Autor: Edoardo Magnone Data: Para: Mailing list del Forum sociale di Genova Asunto: [NuovoLab] Guerra alla Libia con settecento super bombe italiane
Guerra alla Libia con settecento super bombe italiane
di Antonio Mazzeo
“Le operazioni condotte nel 2011 sui cieli libici hanno rappresentato
per l’Aeronautica Militare italiana l’impegno più imponente dopo il 2°
Conflitto Mondiale”. È orgogliosissimo il Capo di Stato maggiore delle
forze aeree, generale Giuseppe Bernardis. L’Italia repubblicana ha
conosciuto i teatri di guerra dell’Iraq, della Somalia, del Libano,
dei Balcani, dell’Afghanistan e del Pakistan, ma mai avevamo sganciato
tante bombe e tanti missili aria-terra come abbiamo fatto in Libia per
spodestare e consegnare alla morte l’ex alleato e socio d’affari
Muammar Gheddafi. Una guerra record di cui però è meglio non andare
fieri: secondo i primi dati ufficiali - ancora parziali - i nostri
cacciabombardieri hanno martoriato gli obiettivi libici con 710 tra
bombe e missili teleguidati. Cinquecentoventi bombe e trenta missili
da crociera a lunga gittata li hanno lanciati i “Tornado” e gli AMX
dell’Aeronautica; centosessanta testate gli AV8 “Harrier” della Marina
militare. Conti alla mano si tratta di quasi l’80% delle armi di
“precisione” a guida laser e GPS in dotazione alle forze armate. Un
arsenale semi-azzerato in poco più di centottanta giorni di conflitto;
il governo ha infatti autorizzato i bombardamenti solo il 25 aprile
2011 (56° anniversario della Liberazione) e la prima missione di
strike in Libia è stata realizzata tre giorni dopo da due caccia
“Tornado” decollati dall’aeroporto di Trapani Birgi.
“Le munizioni utilizzate dalle forze aeree italiane sono state le
bombe GBU-12, GBU-16, GBU-24/EGBU-24, GBU-32, GBU-38, GBU-48 e i
missili AGM-88 HARM e Storm Shadow, con una percentuale di successo
superiore al 96%”, elenca diligentemente lo Stato Maggiore dell’AMI.
Inutile chiedere cosa o chi sia stato colpito nel restante 4% degli
attacchi dove sono state sganciate più di trenta bombe di
“precisione”. Dettagliata è invece la descrizione del documento
“Unified Protector: le capacità di attacco dell’AM” (6 giugno 2011)
sulle caratteristiche tecniche di questi strumenti di distruzione e di
morte. “I sistemi d’arma a guida laser sono stati sviluppati negli
anni ‘80 con i primi test eseguiti dalla Lockheed Martin e sono stati
utilizzati nei più recenti conflitti, dalla guerra del Golfo alle
operazioni sui Balcani, Iraq e Afghanistan”, scrivono i comandanti
delle forze aeree. “La GBU-16 è un armamento a guida laser Paveway II,
basato essenzialmente su bombe della serie MK83 da 495 Kg. Della
stessa famiglia di ordigni fa parte la GBU-12 (corpo bomba MK82, 500
libbre). La GBU-24 è invece un armamento basato essenzialmente sia sul
corpo di bombe della serie MK da 907 Kg. che delle bombe penetranti
BLU-109 modificate con un kit per la guida laser Paveway III.
Sviluppato per rispondere alle sofisticate difese aeree nemiche,
scarsa visibilità e limitazioni a bassa quota, l’armamento consente lo
sgancio a bassa quota e con una capacità di raggio in stand off (oltre
10 miglia) tale da ridurre le esposizioni”. Ancora più sofisticate le
bombe GBU-24/EGBU-24, guidate con doppia modalità GPS e laser ed usate
“per distruggere i più resistenti bunker sotterranei” e le GBU-32 JDAM
(Joint Direct Attack Munition) da 1.000 e 2.000 libbre, che possono
essere lanciate in qualsiasi condizioni meteo, sino a 15 miglia dagli
obiettivi, “per ingaggiare più target con un singolo passaggio”.
“Lo Storm Shadow è un missile aviolanciabile con telecamera a raggi
infrarossi a guida Gps che può colpire obiettivi di superficie in
profondità, a prescindere dalla difesa aerea, grazie alle sue
caratteristiche stealth”, recita il report dell’Aeronautica.
Sviluppato a partire dal 1997 dalla ditta inglese MBDA, il vettore è
lungo cinque metri, pesa 1.300 Kg, ha un raggio d’azione superiore ai
250 km e può trasportare una testata di 450 kg. “È utilizzabile contro
obiettivi ben difesi come porti, bunker, siti missilistici, centri di
comando e controllo, aeroporti e ponti. La carica esplosiva è infatti
ottimizzata per neutralizzare strutture fisse corazzate e
sotterranee”. Le coordinate del target e la rotta di volo dello Storm
Shadow vengono pianificate a terra e successivamente inserite
all’interno del missile durante la fase di caricamento sul velivolo.
“Una volta lanciato, raggiunge l’obiettivo assegnato navigando in ogni
condizione di tempo, di giorno o di notte in maniera assolutamente
autonoma utilizzando gli apparati di bordo e confrontando
costantemente la sua posizione con il terreno circostante”. L’altro
missile aria-superficie impiegato dai caccia italiani è l’AGM-88 HARM
(High-speed Anti Radiation Missile) della Raytheon Company, ad alta
velocità e un raggio d’azione di 150 km, in grado di individuare e
“sopprimere” i radar nemici.
Secondo il generale Bernardis, nei sette mesi di operazioni in Libia,
“i velivoli dell’Aeronautica Militare italiana hanno eseguito 1.900
missioni con oltre 7.300 ore di volo, pari al 7% delle missioni
complessivamente condotte dalla coalizione internazionale a guida
NATO”. Attacchi e bombardamenti sono stati appannaggio dei
cacciabombardieri “Tornado” versione IDS (Interdiction and Strike) del
6° Stormo di Ghedi (Brescia) e dei monoreattori italo-brasiliani AMX
del 32° Stormo di Amendola (Foggia) e del 51° Stormo di Istrana
(Treviso). Per la “soppressione delle difese aeree” e il controllo
della no-fly zone sono stati impiegati i “Tornado” ECR (Electronic
Combat Reconnaissance) del 50° Stormo di Piacenza, i cacciabombardieri
F-16 del 37° Stormo di Trapani-Birgi e gli “Eurofighter 2000” del 4°
Stormo di Grosseto e del 36° di Gioia del Colle (Bari). “L’AMI ha pure
impiegato i velivoli da trasporto C-130 “Hercules”, i tanker KC-130J e
Boeing KC-767 per il rifornimento in volo e, nelle ultime fasi del
conflitto, gli aerei a pilotaggio remoto Predator B per missioni di
riconoscimento”. Sui cieli libici hanno pure fatto irruzione un
velivolo G.222VS “per la rilevazione e il contrasto delle emissioni
elettromagnetiche” e un C-130 per quella che è stata definita dal
comandante di squadra aerea, Tiziano Tosi, come una “PsyOP -
Psycological Operation”, finalizzata a “influenzare a proprio
vantaggio la coscienza e la volontà della popolazione interessata”. Su
Tripoli e altre città libiche sono stati lanciati centinaia di
migliaia di volantini, il cui testo è stato concordato con il Comitato
nazionale provvisorio di Bengasi. “La Libia è una e la sua capitale è
Tripoli”, il titolo. “Vi chiediamo di unirvi tutti e prendere la
decisione giusta e saggia. Unitevi alla nostra rivoluzione. Costruiamo
a Libia lontano da Gheddafi. Libia unificata, libera, democratica”.
Quasi tutti i velivoli da guerra italiani sono stati schierati sulla
base aerea di Trapani nell’ambito del Task Group Air Birgi, da cui
dipendevano anche gli aerei senza pilota Predator B, operanti però
dallo scalo pugliese di Amendola. Pisa e Pratica di Mare, gli
aeroporti per le operazioni dei velivoli da trasporto o rifornimento.
“Le operazioni d’intelligence, sorveglianza e ricognizione sono state
effettuate grazie alla disponibilità di speciali apparecchiature
elettroniche Pod Reccelite in dotazione ai “Tornado” e agli AMX”,
scrive ancora lo Stato Maggiore. “Sugli oltre 1.600 target di
ricognizione assegnati ai velivoli italiani, sono state realizzate più
di 340.000 foto ad alta risoluzione, mentre circa 250 ore di filmati
sono stati trasmessi in tempo reale dai Predator B”. Le missioni di
attacco al suolo sono state pianificate e condotte “contro obiettivi
militari predeterminati e definiti, o contro target dinamici
nell’ambito di aree di probabile concentrazione di obiettivi nemici”.
Probabile, dunque e non certa la concentrazione degli obiettivi
militari. E gli effetti collaterali si confermano elemento integrante
delle strategie di guerra del Terzo millennio…
I condottieri dell’Aeronautica Militare forniscono infine la
percentuale delle ore di volo relative alle differenti tipologie di
missione: il 38% ha riguardato pattugliamenti e “difese aeree” (DCA);
il 23% attività di “sorveglianza e ricognizione” (ISR); il 14%
l’attacco al suolo contro “obiettivi predeterminati” (OCA); l’8% la
“neutralizzazione delle difese aeree nemiche” (SEAD); un altro 8% il
rifornimento in volo (AAR); il 5% la “ricognizione armata e l’attacco
a obiettivi di opportunità” (SCAR); il restante 4% “la rilevazione e
il contrasto delle emissioni elettromagnetiche” (ECM). Come dire che
ogni quattro velivoli decollati, uno serviva per colpire, ferire,
uccidere.
Anche la Marina militare ha fornito dati numerici sull’intervento dei
propri mezzi in Libia. Otto aerei a decollo verticale AV8 B Plus
“Harrier”, stazionati sulla portaerei “Garibaldi”, hanno effettuato
missioni di interdizione ed attacco per complessive 1.223 ore,
utilizzando i missili aria-aria a guida infrarossa AIM-9L
“Sidewinder”, quelli a medio raggio a guida laser “AMRAAM”, gli
aria-terra “Maverick” e le bombe del tipo Mk82 ed Mk20. Una trentina
gli elicotteri EH-101, SH-3D ed AB-212 assegnati ad Unified Protector,
per complessive 3.311 ore di volo. Tremila e cinquecento gli uomini e
le donne imbarcati su due sottomarini (“Todaro” e “Gazzana”) e
quattordici unità navali (tre delle quali, “Etna”, “Garibaldi” e “San
Giusto”, utilizzate in periodi diversi come sedi del Comando per le
operazioni marittime NATO).
Come sen non bastasse, i vertici delle forze armate fanno sapere che
l’80% circa delle missioni aeree alleate sono partite da sette basi
italiane (Amendola, Aviano, Decimomannu, Gioia del Colle, Pantelleria,
Sigonella e Trapani Birgi). “In questi aeroporti, l’Aeronautica
Militare ha assicurato il supporto tecnico e logistico, sia per gli
aerei italiani sia per i circa 200 aerei di undici paesi della
Coalizione internazionale (Canada, Danimarca, Emirati Arabi Uniti,
Francia, Giordania, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti,
Svezia e Turchia), schierati sul territorio nazionale. In sostanza, il
personale e i mezzi della forza armata sono stati impegnati in maniera
continuativa per fornire l’assistenza a terra, il rifornimento di
carburante, il controllo del traffico aereo, l’alloggiamento del
personale, ecc.”.
Piattaforma avanzata per il 14% di tutte le sortite aeree di Unified
Protector lo scalo siciliano di Trapani, da cui sono transitati pure
300 aerei cargo e circa 2.000 tonnellate di materiale. Dalla Forward
Operating Base (FOB) di Birgi, uno dei quattro centri di cui dispone
la NATO nello scacchiere europeo, hanno operato anche gli aerei radar
AWACS, “assetti essenziali alle moderne operazioni aeree per garantire
una efficace capacità di comando e controllo”. Lo Stato Maggiore AMI
ricorda infine “l’importante supporto di personale specializzato nel
campo della pianificazione operativa offerto ai vari livelli della
catena di comando e controllo NATO, attivata in tutta Italia”,
all’interno del Joint Force Command di Napoli e del Combined Air
Operation Center 5 di Poggio Renatico (Ferrara).
No comment invece sul costo finanziario sostenuto per le tremila
missioni e le oltre 11.800 ore di volo dei velivoli italiani impiegati
nella guerra alla Libia. Possibile però azzardare una stima di massima
tenendo conto delle spese per ogni ora di missione dei
cacciabombardieri (secondo Il Sole 24Ore, 66.500 euro per
l’“Eurofigher 2000”, 32.000 per il “Tornado”, 19.000 per l’F-16,
11.500 per il C-130 “Hercules” e 10.000 per l’“Harrier”). Prendendo
come media un valore di 20.000 euro e moltiplicato per il numero
complessivo di ore volate, si raggiunge la spesa di 236.220.000 euro.
Vanno poi aggiunti i costi delle armi di “precisione” impiegate (dai
30 ai 50.000 euro per le bombe a guida laser e Gps, dai 150.000 ai
300.000 per i missili “intelligenti”). Limitandosi ad un valore medio
unitario di 40.000 euro, per le 710 munizioni sganciate sul territorio
libico il contribuente italiano avrebbe speso non meno di 28.400.000
euro. Così, solo per “accecare” radar, intercettare convogli e
bombardare a destra e manca abbiamo sperperato non meno di 260
milioni. Fortuna che c’era la crisi.