[NuovoLab] 15 ottobre Contro lo spontaneismo

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Autore: Antonio Bruno
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Oggetto: [NuovoLab] 15 ottobre Contro lo spontaneismo

COMMENTO di Christian Raimo
Contro lo spontaneismo
Se questo movimento vuole diventare adulto deve formarsi una coscienza su cosa vuol dire stare in piazza. Altrimenti è destinato alla sconfitta


È difficile provare gli stessi sentimenti di qualcun altro. Lo
sappiamo bene in una qualsiasi relazione a due, figuriamoci quando si è in trecentomila. Indire una manifestazione che avesse come collante un sentimento comune come l'indignazione porta in piazza per lo spazio di un pomeriggio persone che in realtà pensano (e provano) cose molto differenti: grillini e Acrobax, radicali e Teatro Valle, umanisti e Fiom. L'ultima volta che si era vista una manifestazione così grande, convocata a livello internazionale, era stato per la guerra in Iraq.
Lì il sentimento era più chiaro e assomigliava a una ragione. L'altro giorno invece i motivi per cui la gente era in piazza erano molto diversi, anche divergenti: chi era contro la gestione di questa crisi da parte della finanza, chi era contro questo governo, chi era contro la casta, chi proponeva un'alternativa di governo di sinistra, chi reclamava il diritto all'insolvenza e al reddito garantito, chi urlava come in Argentina «que se vayan todos», chi voleva fare casino, chi voleva presentarsi come un nuovo soggetto politico credibile, chi voleva far parte di una grande manifestazione semplicemente civile, chi voleva lo scontro con la polizia a ogni costo. Le risse tra manifestanti pacifici e ragazzini incappucciati o lo sputo a Pannella indicano questo fritto misto con banalità.
Se il sentimento del 15 doveva essere una enorme comune indignazione, i sentimenti del giorno dopo non sono per niente comuni. C'è losconcerto, la delusione, la rabbia, ma anche la soddisfazione, la rivendicazione per com'è andata. E c'è l'incredulità, la sensazione di essere stati presi in giro, quella di non aver capito che cosa doveva essere il corteo, o il gusto di essere riusciti a trasformare un comizietto in una battaglia. Anche qui: lo sappiamo in una relazione a due quanto è difficile non capirsi sui sentimenti, figuriamoci in trecentomila. L'impressione che molti hanno avuto è che si sia verificata una doppia strumentalizzazione. Chi voleva alzare il livello dello scontro si è fatto scudo di un corteo che per la sua stragrande maggioranza non aveva nessuna intenzione di sfilare con chi spaccava vetrine. Chi voleva una manifestazione superpacifica non aveva realizzato fino a oggi che esprimere indignazione non può semplicemente equivalere a scrivere un «non mi piace» su facebook, ma richiede una quota di responsabilità, l'obbligo di schierarsi, di prendere posizione - letteralmente - in una piazza che definisce addirittura in senso geografico la tua identità politica (qualcuno si è accorto che stare all'inizio o alla fine del corteo non era la stessa cosa).
La scusa per questo - chiamiamolo in maniera eufemistica - fraintendimento, ma che è appunto stata una reciproca strumentalizzazione, si è chiamato finora spontaneismo. Si va in piazza, qualcosa succederà. Ci si indigna, si esprime rabbia, le conseguenze verranno da sé. In nome dello spontaneismo la manifestazione poteva finire con il comizio fiume a Piazza San Giovanni, oppure con l'occupazione di migliaia di persone della piazza, oppure con lo sfondamento della zona rossa, oppure - come molti evidentemente avevano progettato senza alcuna spontaneità - con la guerriglia che abbiamo visto. Le due parti che si sono reciprocamente strumentalizzate (gli indignati della domenica e i casseurs) oggi si trovano di fronte a una necessità: diventare adulte e cioè responsabili. Altrimenti la speculare delega che l'una ha fatto nei confronti dell'altra (delega alle pratiche l'una e delega al coinvolgimento civile l'altra) farà rimanere questo movimento quello che è: un bambino piccolo che frigna.
Che dice: «Che bello! Che bello!» quando può partecipare al potlatch di San Giovanni, oppure fa spallucce schifate di fronte alle immagini degli scontri, attribuendoli solo a pochi (etichettati in fretta come infiltrati, teppisti, e nerume vario).
Quelli che sono chiamati con ancora più urgenza a questa responsabilità sono coloro che conoscono entrambe le parti. Chi fa politica dal basso di questi ultimi anni, dalla Fiom ai No Tav al Teatro Valle Occupato agli studenti universitari, l'altro giorno non per caso si è a un certo punto trovato costretti, da via Labicana in poi, a fare un immediato passaggio all'età adulta, deviando un corteo con decine di migliaia di persone e inventando una nuova manifestazione che ha attraversato la città, da Circo Massimo a San Lorenzo, fino alle nove di sera, nell'indifferenza piuttosto colpevole dell'informazione. Chi erano questi manifestanti? Tutta gente spiazzata, ma che non voleva andarsi a fare massacrare a San Giovanni e allo stesso tempo non si arrendeva a ripiegare a casa spaventata e depressa, a guardare ancora una volta la politica da uno schermo televisivo.
A partire da qui si devono elaborare nel più breve tempo possibile le risposte alle questioni che questo movimento continua a porre senza proporre soluzioni credibili però: la questione del governo e quella della rappresentanza. Ossia i due grossi buchi che vent'anni di non-partecipazione e repressione (Berlusconi, Genova, e la crisi: riassumiamola così) hanno prodotto. E la risposta dev'essere rapida, che sia autogoverno, autorappresentanza, bene comune; prima di essere nuovamente scavalcati da un populismo qualunque: Maroni, Grillo, o al limite Er Pelliccia.
Ma anche - ed è forse il tema prioritario - occorre un grande riflessione sulle pratiche della protesta e del conflitto. Indipendentemente dagli usi e abusi della polizia. Le persone che scappavano l'altro giorno da San Giovanni non avevano il cacerolazo in mano, in molti casi erano madri e padri con i bambini piccoli al seguito o vecchi che si riparavano in un portone: avevano valutato che la piazza sarebbe stato un luogo non rischioso. La prossima volta (anche al netto dei balzelli deliranti di Maroni e dei coprifuoco pinochettiani di Alemanno) ci penseranno due volte prima di manifestare. (Parentesi: degli studenti di quindici, sedici anni che conosco, qualcuno titubante ha deciso che gli è bastato quello che ha visto in tv, qualcun altro - fascistello come si può essere a quindici anni - ha pensato di aver mancato un'occasione).
La questione allora non è il servizio d'ordine, ma la trasparenza. Il grande successo che questo movimento si rivendica giustamente è stato quello dei referendum: i referendum non sono stati soltanto un grande momento di democrazia partecipata, ma hanno messo in luce l'unica forza possibile per una politica dal basso oggi: la conoscenza condivisa. I referendum sull'acqua o sul nucleare non toccavano soltanto questioni di coscienza o di indignazione politica, ma chiamavano chi votava a formarsi una sua conoscenza su un tema così complicato oggi come quello delle politiche energetiche. Il 14 giugno è stata una data importante per tanti motivi, ma lo è stato anche per la vittoria dell'intelligenza e della conoscenza condivisa contro la sciatteria e la chiusura dell'informazione. Per questo la frase che si sente dire in questi giorni «ognuno sta in piazza come vuole» è il solo segno tangibile di un arretramento culturale e di una sconfitta politica. Perché non chiede responsabilità né condivisione di conoscenza. Oggi ognuno di noi - proprio perché il deserto di partecipazione si sta cominciando a ripopolare solo oggi - può e deve formarsi una coscienza anche su cosa vuol dire stare in piazza, e non delegare del tutto a qualcun altro la propria rabbia o la propria tutela. E proviamo anche a crescere nell'autonarrazione, richiediamoci complessità di analisi: su questi benedetti "fatti di Roma", evitiamo sintesi pret-à-porter e automatismi, alimentiamo d'ora in avanti un dibattito continuo e articolato. Che avvenga sui giornali, dal vivo, in rete. Solo questo vuol dire democrazia. Il resto è narcisismo politico.

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