[NuovoLab] Una terra arida, fino a quando? Il Muro israelia…

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Author: Antonio Bruno
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Subject: [NuovoLab] Una terra arida, fino a quando? Il Muro israeliano divide e chiude anche i rubinetti . Dal Libano l'attesa preoccupata dei campi profughi
Israele alla guerra dell'acqua, la distribuzione di «classe» dell'azienda Macarot
Territori occupati e assetati
Una terra arida, fino a quando? Il Muro israeliano divide e chiude anche i rubinetti . Dal Libano l'attesa preoccupata dei campi profughi


Il problema dell'acqua, nelle settimane di lavorio politico che accompagna la proclamazione dello stato di Palestina e il suo riconoscimento internazionale da parte dell'Assemblea delle Nazioni unite, può sembrare trascurabile. Un affanno di tutti i giorni, quando sono in ballo eventi che segneranno un'epoca. Pure bisogna continuare a bere, tutti i giorni.
Sembra una cosa da niente, bere. Ma se l'acqua (dell'acquedotto) arriva 12 ore la settimana, se i tuoi pozzi sono oltre frontiera, se quando provi a scavare un altro, c'è qualcuno che te lo fa saltare, se vedi giorno per giorno i tuoi campi rinsecchire, se l'acqua indispensabile per vivere arriva con un camion, ma ai prezzi di mercato estivo e non hai da pagare, se l'acqua sporca puoi solo tenerla lì a marcire, sotto casa, con tutti i rischi di malattie, allora puoi solo guardare in alto e dire: «Io resisto qui, sulla mia terra. Mio nonno è stato ucciso dagli inglesi, mio padre anche. Io resto. Passerà anche questa».
La grande guerra dell'acqua è prevista, lugubremente, per metà secolo. Qui in Palestina è già in corso. Non è una frase fatta. A dividere Palestina da Israele non basta un confine e non basta un muro, pur contorto e profondo. L'acqua è ribelle, salta, passa sotto, aggira i muri, arriva da tutte le parti, è sempre la stessa, in fondo. La guerra consiste in questo: impadronirsene, toglierla al nemico. Averla o non averla; poterla dividere: tanto o tutto a me; poco o niente a te. Non è un fatto simbolico la guerra dell'acqua. Siamo in un mondo in cui l'economia con la quale le persone sopravvivono è soprattutto agricoltura e l'agricoltura è soprattutto fatta di acqua. Senz'acqua te ne devi andare; per restare devi averla. Altrimenti la tua terra non vale niente, è perduta. Così, per conquistare pezzi di terra e ed espellere chi ci vive, fai la guerra dell'acqua. Fai la guerra all'acqua del nemico, la imprigioni, la costringi a stare dalla tua parte. Un tempo si avvelenavano i pozzi, ora li si fanno saltare.
La storia si ripete in giro per la Palestina. Lo vediamo, ce lo raccontano i contadini, le donne dei paesi, lo riassumono sindaci, esperti dell'acqua palestinese, attivisti dei comitati. Dove c'è un villaggio o una città palestinese, nei pressi, quasi sempre in una posizione dominante, c'è un insediamento dei coloni israeliani. Per esempio a Ramallah, capitale del futuro stato, fuori dalle finestre del Pwti, Palestinian Water Training Institute, una scuola per insegnare tutto sull'acqua a ragazzi e ragazze, ai loro maestri e agli amministratori locali, c'è, a poche centinaia di metri un insediamento di coloni. Una sorta di castello che da lontano domina le case dei contadini, in un'Italia dei secoli passati. «Sparavano ai nostri vetri, durante la seconda Intifada...». L'acqua è per lo più distribuita, agli uni e agli altri, dalla stessa impresa pubblica Macarot Israeli Water. Questa ha degli utenti di classe business e poi tutti gli altri, sempre che si possa scherzare su temi tanto gravi. C'è insomma la classe dei coloni (C) e quella degli arabi (A) - parlare di palestinesi è già ammettere che esistano - con i rispettivi territori e i servizi pubblici, come l'acqua. Quando c'è scarsità oppure si prevede una stagione secca, oppure i palestinesi rialzano la testa, Macarot chiude i rubinetti. Si può protestare, si arriva anche alle autorità e ai tribunali. La burocrazia, come è noto, è lenta a rispondere e passano settimane e mesi... Poi intervengono i militari con le loro imperscrutabili questioni di sicurezza. È per questioni di sicurezza non certo per appoggiare Macarot o spingere via i contadini che i soldati fanno saltare i pozzi che gli agricoltori hanno scavato di nascosto. Di nascosto, nella loro terra. Come altrove si eliminano i campi di coca o di oppio, qui sono le angurie, verdeggianti, quasi una bandiera rossa, verde e nera che fanno le spese della sicurezza.
Per esempio a Tulkarem. È una città con molti villaggi intorno e due grandi campi profughi. Servirebbero 20 mila tonnellate di acqua al giorno, per 100 litri a testa. Un terzo dei consumi dei coloni. Alla stessa altezza di Tulkarem, sulla carta, a poco più di 20 chilometri, sul mare, ecco Netanya. In mezzo c'è il Muro e anche un secondo muro, rappresentato dall'autostrada, di fatto insuperabile dai palestinesi. Le condotte di Macarot invece attraversano i confini, pescano l'acqua in Palestina, ma i rubinetti stanno in Israele. Anche l'acqua di fogna ripassa il confine, a pagamento, perché Tulkarem ha in teoria un impianto di depurazione, progettato da ditte tedesche, sostenute dal loro governo, ma è bloccato da 10 anni. Cosa poi in Israele avvenga dell'acqua spedita in Palestina e ricevuta indietro per il trattamento, non è dato sapere. C'è una fabbrica chimica israeliana, Gishury, a Tulkarem. È di qua del Muro perché di là, giustamente, gli ambientalisti israeliani non ne volevano più sapere per l'inquinamento e gli odori malsani. I lavoratori sono sempre gli stessi, palestinesi. Quando cambia il vento e spingerebbe i fumi verso Israele e il mare, la fabbrica sospende la produzione.

Guglielmo Ragozzino

il manifesto 16 settembre 2011