Se tutti scoprissero la fin dell'Islanda...

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著者: retecosenza
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題目: Se tutti scoprissero la fin dell'Islanda...







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Islanda,
              quando il popolo sconfigge l’economia globale! Cosa
              accadrebbe se
              lo scoprissero tutti? di Andrea Degl’Innocenti

12
        settembre
        2011

Una
        rivoluzione silenziosa è quella che ha portato gli islandesi a
        ribellarsi ai meccanismi della finanza globale e a redigere
        un’altra
        costituzione

Oggi
        vogliamo raccontarvi una storia, il perché lo si capirà dopo. Di
        quelle storie che nessuno racconta a gran voce, che vengono
        piuttosto
        sussurrate di bocca in orecchio, al massimo narrate davanti ad
        una
        tavola imbandita o inviate per e-mail ai propri amici. È la
        storia
        di una delle nazioni più ricche al mondo, che ha affrontato la
        crisi
        peggiore mai piombata addosso ad un paese industrializzato e ne
        è
        uscita nel migliore dei modi.

        L’Islanda. Già, proprio quel
        paese che in pochi sanno dove stia esattamente, noto alla
        cronaca per
        vulcani dai nomi impronunciabili che con i loro sbuffi bianchi
        sono
        in grado di congelare il traffico aereo di un intero emisfero,
        ha
        dato il via ad un’eruzione ben più significativa, seppur molto
        meno conosciuta. Un’esplosione democratica che terrorizza i
        poteri
        economici e le banche di tutto il mondo, che porta con se
        messaggi
        rivoluzionari: di democrazia diretta, autodeterminazione
        finanziaria,
        annullamento del sistema del debito.

        Ma procediamo con ordine.
        L’Islanda è un’isola di sole di 320mila anime – il paese
        europeo meno popolato se si escludono i micro-stati – privo di
        esercito. Una città come Bari spalmata su un territorio vasto
        100mila chilometri quadrati, un terzo dell’intera Italia,
        situato
        un poco a sud dell’immensa Groenlandia.

        15 anni di crescita
        economica avevano fatto dell’Islanda uno dei paesi più ricchi
        del
        mondo. Ma su quali basi poggiava questa ricchezza? Il modello di
        ‘neoliberismo puro’ applicato nel paese che ne aveva consentito
        il rapido sviluppo avrebbe ben presto presentato il conto. Nel
        2003
        tutte le banche del paese erano state privatizzate
        completamente. Da
        allora esse avevano fatto di tutto per attirare gli investimenti
        stranieri, adottando la tecnica dei conti online, che riducevano
        al
        minimo i costi di gestione e permettevano di applicare tassi di
        interesse piuttosto alti. IceSave, si chiamava il conto, una
        sorta
        del nostrano Conto Arancio. Moltissimi stranieri, soprattutto
        inglesi
        e olandesi vi avevano depositato i propri risparmi.

La
        Landsbanki fu la prima banca a crollare e ad essere
        nazionalizzata in
        seguito al tracollo del conto IceSave. Così, se da un lato
        crescevano gli investimenti, dall’altro aumentava il debito
        estero
        delle stesse banche. Nel 2003 era pari al 200 per cento del
        prodotto
        interno lordo islandese, quattro anni dopo, nel 2007, era
        arrivato al
        900 per cento. A dare il colpo definitivo ci pensò la crisi dei
        mercati finanziari del 2008. Le tre principali banche del paese,
        la
        Landsbanki, la Kaupthing e la Glitnir, caddero in fallimento e
        vennero nazionalizzate; il crollo della corona sull’euro – che
        perse in breve l’85 per cento – non fece altro che decuplicare
        l’entità del loro debito insoluto. Alla fine dell’anno il paese
        venne dichiarato in bancarotta.

Il
        Primo Ministro conservatore Geir Haarde, alla guida della
        coalizione
        Social-Democratica che governava il paese, chiese l’aiuto del
        Fondo
        Monetario Internazionale, che accordò all’Islanda un prestito di
        2
        miliardi e 100 milioni di dollari, cui si aggiunsero altri 2
        miliardi
        e mezzo da parte di alcuni Paesi nordici. Intanto, le proteste
        ed il
        malcontento della popolazione

        aumentavano.

A
        gennaio, un presidio prolungato davanti al parlamento portò alle
        dimissioni del governo. Nel frattempo i potentati finanziari
        internazionali spingevano perché fossero adottate misure
        drastiche.
        Il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea proponevano
        allo stato islandese di di farsi carico del debito insoluto
        delle
        banche, socializzandolo. Vale a dire spalmandolo sulla
        popolazione.
        Era l’unico modo, a detta loro, per riuscire a rimborsare il
        debito
        ai creditori, in particolar modo a Olanda ed Inghilterra, che
        già si
        erano fatti
carico di
        rimborsare i propri cittadini.

Il
        nuovo governo, eletto con elezioni anticipate ad aprile 2009,
        era una
        coalizione di sinistra che, pur condannando il modello
        neoliberista
        fin lì prevalente, cedette da subito alle richieste della
        comunità
        economica internazionale: con una apposita manovra di
        salvataggio
        venne proposta la restituzione dei debiti attraverso il
        pagamento di
        3 miliardi e mezzo di euro complessivi, suddivisi fra tutte le
        famiglie islandesi lungo un periodo di 15 anni e con un
        interesse del
        5,5 per cento.

I
        cittadini islandesi non erano disposti ad accettare le misure
        imposte
        per il pagamento del debito. Si trattava di circa 100 euro al
        mese a
        persona, che ogni cittadino della nazione avrebbe dovuto pagare
        per
        15 anni; un totale di 18mila euro a testa per risarcire un
        debito
        contratto da un privato nei confronti di altri. Einars Már
        Gudmundsson, un romanziere islandese, ha recentemente affermato
        che
        quando avvenne il crack, “gli utili [delle banche, ndr] sono
        stati
        privatizzati ma le perdite sono state nazionalizzate”. Per i
        cittadini d’Islanda era decisamente troppo.

Fu
        qui che qualcosa si ruppe. E qualcos’altro invece si riaggiustò.
        Si ruppe l’idea che il debito fosse un’entità sovrana, in nome
        della quale era sacrificabile un’intera nazione. Che i cittadini
        dovessero pagare per gli errori commessi da un manipoli di
        banchieri
        e finanzieri. Si riaggiustò d’un tratto il rapporto con le
        istituzioni, che di fronte alla protesta generalizzata decisero
        finalmente di stare dalla parte di coloro che erano tenuti a
        rappresentare.

        Accadde che il capo dello Stato, Ólafur Ragnar
        Grímsson, si rifiutò di ratificare la legge che faceva ricadere
        tutto il peso della crisi sulle spalle dei cittadini e indisse,
        su
        richiesta di questi ultimi, un referendum, di modo che questi si
        potessero esprimere.

        La comunità internazionale aumentò allora
        la propria pressione sullo stato islandese. Olanda ed
        Inghilterra
        minacciarono pesanti ritorsioni, arrivando a paventare
        l’isolamento
        dell’Islanda. I grandi banchieri di queste due nazioni usarono
        il
        loro potere ricattare il popolo che si apprestava a votare. Nel
        caso
        in cui il referendum fosse passato, si diceva, verrà impedito
        ogni
        aiuto da parte del Fmi, bloccato il prestito precedentemente
        concesso. Il governo inglese arrivò a dichiarare che avrebbe
        adottato contro l’Islanda le classiche misure antiterrorismo: il
        congelamento dei risparmi e dei conti in banca degli islandesi.
        “Ci
        è stato detto che se rifiutiamo le condizioni, saremo la Cuba
        del
        nord – ha continuato Grímsson nell’intervista – ma se
        accettiamo, saremo l’Haiti del nord”.

I
        Cittadini islandesi hanno votato per eleggere i membri del
        Consiglio
        costituente

A
        marzo 2010, il referendum venne stravinto, con il 93 per cento
        delle
        preferenze, da chi sosteneva che il debito non dovesse essere
        pagato
        dai cittadini. Le ritorsioni non si fecero attendere: il Fmi
        congelò
        immediatamente il prestito concesso. Ma la rivoluzione non si
        fermò.
        Nel frattempo, infatti, il governo – incalzato dalla folla
        inferocita – si era mosso per indagare le responsabilità civili
        e
        penali del crollo finanziario. L’Interpool emise un ordine
        internazionale di arresto contro l’ex-Presidente della
        Kaupthing,
        Sigurdur Einarsson. Gli altri banchieri implicati nella vicenda
        abbandonarono in fretta l’Islanda.

        In questo clima concitato si
        decise di creare ex novo una costituzione islandese, che
        sottraesse
        il paese allo strapotere dei banchieri internazionali e del
        denaro
        virtuale. Quella vecchia risaliva a quando il paese aveva
        ottenuto
        l’indipendenza dalla Danimarca, ed era praticamente identica a
        quella danese eccezion fatta per degli aggiustamenti marginali
        (come
        inserire la parola ‘presidente’ al posto di ‘re’).

        Per la
        nuova carta si scelse un metodo innovativo. Venne eletta
        un’assemblea
        costituente composta da 25 cittadini. Questi furono scelti,
        tramite
        regolari elezioni, da una base di 522 che avevano presentato la
        candidatura. Per candidarsi era necessario essere maggiorenni,
        avere
        l’appoggio di almeno 30 persone ed essere liberi dalla tessera
        di
        un qualsiasi partito.

Ma
        la vera novità è stato il modo in cui è stata redatta la magna
        charta. “Io credo – ha detto Thorvaldur Gylfason, un membro del
        Consiglio costituente – che questa sia la prima volta in cui una
        costituzione viene abbozzata principalmente in Internet”.

L’Islanda
        ha riaffermato il principio per cui la volontà del popolo
        sovrano
        deve prevalere su qualsiasi accordo o pretesa internazionale

Chiunque
        poteva seguire i progressi della costituzione davanti ai propri
        occhi. Le riunioni del Consiglio erano trasmesse in streaming
        online
        e chiunque poteva commentare le bozze e lanciare da casa le
        proprie
        proposte. Veniva così ribaltato il concetto per cui le basi di
        una
        nazione vanno poste in stanze buie e segrete, per mano di pochi
        saggi. La costituzione scaturita da questo processo partecipato
        di
        democrazia diretta verrà sottoposta al vaglio del parlamento
        immediatamente dopo le prossime elezioni.

        Ed eccoci così arrivati
        ad oggi. Con l’Islanda che si sta riprendendo dalla terribile
        crisi
        economica e lo sta facendo in modo del tutto opposto a quello
        che
        viene generalmente propagandato come inevitabile. Niente
        salvataggi
        da parte di Bce o Fmi, niente cessione della propria sovranità a
        nazioni straniere, ma piuttosto un percorso di riappropriazione
        dei
        diritti e della partecipazione.

Lo
        sappiano i cittadini greci, cui è stato detto che la svendita
        del
        settore pubblico era l’unica soluzione. E lo tengano a mente
        anche
        quelli portoghesi, spagnoli ed italiani. In Islanda è stato
        riaffermato un principio fondamentale: è la volontà del popolo
        sovrano a determinare le sorti di una nazione, e questa deve
        prevalere su qualsiasi accordo o pretesa internazionale. Per
        questo
        nessuno racconta a gran voce la storia islandese. Cosa
        accadrebbe se
        lo scoprissero tutti?