Autore: Antonio Bruno Data: To: forumsege, forumsociale-ponge, Mailing list del Forum sociale di Genova, amici-di-barcellona, fori-sociali Oggetto: [NuovoLab] La profezia dei pacifisti Quando il ten. Thompson entrò a Perugia su un carroarmato nel '44
Questa sembra essere la stagione dei ricordi della seconda guerra mondiale, quando ogni veterano è autorizzato a mostrare le sue cicatrici, come molti hanno fatto nelle celebrazioni dei quarant'armi dal «D day» dello sbarco in Normandia. E, poiché la terza Convenzione per il disarmo nucleare in Europa si sta per riunire a Perugia, questo è evidentemente il momento giusto perché racconti la mia parte nella liberazione di quella città.
Il rapporto ufficiale che dovetti scrivere su un episodio della liberazione di Perugia iniziava cosi: «Alle 18.30 circa del 19 giugno 1944, le mie truppe guidavano l'avanzata nel villaggio di Fontioeggi. Quando il carro armato che apriva la strada, comandato dal sergente S., iniziò a entrare nel paese, venne colpito da un proiettile anticarro, sparato da un'arma situata più avanti sulla strada, e venne impegnato anche da armi della fanteria nemica, situate nelle case sulla sinistra. Dopo aver tentato di far marcia indietro, il sergente S. ordinò al suo equipaggio di evacuare il carro armato, ma non fu in grado di far uscire nessuno oltre al cannoniere, il soldato W...» (…).
Scendevamo per una lunga strada alla periferia di Perugia a 15-20 chilometri all'ora. Dai campi e vigneti ai due lati della strada passammo in una via tra le case, con una curva in fondo. Mentre si avvicinava alla curva, il carro del mio sergente, cento metri più avanti, ebbe un urto, si scosse, si fermò, una nuvola di fumo grigio appesa nell'aria. Ci fu un rombo del motore mentre tentava di far marcia indietro, poi fu colpito e si scosse una volta di più. Vidi il comandante, il sergente S., chinato nella torretta, poi saltò fuori, seguito dal cannoniere, il soldato W. I due corsero verso di me, il sergente gridò: «Non posso tirar fuori gli altri. Penso che ci siano rimasti». «Sei sicuro?». «Abbastanza. Li ho chiamati. Siamo stati colpiti due volte».
Dissi al mio cannoniere di prendere il comando del carro e corsi verso la macchina inerte più avanti. Ricordo il binocolo che mi sbatteva sul petto mentre correvo. Saltai sul carro colpito, scrutai nel buio della torretta, semiaccecato dal sole e dalla polvere. Chiamai, senza avere risposta. Mi sparavano addosso da una casa vicina e sembrava inopportuno stare in giro. Non so ancora bene perché feci quel piccolo gesto. Non era solo l'impulso di aiutare i miei compagni, ma anche di alleviare la mia colpa di essere stato lo strumento che li aveva mandati laggiù (…).
La retroguardia tedesca evacuò la città nella notte ed entrammo in Perugia il 20, superando nell'avanzata la carcassa annerita del carro del mio sergente. C'era un po' di folla plaudente nelle vie della città, ma il mio umore era troppo nero per rallegrarsene. Il benvenuto delle folle di Perugia sembrava forzato, la città era stata un centro amministrativo del fascismo, per poliziotti e avvocati, per impiegati del fisco e redditieri, per funzionari ed ecclesiastici; Perugia era stata per Mussolini una delle città preferite (…).
Perché scrivo questo, quarant'anni dopo? So bene che il mio piccolo episodio di guerra è cosi personale e parziale che potrei trarre da esso qualunque morale politica (…).
La guerra moderna è la negazione definitiva dell'intervento umano. La maggior parte delle uccisioni della seconda guerra mondiale sono state effettuate a lunga distanza, fra nemici che raramente si vedevano. Nella terza guerra mondiale non si vedranno affatto, ci sarà solo un blip su uno schermo radar (…). Se la possibilità di intervento individuale sopravvive, non è più nella guerra, ma è dietro e prima la guerra, nella cultura politica degli stati che si combattono. Se vogliamo essere attivi nella prossima guerra, dobbiamo intervenire adesso. Nel momento in cui inizierà, tutto lo spazio per intervenire sarà chiuso.
La seconda morale che tiro da questo episodio è ovvia. La «guerra » che i mezzi di comunicazione vogliono far risorgere è a due dimensioni, è piatta, lascia fuori la dimensione della sofferenza (…).
La mia terza morale è diretta verso la Convenzione che si riunisce a Perugia. Non è più sufficiente per gli europei reclamare il disarmo nucleare. Devono lavorare insieme per impedire ogni ricorso alla guerra. Gli attuali suggerimenti che le armi «convenzionali» siano in qualche modo più tollerabili delle armi nucleari sono fuorvianti. Le armi convenzionali delle prime due guerre mondiali erano orrende e i loro successori «modernizzati » saranno orrendi fino all'estremo. I tabù contro il massacro dei non-combattenti sono già stati superati, e poiché — come ci viene spesso detto — le armi nucleari «non possono essere disinventate», possiamo essere abbastanza sicuri che in qualunque battaglia tra i blocchi che inizi con armi «convenzionali», la parte perdente ricorrerà, al momento della sconfitta, alle armi nucleari.
Certamente, le armi nucleari sono i simboli più odiosi della nostra condizione, e resteranno la nostra principale preoccupazione. Ma il movimento per la pace deve ora andare oltre questa sua ossessione e diventare un movimento per la costruzione della pace in Europa (...). Ne consegue che un movimento per la pace, se deve fare pace e non solo fare proteste, deve darsi un programma che arrivi in ogni angolo della nostra cultura e istituzioni. Deve essere un movimento propositivo che non ha precedenti (...).
Se il nostro movimento deve fare pace, e non solo fare una resistenza di retroguardia all'aumento delle armi da guerra, deve affrontare le condizioni politiche e ideologiche in cui la prossima guerra mondiale sta maturando. Deve imparare a comunicare attraverso i blocchi, dove le linee di ostilità sono più aspre. Deve preoccuparsi non solo del disarmo materiale, ma anche di quello politico e ideologico.
E’ per questo che la questione della divisione dell'Europa e della presenza di forze e basi militari straniere al di fuori del loro territorio in entrambe le metà dell'Europa deve farsi strada nell'agenda del movimento per la pace. Dire che non ci può essere una prospettiva di pace finché non si supera la divisione dell'Europa, dire che ci dev'essere un «compromesso storico» tra le istituzioni e le ideologie dei blocchi avversari (e tra Usa e Urss) significa rilevare le vere dimensioni del nostro problema (…).
Sono andato molto lontano dal mio tema, e l'Europa stessa è andata molto avanti da quel giorno di giugno del '44 quando ero nel mio carro armato alla periferia di Perugia. (...) La divisione dell'Europa (di cui ritengo responsabili i governanti di entrambe le parti ) è stata un tradimento dei valori emersi allora, della democrazia, dell'internazionalismo, del sacrificio personale. Ha trasformato quelle famose vittore in un mucchio di merda.
Nel 1944, tutta l'Europa dagli Urali all'Atlantico fu attraversata da un'attesa comune per un continente democratico e pacifico. Pensavamo che le vecchie élite del denaro, del privilegio e del militarismo se ne sarebbero andate.
Era una retorica coraggiosa, ma la prendemmo per buona e molti la presero pagandola con le loro vite. È per questo che ritorno ora al '44, prima che l'Europa fosse tagliata in due metà (...). E dobbiamo tornare al '44, prima di Yalta e prima di Potsdam, e rimettere di nuovo insieme il nostro continente. Se la convenzione di Perugia può contribuire a questo risanamento, allora farà qualcosa in più che mettere dei fiori selvaggi sulle tombe di chi ha combattuto contro il fascismo. Libererà le intenzioni dei morti e li libererà nel tessuto della storia vivente.
di Edward P. Thompson
Edward P. Thompson - grande storico inglese, autore di Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra (Saggiatore), Società patrizia, cultura plebea (Einaudi), Opzione zero (Einaudi) - è stato tra i protagonisti del movimento per la pace e della Convenzione per il disarmo nucleare in Europa che si tenne a Perugia nel 1984, il primo grande incontro tra pacifisti dell’ovest e dell’est. In quell’occasione scrisse per il Manifesto questo testo, apparso in prima pagina il 13 luglio 1984; la versione inglese completa è nella sua raccolta The heavy dancers (Merlin Press).