non hanno
lasciato dubbi, la correlazione tra le emissioni e la contaminazione
di allevamenti, colture e ambiente è stata, per la prima volta,
messa nero su bianco. La risposta dei tarantini non si è fatta
attendere: hanno invaso le strade sotto il tribunale chiedendo
giustizia per la loro città, per la loro economia e per il loro
futuro. L'Ilva è stata costruita a Taranto cinquanta anni fa e in
mezzo secolo le polveri, i fumi e tutti i vari inquinanti sono
silenziosamente diventati parte della vita quotidiana dentro e fuori
l'acciaieria, ma soprattutto, sono diventati pericolosamente parte
della terra, degli animali e delle persone. Negli slogan e
nell'opinione pubblica sta montando anche l'analogia con il recente
caso Eternit di Casale Monferrato (TO), ma va fatto notare che le
prime sentenze sul siderurgico jonico risalgono già agli anni
ottanta. Tuttavia,
nelle precedenti attività della Magistratura,
i giudizi finali erano stati sempre espressi sulla base del solo
reato di «gettito
pericoloso di cose»
(art. 674 Codice Penale),
riferito soprattutto alle emissioni di polveri nocive. Il nesso
causale tra le emissioni e l'inquinamento, infatti, lo si ritrova
solo in un rapporto dell'ASL di Taranto dell'aprile 1995 e sopratutto
nelle conclusioni del Registro Tumori Jonico Salentino del 1999.
Purtroppo, si è visto come l'istituto del registro non abbia avuto
poi la necessaria continuità per poter delineare e tracciare una
situazione più chiara, puntuale e articolata in merito alla
correlazione e diventare strumento per la programmazione sanitaria e
per la prevenzione in un'area a rischio.
Il
2012, quindi, rappresenta oggi un vero e proprio giro di boa nelle
vicende tarantine, vediamo perché. Il 27 febbraio 2008,
l'associazione Peacelink ha portato in tribunale un esposto con i
risultati delle analisi di laboratorio effettuate sui formaggi
provenienti dall'area limitrofa all'acciaieria. Tali prodotti sono
risultati contaminati dalla diossina e in seguito alle analisi
dell'Istituto Zooprofilattico di Teramo si è proceduto, negli anni
seguenti, all'abbattimento di migliaia di capi contaminati. Da quel
giorno è iniziato un percorso giudiziario che solo ora mostra i suoi
primi frutti nella recente perizia. Ritornano ad essere indagati
Emilio Riva, presidente dell'Ilva Spa sino al 19 maggio 2010, e Luigi
Capogrosso, direttore dello stabilimento Ilva di Taranto. A loro si
aggiungono Nicola Riva presidente dell'Ilva dal 20 maggio 2010, Ivan
Di Maggio, dirigente capo area del reparto cokerie, e Angelo Cavallo,
capo area del reparto Agglomerato. Le accuse sono: disastro colposo e
doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di
cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di
beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose,
inquinamento atmosferico. La perizia chimico-scientifica, durata un
anno, è stata redatta da quattro esperti appositamente nominati; per
appurare la connessione tra le emissioni e la salute umana bisognerà
attendere un'ulteriore perizia medico-epidemiologica ed il successivo
iter giudiziario.

Cosa
dicono oggi i periti?

Viene
calcolato che l'impatto attualmente prodotto dalle polveri emesse in
atmosfera dallo stabilimento ammonti a 668 tonnellate totali annue.
La perizia si basa su sei quesiti fondamentali che enucleano tutte le
sfaccettature della correlazione tra inquinanti ed effetti sanitari e
ambientali. I quesiti che principalmente accertano questo nesso
causale, sono soprattutto i primi tre.

Al
primo «se
dallo stabilimento Ilva Spa si diffondano gas, vapori, sostanze
aeriformi e sostanze solide, contenenti sostanze pericolose per la
salute dei lavoratori operanti all'interno degli impianti e per la
popolazione del vicino centro abitato di Taranto e, con particolare,
ma non esclusivo, riguardo a benzo(a)pirene, IPA di vari natura e
composizione nonché diossine, PCB, polveri di minerali e altro»
viene data risposta affermativa. A tal proposito viene fatto notare
come alle emissioni convogliate dallo stesso stabilimento si debbano
aggiungere anche quelle non convogliate (diffuse-fuggitive) e come
alcuni dei dati delle emissioni nocive in aria relative al 2010 siano
proprio quelle che la stessa Ilva ha comunicato alle autorità
competenti per il Registro Europeo delle Emissioni e dei
Trasferimenti di sostanze inquinanti. Il secondo quesito si riferisce
agli animali abbattuti nel 2008 ed ai terreni limitrofi e chiede «se
i livelli di diossina e PCB rinvenuti negli animali abbattuti, […],
e se i livelli di diossina e PCB accertati nei terreni circostanti
l'area industriale di Taranto, siano riconducibili alle emissioni di
fumi e polveri dello stabilimento Ilva di Taranto».
Anche in questo caso la risposta data dai periti è affermativa. In
particolare viene sottolineato come l'analisi dei flussi emissivi
permette di affermare che i livelli di diossine e furani accertati
possano essere ricondotti in particolare alla specifica attività di
sinterizzazione (area agglomerazione) svolta all'interno dell'Ilva.
Pertanto la presenza di tali inquinanti viene ricondotta proprio alla
presenza del siderurgico e viene affermato come ci sia «una
correlazione preferenziale dei contaminanti nei tessuti e negli
organi degli animali esaminati con i profili di diossine e furani
riscontrati nelle emissioni diffuse dell'Ilva».
Il terzo quesito punta il dito direttamente sullo stabilimento
chiedendo «se
all'interno dello stabilimento Ilva di Taranto si siano osservate
tutte le misure idonee ad evitare la dispersione incontrollata di
fumi e polveri nocive alla salute dei lavoratori e di terzi»,
la risposta, in questo caso, è negativa. Le emissioni non
convogliate, infatti, sono numerose e varie e si ritiene necessaria
da subito l'adozione di ulteriori misure di contenimento.

Gli
altri quesiti cercano rispettivamente risposta circa la conformità
delle emissioni alle varie normative vigenti, circa la possibilità
del verificarsi di situazioni di danno o pericolo e circa la natura
delle misure tecniche necessarie per eliminare l'eventuale situazione
di pericolo. A proposito del rispetto delle normative vigenti in
materia di emissioni, i periti appurano che la mancanza dei sistemi
di campionamento in continuo delle emissioni sui vari camini dello
stabilimento ne impediscono una verifica puntuale. L'unica norma che
appare rispettata è la recente Legge regionale n. 44 del dicembre
2008 sulle diossine ma anche qui restano i dubbi sollevati
ultimamente sui metodi di campionamento adottati. Viene comunque
evidenziato che «nella
maggior parte delle aree e delle fasi di processo sono emesse
quantità di inquinanti notevolmente superiori a quelle che sarebbero
emesse in caso di adozione da parte di Ilva»
delle cosiddette BAT
(tradotto: le migliori tecniche di produzione disponibili).
A tal proposito, anche in relazione al quesito sulle misure tecniche
necessarie, i periti sollecitano la necessità dell'adeguamento di
molti degli impianti per migliorarne la situazione emissiva. Viene
anche ritenuto necessario vincolare l'operatività degli impianti ai
tempi necessari per l'attuazione degli interventi migliorativi. Viene
posta nuovamente l'attenzione anche sui famigerati cumuli dei parchi
minerari, adiacenti al centro abitato, di cui si suggerisce, ancora
una volta, la loro copertura e la successiva applicazione di sistemi
di aspirazione.
Il
quadro tracciato dalla perizia era ormai noto da anni alla
popolazione locale, all'associazionismo e anche alle istituzioni.
Tuttavia, la situazione non era mai stata affrontata con
l'oggettività propria del percorso giudiziario in esame. Il
ricatto occupazionale continua a tenere in scacco, oltre che i circa
12.000 lavoratori ad oggi impiegati, sia le istituzioni che i
sindacati i quali fondamentalmente hanno sempre cercato di mediare,
in un equilibrio precario, il diritto al lavoro con il diritto alla
salute e all'ambiente. L'uscita dall'ormai annosa impasse
decisionale
è possibile trovarla solo in una nuova programmazione pubblica che
punti su un nuovo sviluppo della città. C'è la necessità di una
visione di lungo periodo che superi il ricatto occupazionale ponendo
da domani le basi lavorative nella bonifica di un terreno e di una
città che una volta sanati potranno ripensarsi e sfruttare tutte
quelle possibilità economiche che, per via dell'industria non si
sono mai potute sviluppare (es. turismo) o sono state gravemente
compromesse (allevamento, agricoltura, mitilicoltura). L'Ilva, ad
oggi, si può stimare che produca il 70% del PIL della provincia ma è
un dato tutto in negativo se lo si proporziona alla perdita
economica, sociale e umana indotta dai costi esterni della sua
esternalità che ricadono sulla collettività. Il 24 novembre del
2011, l'Agenzia Europea per l'Ambiente ha pubblicato un rapporto sui
costi dell'inquinamento atmosferico proveniente dagli stabilimenti
industriali in Europa. Si stima che l'Ilva, al cinquantaduesimo posto
nella classifica delle maggiori fonti d'emissione europee, scarichi
sui cittadini europei un costo per ambiente e per la salute
valutabile tra i 283 e i 463 milioni di euro.
É
azzardato fare previsioni immediate sull'iter giuridico in corso, ma
è tuttavia possibile affermare che, per Taranto e la sua
popolazione, l'unica strada per uscire da un ricatto occupazionale
che ha avvelenato per cinquanta anni un intero sistema sociale ed
economico è quella di progettare fin da subito una “stagione delle
bonifiche” che segua, chiudendola, l'attuale stagione dei veleni. È
cruciale aprirla, per le nuove generazioni tarantine, all'insegna di
un ripensamento sostenibile dello sviluppo locale e del territorio.di Gabriele Caforio