[Forumlucca] Fwd: [Retesinistra] l'editoriale di Fausto Bert…

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Author: Alessio Ciacci
Date:  
To: forumlucca
Subject: [Forumlucca] Fwd: [Retesinistra] l'editoriale di Fausto Bertinotti del prossimo numero della rivista "Alternative per il socialismo"
Far saltare il recinto autoritario. La rivolta come
opportunità<http://rifondazioneperlasinistrarps.blogspot.com/2011/09/far-saltare-il-recinto-autoritario-la.html>
Pubblichiamo l'editoriale di Fausto Bertinotti del prossimo numero della
rivista "Alternative per il socialismo"

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Rossana Rossanda ha aperto una discussione che si rivela di giorno in giorno
di più stringente necessità a sinistra. Sono venute interlocuzioni assai
interessanti sia sul terreno delle cause che hanno aggravato la crisi
dell’Europa che dell’esplorazione di interventi programmatici per
affrontarla fuori dalla disastrosa moneta corrente. In qualche caso, secondo
me utilmente, si è sfidata la nuova ortodossia della parità di bilancio fino
a prospettare uscite radicali. Tuttavia a me pare che la discussione
dovrebbe prendere anche un’altra piega. Possiamo ancora affrontare il tema
come se vivessimo in un’epoca democratica, con in campo una politica dotata
di una qualche autonomia e una sinistra capace di influenzare le scelte di
fondo? Temo di no. In questo caso si potrebbe forse seguire questo filo di
ragionamento.


Ciò che la rivolta ha intuito dovrebbe costituire la base anche della
rinascita di una politica e di un agire politico autonomi dal sistema
economico-sociale e dal sistema di potere politico che in esso si è venuto
costituendo. La rivolta ha intuito che, per riaprire la partita, bisogna far
saltare il banco, cioè mettere in discussione radicalmente le decisioni
politiche che vengono assunte dal potere costituito e contestare i luoghi e
le forme con cui esse vengono assunte.

La crisi è un’occasione. Ma bisogna capire anche per chi. L’occasione è
sfruttata fino in fondo dalle classi dirigenti per fare *tabula
rasa*dell’Europa del compromesso sociale e democratico. Un panorama
sociale
tutt’affatto diverso ne sta prendendo il posto. E’ come se tutto ciò che si
era venuto accumulando negli anni della restaurazione modernizzatrice, e
accelerato negli ultimi mesi, fosse fatto precipitare in quest’agosto
devastante.

Il lungo inverno trentennale di un ininterrotto attacco alle conquiste
sociali e democratiche, di un conflitto di classe che si risolve
costantemente a favore delle classi proprietarie, compie un balzo in qualità
e quantità. Avevano esibito tutto il loro cinismo nella formula: “E’ il
mercato, bellezza!”. Era la fase nascente della globalizzazione
capitalistica e loro, le classi dirigenti, si permettevano di essere
arroganti. Ora, in tutto l’Occidente, esplode la crisi nel capitalismo.

Dovrebbero dirci, se avessero ancora il cinismo arrogante dei vincenti: “E’
il capitalismo, bellezza!”. Ma non possono; troppo grande è l’incertezza,
troppo devastanti sono gli effetti sociali provocati dalle loro politiche di
risposta alla crisi, troppo alto è il rischio incombente di aspri conflitti,
di sommosse, di rivolte.

La rivoluzione passiva che essi hanno egemonizzato è a un punto acuto,
insieme potentemente in atto ma altresì in panne, perché in verticale crisi
di consenso. Eppure riescono ancora a fare il peggio (per le classi
subalterne, per le popolazioni, per la natura) e a scalare un altro gradone
del loro dominio. Come abili prestigiatori essi fanno scomparire ogni causa
di ciò che accade. Scompare il capitalismo, *in primis*; l’economia, il
mercato, la finanza, e in essa la speculazione, si fanno condizione
naturale; le devastazioni sociali si presentano come conseguenze
ineluttabili (se piove ti bagni, se gela rabbrividisci dal freddo). Non
conta neppure che in Europa l’aggressione sociale sia così radicale da
allargare a dismisura le povertà, da precarizzare tutto.

Se negli anni trascorsi ogni messa in discussione di una conquista sociale
(scala mobile, pensioni, gratuità delle cure, uno qualsiasi dei diritti di
lavoro tra tutti quelli conquistati, per esempio l’art. 18 dello Statuto)
diventava oggetto di una contesa, seppure difensiva, ora, d’un solo colpo,
un’intera costruzione, seppur largamente imperfetta, di diritti, di libertà
e di giustizia sociale viene abbattuta senza che nella società politica, e
nella realtà che prende il nome di parti sociali, accade nulla di
comparabile alla posta in gioco.

Solo da fuori di questo recinto può scaturire, e di fatto esplode in tante
parti d’Europa, la contestazione. Dentro il recinto, niente più. Senza che
le classi dirigenti possano neppure avvalersi della copertura etica
consistente nel far valere la logica (per le classi subalterne sempre e
comunque terribile) del rigore, dell’austerità a tutto campo, cioè anche
rivolta su di sé (per esempio con l’introduzione di una patrimoniale e di
una Tobin Tax). Né d’altra parte esse si propongono di debellare i
giganteschi fenomeni di corruzione e di economia illegale e criminale covati
all’interno di questo sistema economico e sociale.

Nessun riformismo - né borghese, né di sinistra - è capace di diventare
soggetto politico consistente nella crisi del capitalismo finanziario
globalizzato. La politica c’è, ovviamente. Ma non c’è alcuna autonomia di
questa politica. Essa è, invece, sussunta dentro decisioni la cui cornice si
presenta, all’interno del recinto, come oggettiva, come obbligatoria, come
ineluttabile. Sono ammesse solo delle diverse *nuances* della stessa
impostazione, non una diversa impostazione. Anche i riformismi più cauti
sono banditi, sia nella discussione sul modello economico, sociale ed
ecologico, sia nella distribuzione della ricchezza.

La crisi ha una sola risposta ammissibile, sostanzialmente quella in atto.
Spunta persino un nuovo sacerdote dell’ortodossia: l’agenzia di *rating*.
Essa giudica le economie e gli Stati e pretende di non essere giudicata da
nessuna delle forme della democrazia rappresentativa (rappresentativa di
che?). L’agenzia di *rating* si propone come un meteorologo che fa,
neutralmente, le previsioni del tempo.

La messa fuori campo del pensiero critico, della critica dell’economia, si
rivela una catastrofe. Il dominio del capitale, mai da più di un secolo così
incondizionato, si oggettivizza; sbatte fuori, dalla politica realizzata e
dalla democrazia rappresentativa, ogni forma di alternativa e cancella la
democrazia.

Lo strisciante, e bianco, colpo di Stato consumato in agosto a livello
europeo è l’epilogo, ad ora, del lungo processo di demolizione del
compromesso sociale e della democrazia. Da qui si deve ripartire, da questo
disperante livello. Per ripartire serve, da un lato, respirare l’aria della
rivolta e, dall’altro, rimpadronirsi di un pensiero critico. Chiunque voglia
semplicemente continuare a pensare non può che tornare, per andare oltre, a
quella straordinaria risorsa che è il rasoio di Marx, quando si abbatte
sulla mistificazione che il capitalismo ha saputo attivare per nascondere la
sua natura e che, in questo nuovo e suo ultimo assetto, ha imposto alla
politica, fino a renderla a esso servile.


*L’annuncio di una rottura possibile*


La fase sembra caratterizzata da due movimenti radicali, che vanno però in
direzioni opposte. L’uno nasce e si radica nella società civile ed è
portatore di domande che nascono prevalentemente dalla denuncia di una
determinata condizione sociale, dall’opposizione a delle scelte di governo
sia a livello dello Stato che dei privati e dalla denuncia di lesioni, di
diversa natura, ai diritti della persona e di intere comunità, sia di lavoro
che territoriali, piuttosto che di soggettività.

Esso costituisce un arcipelago di movimenti dal carattere fortemente
orizzontale, senza partito e senza *leaders* che li possano rappresentare
stabilmente; ognuno dei quali in grado di dare luogo a fenomeni di
partecipazione larga e intensa attorno a una domanda di cambiamenti radicale
scaturita, a sua volta, dalla contestazione di una condizione o di una
minaccia considerata intollerabile (la precarietà del lavoro e della vita,
la privatizzazione di un bene affermato come comune, la distruzione della
scuola pubblica, la dignità della persona che lavora, la dignità della
donna).

La rivolta che ha visto protagonisti i giovani nei Paesi del Nord Africa ha
conferito anche ai movimenti dell’Europa una latitudine più grande, ne ha
messo in rilievo una matrice comune fino ad allora più incerta e
diversificata. L’aria della rivolta soffia per mille strade, più o meno
grandi, più o meno lunghe (durevoli) e porta con sé, sulle spalle di
un’indignazione forte e diffusa, il rifiuto, il rigetto dello *status quo*,
la denuncia della diseguaglianza e della natura arbitraria del potere,
compreso quello della politica che come parte del potere viene considerata.
E’ l’annuncio di una rottura possibile.

Sono movimenti che crescono in Paesi, quelli del Mediterraneo, certo assai
diversi tra loro (che l’Italia non sia l’Egitto, anche dal punto di vista
democratico, è tanto vero quanto banale) ma accomunati da due o tre grandi
tratti comuni di quelli che possono segnare un ciclo politico: il furto di
futuro che il sistema compie sistematicamente sulle nuove generazioni; la
crescita violenta e offensiva delle diseguaglianze; la mancanza di
democrazia e di dialogo sociale nella quale vengono prese le decisioni
politiche che riguardano la società intera.

Il vento della rivolta è il fatto nuovo di questa fase, l’unica *chance* che
oggi si manifesta per il cambiamento, cambiamento peraltro sempre più
acutamente e drammaticamente urgente. La reazione del sistema si è venuta
intrecciando in Europa con quella che il sistema politico-istituzionale si è
trovato a dover dare alla crisi che, dopo essere andata dagli Stati Uniti al
mondo intero, e all’Occidente in particolare, è risalita dalla crisi di una
Grecia a rischio di *default* a quella degli stessi Usa.

Questa crisi non è promossa dal “disordine” monetario e dalla politica delle
banche come nel 2008 (sebbene quali rivelatori delle contraddizioni
strutturali del capitalismo finanziario globalizzato), bensì dalle
situazioni “disordinate” dell’economia reale. La minaccia è una nuova
recessione che, peraltro, un economista come Stiglitz mette direttamente in
capo anche alle politiche di austerità e di tagli alla spesa pubblica
perseguiti ora dagli Stati. Il cane si morde la coda (ma forse bisognerebbe
essere avvertiti del fatto che questa potrebbe essere il suo vero
obiettivo).

Gli Stati hanno reagito alla prima crisi con giganteschi aiuti al sistema
finanziario e alle banche, che così sono stati salvati, mentre si è
realizzata, parallelamente, un’enorme redistribuzione dei redditi a favore
delle rendite e del profitto, con la costituzione di un’incontinente
concentrazione della ricchezza. Niente di tutto ciò si è fatto per il lavoro
e l’occupazione; e ora a un’economia reale in crisi corrispondono le casse
degli Stati svuotate dalle manovre di salvataggio.

La replica è una politica economica spietatamente classista: il cuore dei
provvedimenti dettati dall’Unione europea e monetaria e dalla Bce è quello
di un modello di società unico con il lavoro ridotto a merce, lo Stato
ridotto alla sua minima dimensione, lo Stato sociale cancellato e la società
civile condannata a diventare uno spazio interamente invaso dal profitto.

Dopo il pesante cedimento di Obama, non compensato dal tentativo di recupero
con il piano contro la disoccupazione, il golpe europeo d’agosto vorrebbe
inaugurare una nuova èra politica, quella dell’assenza di democrazia
nell’“arte del governo”. Quel che è accaduto negli ultimi mesi è eccezionale
nell’impermeabilizzazione dei luoghi della decisione dalla società civile e
nella tendenza a cooptare l’intera società politica, maggioranza e
opposizione, nella filosofia che quei luoghi si stanno dando, fuori da
qualsivoglia tradizione democratica, costruendo così una sorta di cordone
sanitario tra le nuove istituzioni e la società reale.

Se i contenuti di questa politica di risposta alla crisi portano un segno di
classe così marcato da configurare la cancellazione di un’intera storia di
emancipazione, la forma con cui si decide è quella che mette in mora la
democrazia, ed espelle dalla politica riconosciuta come legittima, quella
dell’alternativa di società, quella fondata sul conflitto e sulla critica
all’ordine delle cose esistenti. E’ il recinto il fondamento della nuova
politica. Dentro o fuori. Se stai dentro è l’omologazione, se stai fuori è
la protesta.

Questo esito, oggi così prepotentemente annunciato, non è però affatto
obbligato. Ma, perché non lo sia, il compito diventa quello di rompere il
recinto, di spezzare il cerchio della separazione-cooptazione, perché, se
questa durasse, la politica, così come l’abbiamo conosciuta in Europa dopo
la vittoria contro il nazi-fascismo, uscirebbe definitivamente di scena e
con essa ogni forma di autonomia della politica dal potere e dal sistema.

Lo stato di necessità oggi rivendicato in nome dell’eccezione (la crisi)
diventerebbe la regola di un modello economico e sociale regressivo, quello
dell’Occidente del XXI secolo. Quella che ci sembrava un’invettiva, il
governo come commissione d’affari della borghesia, diventerebbe
un’inquietante realtà. E la politica (della sinistra) potrebbe rinascere
solo come l’araba fenice, cioè solo dalle sue ceneri. Dunque, ora il compito
è rompere il recinto.


*La crisi e le politiche di reazione alla crisi*


Il compito è necessario e possibile. La necessità è impellente.
L’aggravamento delle condizioni di vita e la crisi della coesione sociale
covano uno spettro di reazioni possibili che non escludono quella regressiva
di guerra tra i poveri, di ricerca del capro espiatorio, di esplosioni di
violenza e di aggressività, di rafforzamento delle tendenze populistiche,
xenofobe e razziste. Soprattutto si diffondono condizioni di lavoro e di
vita altrimenti intollerabili, con un portato drammatico di sofferenze, di
disagio, di solitudine, di alienazione.

La crisi e le politiche di reazione alla crisi operate dagli Stati nazionali
e sovranazionali in Europa mantengono l’oscillazione dell’economia tra
ripresa senza occupazione e ritorno della crisi fino alla recessione.
L’instabilità è la cifra forte dell’intera fase. Il capitalismo conferma la
sua animalesca vitalità, ma per leggerlo nella sua interezza, e non farsi
trascinare nella conclusione fuorviante che “questa volta non ce la fa”,
bisogna saper guardare al mondo, ai processi che lo investono fino a
sconvolgerne gli assetti geopolitici, fino a dar luogo a un nuovo ordine
(disordine) mondiale. Le doglie del parto di un nuovo sistema monetario che
vada oltre il “dollar-standard” non sono solo visioni intellettualistiche di
chi scambia i desideri con la realtà.

La distruzione creatrice è in movimento. In essa si manifestano due partiti
borghesi, in qualche modo connessi anche alla diversa collocazione dei loro
protagonisti nel sistema produttivo e di scambio. C’è il partito vincente
del primato del capitale finanziario che egemonizza la politica degli Stati
e c’è chi sarebbe disposto a un certo compromesso redistributivo grazie ad
un intervento fiscale pur di salvare l’essenziale (il modello di sviluppo).
Warren Buffet ha prestato la voce più autorevole (uno dei più grandi
miliardari esistenti sulla faccia della terra), e in un certo senso
curiosamente, a questo partito che simbolicamente si esprime con l’adesione
alla patrimoniale e alla Tobin Tax (ai primi anni del XXI secolo sostenute
in Italia soltanto dalla sinistra radicale). La diffusione del fenomeno in
altri Paesi europei è assai indicativo del momento.

La vittoria del primo partito, quello del capitalismo duro, nelle politiche
di governo in Europa la dice lunga non solo sullo stato delle sue borghesie,
ma anche della politica, e di quella del centro sinistra in particolare. Sia
il capitalismo che chiederebbe ai ricchi di pagare più tasse, che quello
reale delle manovre economiche dell’estate, hanno però in comune il nocciolo
duro di questa nuova ristrutturazione capitalistica, quello di sottomettere
il lavoro a una nuova disciplina sociale nella quale non solo le scelte di
investimento (la natura del modello economico sociale, il cosa, come, dove,
per chi produrre) ma anche il salario, l’orario, la prestazione lavorativa,
i diritti sono messi fuori dalla possibilità di essere determinati con il
concorso dei lavoratori. La competitività richiede per essere perseguita la
liberazione del capitale dal lavoro organizzato sindacalmente e
politicamente, per ricondurlo alla condizione di merce. L’essenziale della
sfida qui si concentra.

Intanto la recessione si fa più minacciosa. La crisi può sfociare in una
recessione aspra, dura e lunga. Il rifiuto sistematico di alimentare la
domanda interna in tutta l’area dell’economia occidentale perseguendo, al
contrario, una deflazione salariale ne costituisce la base; le politiche di
austerità, il tetto. Né la Cina da sola, né i Paesi del Bric nel loro
insieme, possono supplire alla carenza di domanda nel mercato
dell’Occidente. L’idea di affidare loro il traino della ripresa mondiale
attraverso i loro consumi interni è priva di fondamento. Bisognerà ricordare
che la Cina ha un Pil che è solo un terzo del Pil dell’Unione europea,
malgrado una popolazione che è più di due volte e mezza quella dell’Ue. Chi
volesse la crescita non potrebbe che cercarla, in primo luogo, nel mercato
interno. Ma l’ipotesi è del tutto rifiutata.

Tanto meno si vuol aprire la via, da parte dei nuovi padroni del vapore,
all’altra ipotesi strategica di fuoriuscita dalla crisi, quella più organica
e più radicalmente innovativa, quella che chiama in causa direttamente il
modello di sviluppo. Essa dovrebbe passare, da un lato, da una
definanziarizzazione dell’economia e, dall’altro, dovrebbe saper rendere la
crescita non necessaria al benessere della popolazione e alla qualità della
società.

La prima richiederebbe un vero e proprio confronto con la rendita e con i
movimenti di capitali per imporre, in primo luogo, il riconoscimento dei
loro costi monetari sulle condizioni sociali e ambientali e la conseguente
costruzione di dighe che li impediscano; essa richiederebbe la regolazione,
a partire dalla tassazione delle transazioni finanziarie e dei movimenti di
capitale, e persino la riduzione dei tassi di rendimento che oggi la
speculazione moltiplica rispetto agli stessi profitti. Della seconda, solo
per annotarne il carattere radicalmente riformatore, basti soltanto
ricordare la necessaria assunzione in essa dei beni comuni e di relazione a
base del nuovo corso che si dovrebbe avviare. Ma se anche disarmare la
finanza è parte di questo nuovo corso, ciò chiederebbe di riprendere persino
il problema della sovranità monetaria, fino a riscoprire l’uso di monete
locali complementari che esaltino l’autonomia reale dell’ente locale. Mentre
parte centrale del nuovo corso toccherebbe alla riduzione del tempo di
lavoro individuale e alla sua redistribuzione.

Bastano questi cenni per capire perché la borghesia, entrambi i partiti
della borghesia, respingano anche solo la sperimentazione di questa seconda
via. Per capire invece le ragioni dell’opposizione alla prima delle ipotesi
anti-recessive, cioè quelle di un riformismo interno all’attuale modello,
bisogna proprio intendere fino in fondo il carattere regressivo, anche sul
terreno culturale e di teoria economica, della scelta di fare del lavoro la
variabile dipendente della produttività e della competitività, invece che un
soggetto protagonista della vita sociale e dell’economia.

Quest’ultima crisi si è svolta attorno ai debiti sovrani. Quando si dice
l’uso delle parole! Essi si chiamavano debito pubblico fino a qualche tempo
fa. Si sono chiamati sovrani quando hanno perduto ogni autonomia di fronte
alla potenza, all’arbitrio e all’arroganza dei mercati finanziari. Fino a
qualche anno fa le politiche restrittive prendevano di mira essenzialmente
il deficit pubblico, concentrandosi sulla necessità di ridurlo per risanare
economie nazionali altrimenti malate e contagiose. Persino Maastricht con la
(“stupida”) severa norma del rientro obbligato sotto il 3% aveva
relativamente messo da parte il peso del debito agli effetti del rischio di
crisi.

La messa sotto accusa del debito pubblico da parte del capitale finanziario
è stata una scelta recente, repentina e assoluta. A partire dai Paesi più
esposti al rischio di *default* i governi si sono allineati al nuovo credo,
fino alla resa di Obama. Quella che era stata considerata una sorta di
estrema speranza nella politica esistente in Occidente e, in essa, di quelle
del centro sinistra, ha ceduto di schianto di fronte al ricatto
conservatore, accettando proprio ciò che, di quella pressione, non si
dovrebbe mai accettare, cioè che il *welfare state* è causa della crisi.

I governi europei hanno adottato tutti la stessa terapia. Se *welfare* e
potere contrattuale dei lavoratori sono di ostacolo alla competitività non
resta che tagliarli. Persino i tempi dei rientri e la quantità dei tagli
escono come da una calcolatrice, una calcolatrice con la maiuscola. I tasti
in Europa sono comandati dalla Bce, dall’asse tedesco-francese e, se si vuol
essere impersonali, dai mercati finanziari.

Lasciamo parlare Mario Monti: «Le decisioni principali sono state prese da
un “governo tecnico soprannazionale” e, si potrebbe aggiungere,
“mercatista”, con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e
New York». E’ quello che lo stesso Monti chiama, riferendosi a una
tradizione dell’Italia medievale, il “podestà straniero”. Altri, analisti
molto autorevoli come Eugenio Scalfari, hanno parlato, descrivendo lo stesso
fenomeno, di un commissariamento.

Ho citato esponenti diversi del pensiero liberale democratico per mostrare
come e da quale punto di vista, non solo da quello di classe, sia evidente
la morte, o almeno la soppressione della democrazia. Semmai si deve
aggiungere la constatazione di una doppiezza manifesta nei maggiori
esponenti del pensiero liberale contemporaneo rispetto alla questione
democratica. Ora si può rovesciare su di loro la critica che essi rivolsero
ai comunisti.

La sospensione della democrazia nel regime capitalistico dell’Europa di oggi
viene correttamente constatata ma non denunciata; anzi essa viene
giustificata in nome di una ragione considerata superiore, il risanamento
dell’economia. Senonché l’eccezione si trasforma in regola attraverso un
processo complesso e articolato seppure non privo di una sua coerenza
interna di netta ispirazione neo-autoritaria. In Italia il “podestà
straniero”, prima, per usare un eufemismo, ispira la manovra di rientro e ne
detta i tempi rapidi di attuazione.

Poi, deciso il nocciolo duro, fuori dal quadrante democratico e della
sovranità, esso viene rivestito di un abito politico che , in presenza del
governo Berlusconi, risulti il più prossimo possibile a far coincidere
l’area di governo con l’intera rappresentanza parlamentare: decidere di
varare, comunque, la manovra in un determinato tempo, accettandone il
quadro, la cornice generale, equivale a condividerne il varo e a considerare
le differenze contenutistiche non tali da supportare, in ogni caso,
l’obiettivo del suo rifiuto.

Il Presidente della Repubblica, l’unica autorità politico-istituzionale del
Paese da questo riconosciuto come tale, confeziona l’abito politico con cui
viene rivestita l’operazione economica. L’idea della governabilità così
lavora sul fondo, ancora. La tappa successiva, l’ultima manovra, ha
completato il commissariamento senza sovranità; ne ha disvelato interamente
il suo carattere di classe, in particolare nei tagli ai servizi sociali e,
soprattutto, andando al cuore della questione, con un attacco ai diritti e
al potere contrattuale dei lavoratori, organico, sistematico e, se si può
usare questo termine nelle relazioni sociali, definitivo.

Sembrerebbe contraddittorio con questo esito il documento sottoscritto poco
prima dalle parti sociali, e invece questa percezione è solo la proiezione
nel nuovo ciclo della memoria delle relazioni sociali che caratterizzavano
il ciclo precedente, cioè l’esistenza in esse del problema dell’autonomia
del sindacato dai padroni, dal governo e dai partiti.

La nuova era non tollera (non concepisce?) l’autonomia, men che meno quella
sindacale. Senza la democrazia dei lavoratori, senza il riconoscimento del
valore progressivo del conflitto sociale, senza un’idea duale dei rapporti
sociali e della natura del contratto, il patto sociale si trasforma nella
cooptazione del sindacato nel sistema di potere e nella cornice
economico-sociale del meccanismo di accumulazione capitalista. E questo è il
senso dell’accordo tra governo e sindacati del 28 giugno scorso.

Un’altra cerniera tra società civile e istituzioni, tra economia e società,
un altro teatro della democrazia reale in questo modo viene fatto saltare.
Il recinto allarga il suo confine includendovi un altro pezzo della
rappresentanza e contemporaneamente approfondendo il solco che separa il
dentro dal fuori. I corpi intermedi sono un obiettivo nevralgico della
svolta autoritaria.

Se da un lato si coopta il sindacato mentre si fa sprofondare il lavoro
nella realtà della merce, dall’altro, gli enti locali vengono sospinti, con
i tagli dei trasferimenti dello Stato, a diventare la controparte in prima
istanza del malcontento e dell’ira delle popolazioni a cui dovrebbero, per
via di bilancio, negare ciò che già avevano in termini di tutele sociali, di
esercizio di diritti, di sostegno e di cura, togliendo loro, a volte,
persino l’essenziale per una vita civile. Diventerebbero non più luoghi
dell’autonomia locale, ma proconsoli di un governo centrale a sua volta
proconsole di un governo sovranazionale, l’uno e l’altro liberatisi ormai
del problema del consenso, cioè dell’essenziale della democrazia.

I decreti di Ferragosto esplicitamente confermano il passaggio dallo stato
di eccezione (il rischio del precipitare della crisi finanziaria dello
Stato) alla regola di uno Stato senza più sovranità e democrazia, niente di
meno che attraverso una modificazione della Costituzione. Lo ha colto bene
Rino Formica, che ha scritto: «I Costituenti assegnarono ai partiti politici
il ruolo di corpo intermedio tra Stato e cittadini e di parte dello Stato
democratico, perché doppio era l’esercizio della sovranità del popolo: nei
partiti per rinnovare lo Stato (art. 49) e nello Stato per costruire una
società tesa alla realizzazione dell’eguaglianza (art. 3). I Costituenti
furono espliciti nell’indicare una scelta in contrasto con la tradizione
liberale».

Cosicché non può risultare più evidente il vero e proprio rovesciamento
della filosofia della Costituzione repubblicana con l’auspicata introduzione
di un vincolo esterno capace di impedire il perseguimento proprio del
compito assegnato dal Costituente alla Repubblica in uno dei suoi articoli
fondativi, l’articolo tre. Ha ragione Formica quando conclude: «Con un
decreto si recita quattro volte “in attesa della revisione costituzionale”
su quattro punti nodali della Carta costituzionale: art. 81 (sovranità
parlamentare su bilancio), art. 41 (democrazia economia) e gli articoli
relativi alla composizione della Camera e alla composizione del governo
delle autonomie locali territoriali. Bisogna tornare al colonialismo per
trovare dei mutamenti costituzionali per interventi esterni».

Già, il vincolo esterno. Ieri usato (Maastricht) per logorare le conquiste
sociali e ridimensionare lo stato sociale con l’assolutizzazione della
riduzione del deficit; oggi per fare *tabula rasa* di un’intera storia
politica e sociale, democrazia compresa, con il dogma del pareggio di
bilancio. Una nuova ideologia borghese viene chiamata a presidiare il
recinto. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori dalla politica corrente.


Il complemento viene da un’operazione culturale con la quale vengono
demonizzati i movimenti. Di nuovo la barriera, il recinto viene in primo
piano. I movimenti vengono indicati come portatori di violenza (e dunque
fenomeni di ordine pubblico) o come estrema manifestazione di un mondo ormai
fuori dalla contemporaneità e chiamati in vita solo per l’attività di forze
antisistema. Il primo è il caso della No-Tav, il secondo quello della Fiom
rispetto alla Fiat.

La discriminante messa in campo riecheggia la cultura di tutte le forme di
oppressione, in particolare quella che pretende di dividere lavoratori e
sindacati tra costruttori e distruttori. Oggi non gli appartenenti a un
partito o un sindacato (anche se pure a loro può toccare), non gli
intellettuali critici, come fu negli Usa negli anni della “*black list*” o
come fu a lungo nella Fiat di Valletta, ma i movimenti, il conflitto, sono
quelli che vengono configurati come distruttori. La conseguenza è diretta e
devastante anche sulle forze politiche: solo chi si separa dai movimenti è
ammesso nella sfera della politica riconosciuta.

Alla costruzione del recinto, del muro, servono anche i simboli, che possono
diventare mattoni particolarmente pesanti. Per colpire a fondo una storia
bisogna sradicarla, bisogna cancellare anche la memoria delle sue radici,
tanto più quanto esse sono state profonde e forti, tanto da poter ancora e
sempre rigenerarsi. L’idea della cancellazione, per decreto, delle feste del
1° maggio e del 25 aprile non è solo una sfida insolente; è un pezzo di una
strategia di annientamento di una soggettività politica, quella del
movimento operaio.

Di fronte a questa enorme e violenta sfida avevamo pensato: c’è solo da
attendersi che la replica sia all’altezza. Voi volete toglierci la festa del
lavoro, per cancellarci, e noi ce la riprendiamo, ritornando all’origine,
con lo sciopero di tutte e di tutti: uno sciopero generale il primo maggio
per resistere ed esistere, contro il muro. Il fatto che su questo punto,
come su qualche altra nefandezza, il governo abbia dovuto smentirsi non
tragga in inganno. Il processo va avanti; esso scava fossati, erige muri
divisori; coopta ed esclude. Se vive il recinto, muore la politica autonoma;
se regge il recinto muore definitivamente la sinistra politica.

Il recinto fa il suo gioco demolitore di democrazia, socialità e qualità
della vita, mentre riduce in servitù la politica. Dunque, rompere il recinto
è assolutamente necessario.


*L’aria della rivolta e il movimento che la respira*


Ma il compito di far saltare il recinto è, non solo necessario, ma anche
possibile. Nello scorso numero della rivista abbiamo indagato la dinamica
dei movimenti, leggendovi lo spirare dell’aria della rivolta. Nessuna
pretesa di riduzione a un’unità inesistente ha ispirato quella ricerca,
bensì il tentativo di capire se, tra storie tanto diverse per collocazione
geografica, per scopi, per problematiche, per natura dei soggetti
protagonisti, per le cause da cui hanno preso le mosse, ci fosse un
possibile filo, anche sottile, che le legava. Noi pensiamo di averlo
rintracciato in ciò che, approssimativamente, abbiamo chiamato l’aria della
rivolta. Il Mediterraneo ne è stato e continuerà a esserne il teatro; un
teatro che coinvolge, in forme diverse, l’intera Europa.

L’opposizione dei movimenti è all’ordine esistente; la loro molla è
l’indignazione contro la diseguaglianza e l’arroganza del potere; la
democrazia è la loro pratica; il loro obiettivo è la costruzione di un nuovo
ordine democratico fondato sulla partecipazione e capace di spezzare la
divisione tra governati e governanti. Questo è ciò che chiamiamo l’aria
della rivolta perché il movimento che la respira non è rappresentabile, né
racchiudibile in un obiettivo parziale e immediato.

Esso non è contro il negoziato, ma ha capito che, in questa fase, il
compromesso è sistematicamente negato dal potere. Il tavolo, quello del
confronto tra movimento e governo, è infatti, in questo quadro, attivabile
solo per cooptare la rappresentanza e dividere. Chi oggi comanda ha fatto
mancare la materia stessa del compromesso. Proporsi di far saltare il banco
è dunque una prova di lucido realismo. Anche se essa è difficile da far
entrare in culture che, sulla base della loro storia, hanno verificato che
la pratica della contrattazione è stata la più efficace prassi di
cambiamento e di partecipazione conflittuale esercitata dagli oppressi. Il
dialogo tra queste diverse culture critiche è ciò che possiamo e dobbiamo
saper fare.

Dove ci sia uno spazio che il conflitto può guadagnare per far vivere una
vera contrattazione che possa riaprire, a sua volta, la possibilità concreta
di conquista sociale, ecologica, democratica esso va sostenuto a fondo anche
dal vento di rivolta. Dove il vento spiri aprendo nuove strade con movimenti
di vera e propria rivolta, di insubordinazione di massa, pacifica e non
violenta, o di occupazione di spazi da convertire ad attività
extramercantili, a pratiche di liberazione, a far vivere beni comuni, si
trovi il massimo di comprensione e di convergenza attorno a queste nuove
pratiche sociali. La zona rossa deve poter essere messa in discussione da
ogni lato. I movimenti di questa stagione possono essere aiutati a farlo.
Sono le loro stesse caratteristiche a dircelo.

Un contributo importante alla loro lettura, anche per il profilo
politico-intellettuale dell’autore, è venuta da Alain Turaine. Ricorriamo a
una lunga citazione di un suo recente scritto perché esso ci pare
particolarmente significativo, proprio alla luce della natura della cattedra
da cui proviene.

«Tra i movimenti sorti in vari Paesi europei, il più importante è quello
degli *indignados*. (…) La loro protesta non è rivolta contro la politica di
un governo, ma contro i sistemi politici in quanto tali. I giovani che
manifestano sono soprattutto studenti: sostenuti dalla maggioranza della
popolazione, contestano i partiti, e in particolare quelli di sinistra, che
ai loro occhi non rappresentano più l’opinione pubblica, e quindi svuotano
la democrazia di ogni suo significato. (…) Ciò che mettono in discussione è
innanzitutto il principio della democrazia rappresentativa. In altri
termini, respingono l’idea, insita nella rappresentazione classica della
vita politica in Europa, che le rivendicazioni e le proteste sociali e
culturali sorte dai gruppi sociali trovino un’espressione più o meno
completa nei partiti politici; e rifiutano di vedere in essi i
rappresentanti politici degli interessi popolari e dei conflitti sociali. A
riprova, basti constatare che i sindacati sono contestati allo stesso titolo
dei partiti politici. (…) Si può incominciare a comprendere meglio la natura
e l’importanza di questi movimenti vedendo in essi la rivolta di una
gioventù che si sente privata della propria qualità di cittadini ad opera
dei politici, in particolare di sinistra - i quali a loro volta si
considerano penalizzati da una logica economica irresistibile, in quanto
globale. (…) Questa crisi della politica mette in discussione più
particolarmente i partiti di sinistra, che per definizione s’intendono come
i difensori dei diritti e delle libertà della popolazione. Al di là del
problema, pure gravissimo, degli alti livelli di disoccupazione giovanile,
non siamo più nell’ordine dei conflitti economici e sociali, ma in quello
della contraddizione tra i diritti umani fondamentali e la violenza del
dominio del profitto capitalista sopra ogni altra finalità del sistema
sociale. (…) In Italia e in Spagna, il senso generale della sollevazione è
lo stesso. Ed è anche molto vicino a quello delle rivolte in Tunisia e in
Egitto, contro la distruzione della vita politica ad opera dei dittatori,
delle loro famiglie e degli ambienti corrotti più direttamente legati a un
potere autoritario. (…) Una soluzione democratica non può venire che da una
separazione non solo accettata, ma voluta, tra il movimento popolare e le
ricostituite forze politiche. Quanto più un movimento è forza di
liberazione, tanto maggiori sono le sue possibilità di far rinascere una
democrazia politica. La sua debolezza sul piano propriamente politico lo
protegge da un ritorno di quello stesso potere egemonico che ha combattuto».

L’ampiezza del fronte di lotta è in continua espansione e si estende a
sempre nuovi Paesi. E’ di qualche significato la mobilitazione, forse senza
precedenti, in un Paese come Israele, dove la protesta contro l’aumento del
costo della vita è diventato un movimento capace di portare in piazza a Tel
Aviv più di 300mila persone in agosto e di proseguire la settimana
successiva investendo le città periferiche, in genere assai lontane da
esperienze del genere. Il riferimento anche lì adottato esplicitamente è
quello degli “indignati”. E’ stato definito da osservatori informati un
movimento in crescita «potente, che per il momento ha il potere di dire
“No”, di non accettare le soluzioni politiche tradizionali, ciò che lo
protegge dalle divisioni interne». Secondo un recente sondaggio l’88% degli
israeliani sostiene la contestazione e il 53% di loro si dice pronto a
manifestare.

A Nord la sommossa ha scosso Londra. Ancora una storia diversa, più simile
nelle sue forme ai moti che nel 2005 bruciarono le *banlieues* francesi e
tuttavia anch’essa così interna alla nuova stagione. Qui la violenza ha
certo caratterizzato il moto di ribellione ma la sua lettura non deve farsi
attrarre unilateralmente da questa che, a sua volta, deve essere ben
compresa (non condivisa) nella sua radice.

Ha scritto Tony Trevers, uno studioso del fenomeno per la London School of
Economics, che: «Ridurre il tutto a un fatto criminale è sbagliato. Dovremo
capire meglio cosa sta accadendo, ma non si può dimenticare che i
protagonisti di questi assalti sono tutti giovani poveri delle periferie.
Spaccano le vetrine, incendiano i negozi e gli edifici, sono violenti
perché, sentendosi respinti, sfidano l’autorità». Dominique Moïsi,
editorialista del *Financial Times*, aggiunge che il motore dei moti sono:
«Le pulsioni nichiliste di alcuni esclusi attorno a cui si coagulano le
insoddisfazioni di molti. I teppisti inglesi sono appoggiati da molti
giovani che, pur non condividendo il ricorso alla violenza, la capiscono. I
sacrifici richiesti in tempo di crisi si traducono in violenza se non
vengono applicati a tutta la società».

Laurent Mucchielli, l’autore di *Quando le banlieues bruciano*, uno studioso
che ha indagato a fondo il carattere spontaneo della rivolta, ha così
descritto la forma di organizzazione della lotta: «I rivoltosi sono come un
esercito. C’è la prima linea, i disperati che non hanno nulla da perdere,
quelli che prendono i rischi peggiori. C’è anche una seconda linea, il
grosso della gioventù che li appoggia. E una terza linea, che incoraggia le
prime due dalla finestra. Le tre linee sono legate da un sentimento di
ingiustizia e di esclusione, che non è provato solo dai maschi e solo dagli
uomini. Infatti, i rivoltosi che vengono presi dicono sempre che si
sentivano il braccio armato di una comunità più ampia». Mucchielli indica
anche la ragione interna della fine della rivolta violenta nel fatto che «la
popolazione, che pure ha sostenuto i rivoltosi, decide che i danni sono
troppi e che il quartiere, già povero e degradato, lo è diventato ancora di
più». Una bella sfida per una pratica di nonviolenza che sappia assumere la
rivolta come un terreno reale e necessario della contestazione sociale in
questa fase storica.

La rivolta ha mille facce diverse; perciò ne vogliamo cogliere l’aria, la
condizione ambientale che la favorisce, le molle che la generano,
l’orizzonte di senso e di rinascita della politica che possiamo guadagnare.
Da noi l’aria della rivolta ha preso per ora la via dell’articolazione dei
movimenti. L’eredità del caso italiano, la sua storia di contrattazione
sociale e di articolazione dei conflitti lascia un deposito che lavora nel
fondo della società, come una memoria che riaffiora, anche quando la storia
ha preso già un altro verso.

Inoltre il disagio, la rabbia sociale, pur così diffusa, non conosce, come
in altri Paesi europei, zone, territori, dove si concentrano l’esclusione e
la discriminazione fino a costituire un serbatoio pronto a esplodere. Forse
non è neppure del tutto ininfluente il fatto che esista in Italia una fonte
di solidarietà sociale non ancora prosciugata, quale la famiglia o certe
relazioni di comunità. Tuttavia, il panorama di conflitti, di proteste, di
lotte e di partecipazione che ci ha fatto parlare dell’esistenza anche nel
nostro Paese dell’aria di rivolta resta un campo aperto. Il potere non è
riuscito a sradicare le molle del conflitto che riemergono con l’avvicinarsi
dell’autunno. Ha un preciso significato che sia la Fiom a dar vita alle
prime mobilitazioni.

L’avvio della lotta contro il nocciolo duro dei decreti agostani, cioè
l’aggressione al lavoro, è stato un fatto promettente in sé che ha avuto
anche il merito di non consentire la piena adesione dell’intero sindacato
confederale al patto sociale. La Cgil, sollecitata da una presenza critica,
quella di una forza sindacale autonoma che vive al suo interno, ha visto
squadernarsi dinanzi a sé la sua grande contraddizione. La convocazione
dello sciopero generale è stata l’espressione più forte di questa presa di
coscienza, che ha rappresentato, sul confine del recinto, il suo polo non
pacificato.

E’ una crepa importante quella che si è aperta con lo sciopero generale
proclamato dalla Cgil (e che è diventato l’occasione anche per la simultanea
convocazione dello sciopero dei sindacati extraconfederali), una crepa nel
processo di cooptazione dentro il recinto governi sta, di tutte le grandi
forze organizzate politiche e sociali. Essa è la manifestazione interessante
di una qualche instabilità esistente nella costruzione neoautoritaria. Si
tratta di un’instabilità interna che va messa alla prova, sia per far
crescere la partecipazione di masse alla lotta, sia perché, come invece è
già accaduto precedentemente, dopo lo sciopero tutto non ritorni come prima.
Il rischio è assai alto.

In ogni caso, la spina nel fianco della Fiom agisce efficacemente perché il
sindacato dei metalmeccanici è già parte costitutiva dell’arcipelago dei
movimenti che hanno caratterizzato la stagione politica che ha fatto parlare
di un cambio del vento. Si è vista, anche nelle giornate di Genova,
l’ampiezza dell’area che rappresentava lì la diffusione dei movimenti che
vivono nel Paese. Si è visto anche lì il bisogno di continuità che emerge
all’interno di questi stessi movimenti; l’esigenza di dare ad essi una
strutturazione che possa favorire la loro tenuta e lo sviluppo della
mobilitazione, dalle donne al popolo viola. Il fronte dei beni comuni è
ormai una larga realtà dinamica, dentro la quale crescono esperienze ed
elaborazioni impegnative, dove si esplorano nuovi terreni di lotta, mentre
altri appuntamenti vengono resi indispensabili dai provvedimenti governativi
e dalla stretta sugli enti locali.

I soggetti che sono nati e cresciuti di fronte al diffondersi della
precarietà ed hanno saputo elaborare nuove forme di lotta e di
organizzazione restano sul terreno sociale un punto di forza della possibile
radicalizzazione ed estensione del conflitto. La ripresa delle attività
scolastiche costituirà un’occasione per lo sviluppo del protagonismo delle
nuove generazioni, che sono state nei mesi scorsi, e lo sono in tutto il
continente, l’ala trainante delle lotte e delle rivolte.

Dunque, fuori dal recinto c’è tanto e su questo riposa ormai la possibilità
di vedere rinascere una politica autonoma, critica nei confronti di un
sistema che sacrifica alla sua sopravvivenza la democrazia e il compromesso
sociale. A maggior ragione, anche quando si evidenziano delle crepe nella
costruzione del regime, bisogna essere ben avvertiti che sono queste realtà,
cioè quello che vive oggi fuori dal recinto, le novità della fase.

Contemporaneamente bisogna saper leggere, senza presunzioni e saccenza, i
limiti e le inadeguatezze dei movimenti di questa fase. Genova, la cui
utilità va ribadita, ne è stato lo specchio. Le connessioni, i legami tra i
diversi movimenti sono troppo flebili e incerte; la questione del rapporto
tra lavoro, libertà e democrazia, con tutto il suo portato insieme di
drammaticità e di nuova frontiera, risulta troppo poco a fuoco, proprio nel
suo carattere generale, di società; la necessaria dimensione
euro-mediterranea del conflitto ancora non è sufficientemente indagata e
praticata; la riflessione sulle forme di lotta, su cui pure la stagione è
già stata così ricca di esplorazioni e di esperienze, è ancora troppo
occasionale. Vorrei ricordare che anche in altre e tutt’affatto diverse,
fasi di lotta, anche quando esse erano così estese, forti e radicali da
essere vincenti, la riflessione interna sui loro limiti era un lavoro
politico necessario, non un modo per sminuirne la portata e la prospettiva.
Figurarsi ora.


*Far saltare il tavolo, aprire un nuovo corso della democrazia*


L’aria della rivolta è la risorsa di oggi per non soccombere. L’intuizione
che la caratterizza risponde ad una precisa lettura della fase in Europa,
risponde ad un giudizio sulle risposte che le classi dirigenti europee nel
capitalismo finanziario globalizzato stanno dando alla crisi: il tavolo
delle decisioni su cui esse sono state assunte ha demolito la democrazia e
negato ogni significativo spazio di compromesso sociale e di negoziato;
dunque, è il tavolo che deve essere fatto saltare, affinché si possa aprire
un nuovo corso della democrazia, della politica e dell’organizzazione della
società.

In Italia due movimenti vanno in direzione opposta. Da un lato, il processo
politico istituzionale che accompagna acriticamente la grande
ristrutturazione capitalistica; dall’altra, i movimenti di lotta e di
mobilitazione che, esclusi da questa costruzione neoautoritaria, la
contestano e la rifiutano. A separare i due movimenti c’è la costruzione del
recinto cui abbiamo accennato, che riduce la politica ad attività servile.

L’uscita di scena della sinistra è riassunta nella sua incapacità di
spezzare il recinto fino al punto di non sapere nemmeno vederlo. Nell’agosto
del golpe bianco essa non ha saputo dire “No” alla manovra. Aver accettato
di discuterne i contenuti, quand’anche per criticarli, all’interno della sua
cornice (che è poi la sua filosofia, cioè la sua ispirazione di fondo) e dei
tempi di approvazione dettati dall’oligarchia di comando ha fatto della
sinistra un *desaparecido*, un ente pressoché inutile (altri, per
composizione sociale, per interesse e per cultura economica e politica, sono
adatti a compiere questa funzione assai più efficacemente, a cominciare dai
grandi borghesi).

Ogni discorso politico autonomo sarebbe dovuto cominciare dal famoso
“Preferirei di No” di Bartleby. Un irriducibile “No” a un impianto di
politica economica fondato sull’assunto che il *welfare state* e il potere
contrattuale dei lavoratori sono la causa del debito pubblico e del deficit
di competitività delle nostre economie. Accettare la sovranità del vincolo
esterno equivale all’accettazione dell’eutanasia della sinistra e
dell’accettazione della sua collocazione all’interno del recinto. Se il
compito è, come è, la rottura del recinto, allora esso non può che poggiare
sull’opposizione al vincolo esterno di un vincolo interno (ricordare la
lezione di Claudio Napoleoni), sulla sua assunzione a fonte della
rigenerazione dell’autonomia della politica e della sinistra.

E’ il vincolo interno, del resto, ciò che invocano, più o meno
esplicitamente e consapevolmente, tutti i movimenti in campo: una poderosa
redistribuzione dei redditi a favore del salario in tutte le sue forme
ipotizzabili, diretto, indiretto e differito per coloro che lavorano e
sociale per chi non lavora; la costruzione di un sistema di diritti
esigibili finalizzati al pieno sviluppo della persona umana in una
cittadinanza universale rispettosa delle differenze; la difesa e
valorizzazione della natura fino a configurarla come levatrice di un diverso
rapporto tra natura, produzione, consumo e ricerca; la messa in discussione
dell’attuale rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro. Abbiamo così
indicato solo alcuni dei campi in cui può costituirsi il vincolo interno.

Aprire una radicale lotta politica e culturale per la sua possibile
assunzione a fondamento di un nuovo corso è diventato improcrastinabile. Si
tratterebbe di accompagnare con questa ricerca i movimenti che respirano
l’aria della rivolta, la quale è la sola che, a sua volta, può alimentare
quella rottura da cui possa rinascere un pensiero critico radicato
nell’esperienza sociale, un processo di trasformazione e la resurrezione
della sinistra. La rottura del recinto ne è oggi la prima condizione, la
democrazia la sua chiave di volta.

Fausto Bertinotti
*editoriale del numero del 29 settembre di «Alternative per il socialismo»*


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