Autore: Antonio Bruno Data: To: veritagiustiziagenova, forumsege, forumsociale-ponge, Mailing list del Forum sociale di Genova, versogenovaluglio2011, fori-sociali Oggetto: [NuovoLab] Decennale G8 Il manifesto 23 luglio
di Eleonora Martini
POLIZIA L'accusa di Claudio Giardullo, segretario generale del sindaco Silp Cgil
«La mattanza del G8 Fu una scelta politica»
DIECI ANNI DOPO. Tra imponenti misure di «sicurezza» la città si prepara al corteo conclusivo di oggi. Attese almeno dieci mila persone. Avvocati e giuristi riflettono sui diritti democratici violati
Claudio Giardullo, segretario generale del Silp Cgil, non rappresenta certo quella parte del corpo della Polizia di Stato che davanti all'evidente violazione dei diritti costituzionali che si consumò nelle giornate di Genova reagì con atteggiamenti corporativi o addirittura omertosi. Crede in una polizia democratica e trasparente, Giardullo, anche se col manifesto, sul tema, non sempre è d'accordo.
Fin qui nessuno ha chiesto scusa per le violenze commesse a Genova dalle forze dell'ordine, nemmeno di quelle confermate da una verità processuale.
Ancora non definitiva.
Certo, anche se esiste una verità storica ormai acquisita. Lei non crede che ci siano stati degli abusi da parte di alcuni suoi colleghi?
Ci sono stati dei comportamenti inaccettabili e noi da subito abbiamo detto «chi ha sbagliato paghi fino in fondo». Immediatamente dopo il G8 di Genova noi della Silp Cgil chiedemmo ed ottenemmo un incontro col Social Forum perché era chiaro che si stava consumando il tentativo di alcune forze conservatrici del Paese di creare un solco incolmabile tra la società civile e le forze di polizia, e tra la polizia e la magistratura. Insieme ribadimmo la nostra contrarietà all'uso della violenza come strumento di lotta politica e la nostra volontà di ottenere giustizia.
E allora, le scuse sono superflue?
In questi dieci anni è stato riconosciuto il fatto che a Genova si è aperta una delle peggiori ferite nella storia recente di questo Paese. Noi ne abbiamo preso coscienza subito ma abbiamo rifiutato ogni generalizzazione, inaccettabile perché la stragrande maggioranza dei poliziotti lavora - e perfino a Genova ha lavorato - nel rispetto della legge e dei diritti dei cittadini. Chi ha sbagliato paghi. Però c'è un aspetto ancora troppo poco approfondito e cioè con quali intenzioni politiche siamo andati a Genova.
Un indizio fu la presenza, durante il summit, dell'allora vice premier Gianfranco Fini nella sala operativa della questura.
Sì, ma soprattutto c'era il capo del governo che ancora aveva l'incubo del '94, cioè di una spallata di piazza - che all'epoca riguardava le pensioni - che costrinse Berlusconi a dimettersi. Per cui io ritengo che sia fondata la tesi secondo la quale a Genova si voleva delegittimare la piazza e nell'autunno che si prospettava caldo si voleva mandare un messaggio ai moderati dicendo «tenetevi lontano dalla piazza».
Un modello di gestione dell'ordine pubblico che è tutto politico. Ma, seppure Genova rappresenti una delle peggiori cadute di credibilità di certe istituzioni, non è stato l'unico caso.
Le ricordo che il modello di ordine pubblico che è stato adottato nel successivo G8 di Firenze, che non è solo tecnico ma è soprattutto politico, fu di segno opposto. Ed è quello che noi vorremmo adottare sempre: fondato sulla prevenzione, sul rapporto con gli organizzatori delle manifestazioni, sull'uso limitato e governato della forza - una forza che si sappia moderare - e nessuna esibizione muscolare. Ci vuole formazione, perché naturalmente ci deve essere sempre il rispetto della legge, e un più stretto rapporto tra società civile e forze di polizia.
Perché invece della sospensione o della rimozione dal servizio degli imputati o dei condannati come richiedono i parametri internazionali, abbiamo assistito a conferme di cariche se non a promozioni? Non sarebbe stato un segnale importante per separare le cosiddette «mele marce»?
La cosa è più complessa: se si è garantisti lo si deve essere a 360 gradi e non si possono confondere il rispetto delle leggi in senso stretto con aspetti di opportunità politica. I governi che si sono succeduti in questi dieci anni hanno scelto di non intervenire in nessuno modo prima della verità processuale definitiva. Non è una questione di rispetto delle leggi ma di scelta politica.
In alcuni casi i reati sono già andati in prescrizione, in altri come per l'uccisione di Carlo Giuliani non c'è mai stato un dibattimento pubblico.
Quello della giustizia è uno dei problemi centrali del nostro Paese e non riguarda solo gli operatori di polizia. Guardarlo solo con la lente del G8 di Genova significa dimenticare che in questo Paese chi ha responsabilità istituzionali ben maggiori, a qualunque livello, spesso non arriva a sentenza e a giudizio. Noi della Silp-Cgil abbiamo fiducia nella magistratura e siamo certi che si arriverà a giustizia.
Ma come si fa a far pagare chi sbaglia se, differentemente da ogni comune cittadino, è impossibile l'identificazione degli agenti, soprattutto se in tenuta antisommossa. Lei sarebbe favorevole, per esempio, all'introduzione del codice alfanumerico sulla divisa per una maggiore trasparenza?
No, e le spiego perché. Bisogna sicuramente rendere più certe le procedure di identificazione successiva, attraverso i corpi di appartenenza. Invece col codice alfanumerico si rischia, in un paese come l'Italia dove esistono anche contesti particolarmente insidiosi e violenti, di aumentare il rischio del singolo operatore che a torto o a ragione potrebbe essere individuato e essere sottoposto a un attacco aggressivo o violento. E se si espone il singolo poliziotto a più rischi di quanto non si possa legittimamente chiedergli, si alza il livello dello scontro. Ma se dico no al codice di identificazione, dico anche no ai proiettili di gomma e all'uso del Cs, il gas contenuto nei lacrimogeni, che è tossico per la salute di tutti, dei cittadini e degli operatori.
Lei sarebbe favorevole all'introduzione del reato di tortura come prevede il diritto internazionale?
C'è un'alternativa possibile a questa strada, che io considero solo formale, ideologica e di pancia. L'introduzione del reato di tortura sarebbe solo un messaggio di sfiducia alle forze di polizia che secondo tutte le statistiche godono da parte degli italiani di una fiducia seconda solo a quella del capo dello Stato. E allora non mi sembra assolutamente necessario introdurre un nuovo reato per evitare che in singole e rare occasioni accadano purtroppo cose che non dovrebbero accadere.
Ma anche se fosse in un'unica occasione, non sarebbe uno strumento utile anche per voi?
Non sarà certo il reato ad impedirla, quell'occasione. Io sono del parere che si debbano inasprire le norme solo se c'è un fenomeno sociale di una certa dimensione. Preferisco invece l'altra strada, che aiuti a superare le imposizioni politiche del singolo governo: quella della trasparenza, della formazione e del controllo anche da parte del Parlamento e non soltanto da parte dell'esecutivo. E, aggiungo, non capisco perché la polizia non debba avere un codice etico e di deontologia professionale. Si dica con chiarezza quali comportamenti il cittadino si può legittimamente aspettare da un agente che stia in una piazza, in un ufficio o in un carcere. Ci si dica con quali strumenti dobbiamo operare; quali investimenti, quale formazione, a quali valori si ispirano le forze dell'ordine. Anche questi sono dettami internazionali, eppure nel nostro Paese non ce n'è traccia. Questa è la strada da seguire, e non quella della minaccia, dell'aggravamento delle norme che servono semplicemente a dare la sensazione di aver risolto il problema. Mentre poi, nella realtà quotidiana, la polizia democratica è senza strumenti.
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di Alessandra Fava - GENOVA
REPRESSIONE
Manifestanti o nemici dello stato? Avvocati a convegno
Il manifestante pacifico che diventa un criminale, spazi pubblici prima agibili ora vietati alle manifestazioni e la progressiva criminalizzazione delle proteste specie se di una presunta minoranza (dittatura della maggioranza è un termine di De Toqueville - 1835) sono fenomeni che subiamo, spesso inconsciamente, nel quotidiano. In Spagna come in Francia, in Italia come in Grecia, nei Paesi baschi o a Londra come in Svizzera, in questi dieci anni c'è stata un progressivo restringimento dei diritti democratici. Ci hanno ragionato su, decine di avvocati europei ieri in un partecipato dibattito internazionale, organizzato dall'Associazione europea dei giuristi per la democrazia e i diritti umani nel mondo (Eldh), il Legal team italiano e dagli Avvocati europei democratici (Aed), col comitato Genova2011, in occasione del decennale dal G8 genovese. Titolo: «Dieci anni di attacchi ai diritti fondamentali: il ruolo degli avvocati».
Tutti erano d'accordo che Genova 2001 è stata la palestra di questa repressione. «Già allora fu definita una zona rossa dove non si poteva manifestare - ha detto il legale italiano Ezio Menzione - così oggi sono stati vietati alle manifestazioni i luoghi vicino ai centri di conferimento dei rifiuti o alla centrali nucleari». Il diritto alla difesa, da Bolzaneto in poi, non è più un diritto acquisito dal fermato. Lo hanno confermato avvocati francesi, spagnoli e inglesi su situazioni locali meno conosciute. «A Genova c'è stata la prova di una guerra globale permanente», dice Jaume Asens dell'associazione catalana per la difesa dei diritti umani che racconta che anche a Barcellona hanno messo in piedi un Legal team «per difendere manifestanti tramutati in contestatori, violenti, soggetti antisociali, pur di negare la violenza del sistema che colpisce milioni di lavoratori».
Ma gli aspetti preoccupanti della limitazione dei diritti dettata dal neoliberismo tocca anche il mondo del lavoro con l'erosione del diritto allo sciopero, contrattazioni sempre meno collettive e il diritto all'asilo per i profughi, «questi tre aspetti sono segnali della nascita di uno stato d'emergenza, lo stesso decretato alla nascita del nazismo in Germania», ha detto il segretario generale di Eldh, il tedesco Thomas Schmidt. Per non parlare della libertà di circolazione nella Ue, del restringimento della possibilità di immigrazione e infine della privacy. «Bisogna monitorare i diritti strumentali, come la libertà di pensiero, di coscienza, di riunione/associazione/stampa e il diritto a protestare in luoghi pubblici anche se dobbiamo convincerci che il problema è la loro difesa quotidiana - dice la docente universitaria di procedura penale europea e sovrannazionale e diritto penitenziario alla Bicocca di Milano, Silvia Buzzelli - C'è un attacco costante ai diritti elementari alla privacy, mascherati con termini tecnici come body scanner, sistema satellitare ed etichette Rfid (etichette di identificazione a radio frequenza, ndr) grazie ai quali si arriva a un schedatura elettronica di massa». In pratica grazie a quello che viene chiamato "biocapitalismo" un mega-cervello globale scheda tutti e introduce sofisticati marchingegni nel nostro armadio (si è tentato di infilare le Rfid nei vestiti) per monitorare persino le nostre emozioni.
L'invito è scrollarci di dosso tutto questo: «Dobbiamo uscire da questa società carceraria che criminalizza l'indigenza», è il consiglio di Jean Jacques Gandini del sindacato degli avvocati francesi. «I diritti non ci cadono dal cielo, vanno costruiti con pazienza giorno per giorno», dice lo spagnolo Asens.
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di Anna Pizzo
GENOVA + 10
Strumenti del mestiere
Radio Popolare gira per le sale degli incontri e per le strade di Genova ponendo a cittadini e ospiti domande del tipo: «Come giudica le iniziative per ricordare quel che accadde a Genova dieci anni fa?». Oppure: «Cosa è cambiato da allora a oggi?». Domande semplici, non peregrine.
A noi, che dieci anni fa eravamo responsabili del "media center" alla scuola Pertini e alla Diaz, hanno chiesto cosa è cambiato in quel progetto di comunicazione indipendente che allora fu alla base di un tentativo (forse il primo, nel nostro Paese, di tale ampiezza) di spazzar via, anche se per poco, liturgie e vizi dell'informazione. In parte l'esperimento riuscì e in parte no.
Vorrei spiegarmi con un esempio, anche se avevo giurato di non indulgere in nostalgie: quando, a nome del Genoa Social Forum, dovetti prendere possesso delle chiavi delle due scuole, che sarebbero diventate il "media center", arrivati alla Diaz, che era di competenza della provincia, un gentile funzionario e un paio di dipendenti provinciali mi consegnarono le chiavi non senza prima farmi fare un giro nella scuola per verificare lo stato in cui ce la affidavano. Poiché c'erano lavori di ristrutturazione in corso (sospesi per l'occasione), in un paio di sgabuzzini vennero ammassati i picconi, i badili e i grossi martelli degli operai e mi venne precisato che le chiavi degli sgabuzzini non ci venivano consegnate perché quelle porte non dovevano essere aperte. Un po' per scherzo e un po' per prudenza, chiesi loro se non fosse meglio far portare via quei materiali perché non vorrei, dissi, che un domani qualcuno possa dire che li ha portati dentro qualcuno di noi. «Ma cosa dice, dottoressa - mi rispose il cortese funzionario - è evidente che si tratta di strumenti di lavoro». Il 22 luglio alle ore 12, a poche ore dalla macelleria che si era consumata in quella scuola - centinaia di persone pestate, molte in gravissime condizioni, 93 i fermati e portati a Bolzaneto e, lì, ancora seviziati - nel corso della conferenza stampa in Questura, sapete cosa c'era bene in vista su un tavolo, mostrate come prove del fatto che la Diaz era un «covo» , sotto i flash di fotografi e giornalisti di tutto il mondo? C'erano un po' di zaini, qualche passamontagna, due bottiglie molotov (le stesse che sono costate la falsa testimonianza all'allora capo della Digos, Spartaco Mortola) e, ben allineati, i picconi, i martelloni e i badili degli operai che lavoravano alla Diaz.
Queste stesse cose le ho riferite nel corso di un paio di processi nei quali sono stata chiamata a testimoniare. Le voglio ricordare a proposito dell'informazione indipendente che a Genova si è mostrata per la prima volta e senza la quale, forse, alcuni processi non avrebbero portato agli esiti che conosciamo. La "nostra" informazione, a Genova, ha rovesciato uno dei "dogmi" di questo mestiere che vuole il giornalista geloso delle proprie fonti e delle notizie che riesce a scovare, sulle quali costruisce la "propria" informazione nonché la carriera.
Tutto questo è durato fino a quando la politica-spettacolo di Berlusconi non ha "convinto" anche l'informazione a far parte integrante del circo. Da allora in poi tutto sembrò perduto e gli spazi di libera informazione quasi del tutto chiusi. Di recente, invece, è accaduto un fatto che ha del miracoloso: la vittoria nei referendum, ottenuta senza alcun sostegno dei media, senza uno straccio di "par condicio" nelle televisioni e nella stampa. Ma grazie al passaparola, a internet, alla convinta partecipazione e all'immaginazione dei cittadini e ai social network. Ora sono in molti a pensare che ce la si può fare, a vincere anche senza i media.
Eppure non mi rassegno, anche il cittadino-giornalista ce la può fare.