Ho già espresso sincera adesione alla anti-celebrazione della
vittoria ("Disarmare la ragione armata", in La nonviolenza è in cammino,
23 ottobre), ma devo discutere, per amore non di contrasto, ma di
ricerca e di chiarimenti, l'articolo odierno di Pasquale Pugliese.
Il movimento nonviolento non è pacifista: è nonviolento. Il
pacifismo è troppo poco. Anche il bellicista fa la guerra per imporre la
sua pace. Si può essere contrari alla guerra anche per comodo egoismo, e
utilizzare altre violenze. La guerra ripugna all'essere umano sano,
anche a chi vi si rassegna, la ritiene fatale, e persino vi
collaboracostretto controvoglia.
Ma la guerra è soltanto conseguenza e strumento delle violenze
strutturali e culturali. La nonviolenza lavora su questo due piani,
contro le radici della guerra. E' alternativa alla violenza, non alla
guerra, se non come buon effetto successivo.
Non mi pare che la guerra oggi sia cresciuta. I dati dicono che
quantitativamente le guerre sono diminuite. Sono terribilmente cresciuti
gli strumenti bellici ultradistruttivi, e il pericolo relativo. Ma mi
pare molto diminuito il senso di fatalità con cui le popolazioni, fino a
100 e anche 50 anni fa, pativano rassegnate le decisioni belliche dei
potenti, come un doloroso fenomeno naturale. Il mito della violenza
rivoluzionaria decisiva e rigeneratrice è molto svanito: le nuove
rivoluzioni fanno conto più sui mezzi nonviolenti popolari che su quelli
violenti.
Avvengono atti violenti, ma le varie civiltà umane confidano nella
violenza diretta meno che nel passato. In Italia gli omicidi privati
sono in continuo calo. Forse non è vero che l'uomo sia "più antiquato"
di ieri, e che "nessun salto di civiltà" sia avvenuto. Forse non salti,
ma faticosi cammini.
La cultura dei Diritti Umani entra nelle mentalità correnti, certo
con gravi limiti: è "detta", proclamata (che non è poco!), ma assai meno
rispettata e applicata; è intesa più come individualismo che come
giustizia e solidarietà. Ma è il carattere più positivamente umano del
nostro tempo.
Rimane la violenza delle diseguaglianze feroci, dell'industria
militare che "deve" suscitare guerre, della finanza criminale che
conduce la fredda guerra di sfruttamento e di fame; rimane l'idea (anche
nella sinistra-centro) che la politica è indissolubile dalla guerra
(idea denunciata in "Stato e guerra" di Krippendorff; vedi
interpretazione deformante dell'art. 11 Costituzione); rimane la
disorganizzazione dei movimenti e della cultura nonviolenta.
Proprio qui è il punto: noi non dobbiamo tanto maledire la guerra
maledetta, ma agire nello smascherare e mostrare a tutti la violenza
incarnata:
1) nelle economie disumane e nelle discriminazionigiuridiche;
2) nelle culture violente: quelle antropologie, filosofie della storia,
nichilismi, che danno valore di normalità a ciò che viola la prima norma
della vita (Albert Schweitzer): vivere insieme, e non contro.
Grazie a chi ci aiuta, anche discutendo, su questo cammino. Enrico
Peyretti
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