Autor: Antonio Bruno Data: A: veritagiustiziagenova, Mailing list del Forum sociale di Genova, forumsege, forumsociale-ponge, fori-sociali, versogenovaluglio2011 Assumpte: [NuovoLab] Decennale G8 Il manifesto 21 luglio
PIAZZA ALIMONDA - In centinaia per ricordare l'uccisione del giovane no global genovese. Insieme ai genitori, le testimonianze di don Gallo e don Ciotti. Stasera la fiaccolata fino alla scuola Diaz
Una piazza per Carlo
Un lungo applauso alle 17.27, ora dell'uccisione. Una targa d'ottone «Carlo Giuliani, ragazzo». Oggi, dieci anni fa
Il luogo del delitto, dieci anni dopo, è una piazza molto più piccola di quella che s'immagina guardando le foto. Invaso di ragazzi di molte età, impenitenti anche a costo di passare per ripetitivi. Ci sono luoghi del delitto che diventano addirittura punti di interesse turistico. Piazza Alimonda no, anche se qualche tentazione si nota. Semmai un posto dove riconnettere movimento passato e vagiti di quello futuro, rivolte in corso e altre nell'incubatrice.
L'appuntamento clou della giornata è ovviamente qui, nel giorno del decimo anniversario della morte di Carlo Giuliani. Una folla composta soprattutto di amici, sindacalisti, personaggi noti del movimento, non una folla oceanica. Ma è solo adesso che sembra arrivare a conclusione un tormentone che si è trascinato negli anni. A ogni anniversario amici e compagni cercavano di collocare un cippo commemorativo, grosso modo corrispondente alla modifica della targa della piazza («Carlo Giuliani, ragazzo. 20 luglio 2001», scritto con il pennarello blu). Ogni volta dal comune di Genova arrivata un cortese «niet» giustificato con la consuetudine di dedicare vie soltanto a personaggi deceduti da almeno 10 anni.
Ieri, infine, anche grazie ai «carrarini» che hanno messo a disposizione la loro competenza nel marmo, un cippo con quella scritta è stato messo nell'aiuola al centro della piazza. Stavolta, però, anche con l'intervento degli operai del Comune, che hanno installato la base su cui montarlo. Insomma, stavolta dovrebbe essere definitivo. Il primo fiore vi è stato deposto per mano della madre di Renato Biagetti, ucciso a 26 anni a Focene, sul litorale romano, da assassini rimasti sconosciuti; probabilmente fascisti, secondo le testimonianze di altri due ragazzi che erano con lui, rimasti feriti. È stata un'iniziativa delle «Reti invisibili», associazione dei familiari di ragazzi uccisi negli scontri di piazza, oppure per mano della polizia, senza che i colpevoli siano mai stati identificati.
In vista del corteo di sabato, intanto, si moltiplicano le iniziative di «pacificazione». Lo ha detto anche il prefetto, anche se sul capoluogo genovese è stata fatta calare una quantità di truppe decisamente eccessiva: il Viminale avrebbe disposto l'invio di circa 120 unità al giorno da oggi fino al 23 luglio; quel giorno in città arriveranno comunque altre 400 unità tra polizia, carabinieri e guardia di finanza. Non proprio un segnale di «distensione».
La sindaco di Genova, Marta Vincenzi, ha conferito la cittadinanza onoraria a Mark Covell, giornalista inglese picchiato dalle forze dell'ordine che intervennero alla scuola Diaz fino ad essere mandato in coma. All'invito della Vincenzi di tornare spesso a Genova Covell ha risposto positivamente, proponendo a sua volta un incontro in Comune con le vittime del G8 di Genova 2001. Al termine di questa cerimonia, Armando Cestaro - l'uomo che era all'ingresso della Diaz al momento dell'irruzione della polizia e che subì la frattura di un braccio e di una gamba, ha dato sfogo alla sua indignazione gridando «dieci anni sono occorsi per cambiare un po' d'aria in questo paese». Ottimista, comunque.
La giornata è poi proseguita in piazza e in altre decine di iniziative. Per don Luigi Ciotti, intervenuto in piazza Alimonda, stato e istituzioni «devono fare la loro parte fino in fondo. Esclusione, povertà, disagio sono sotto gli occhi di tutti e sono aumentati. Come ieri, le parole di quel G8 fatte di tante promesse che non sono state realizzate».
Ma l'uomo più rispettato della piazza è stato ancora una volta don Andrea Gallo, storico fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto. «Ci vuole una rivoluzione culturale, una svolta epocale». Naturalmente tramite «la scelta della non violenza, però attiva». «Questa è la nostra forza, la sinergia tra i movimenti. Questo è un cammino di liberazione e la bussola per i cristiani è il Vangelo e per tutti la Costituzione repubblicana». Chissà perché, quando è lui a pronunciare frasi spesso logorate dall'uso e dall'ipocrisia, suonano sincere...
Naturalmente protagonisti assoluti dell'affetto di tutti sono stati i genitori di Carlo. Per Giuliano, padrone del palco, la sinistra «deve uscire dal letargo» e «raccogliere le istanze dei giovani». Più riservata Heidi, che ha dovuto comunque stringere migliaia di mani e ricevere migliaia di baci.
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«Il G8 di Genova? Sembra Tunisi Ma da noi la violenza è quotidiana»
Una blogger da Gaza: non pensavamo di vedere scene del genere in Italia
Sarà un caso, ma i «mediterranei» che hanno attraversato la mostra fotografica sugli eventi del 2001 si sono sentiti immediatamente a casa. Quei gruppi di giovani che corrono tra il fumo dei lacrimogeni e della polvere, a torso nudo o in canottiera, quel gesto di lanciare un sasso davanti ai fucili spianati, questi scudi e quegli elmetti da robocop, il sole e il sangue sull'asfalto; quella è la loro quotidianeità.
Majd Abusalama, giovane e altissima blogger palestinese di Gaza, ha visto «tante foto chi mi hanno colpita nel profondo; non riuscivo a credere che anche in Italia accadono cose del genere». E soprattutto «Carlo è come tanti ragazzi palestinesi che così spesso vengono uccisi dall'esercito israeliano». Ma le immagini rimandano anche a una condizione. «Anche a Gaza per noi è difficile ottenere qualcosa in risposta ai nostri bisogni; quando ci opponiamo in modo pacifico, portando bandiere palestinesi e bianche, i soldati israeliani non raccolgono il messaggio e sparano». Una costrizione che introverte spesso anche le tensioni: «Manifestando contro l'occupazione abbiamo fatto una piccola rivoluzione superando la divisione tra Hamas e Fatah; ma c'è stato qualche caso in cui è stata la polizia di Hamas a intervenire, eppure noi chedevamo solo unità».
Impossibile non cogliere le analogie. Walid Kaabi, delegato sindacale in una fabbrica metalmeccanica in Tunisia, sente «la stessa atmosfera di Tunisi, quando partecipiamo alle tante assemblee contro il governo, sotto il ministero dell'interno». Qui a Genova però vede almeno una differenza: «Oggi non ci sono aggressioni da parte della polizia, da noi quasi sempre». Ma anche se c'è distanza di tempo e spazio, «Carlo lo vedo come un militante della rivoluzione tunisina». La narrazione della repressione di un movimento di massa sembra sempre uguale. Eppure, parlando con questi e altri ragazzi ora in piazza Alimonda, si vede meglio la novità rivelatasi dieci anni fa. Guardi il muraglione della ferrovia su via Tolemaide, a 50 metri. Rivedi quella fiumana che scendeva ancora pacifica lungo la strada e che viene attaccata da tutti i lati da polizia, carabinieri, finanza. Come fa un esercito d'occupazione o di una dittatura polverosa che non vuole andarsene.
Lì, dieci anni fa, come pochi mesi prima a Napoli (una sorta di «prova tecnica», condotta quando però a Palazzo Chigi c'era ancora il centrosinistra), per la prima volta un corteo veniva caricato senza lasciare la consueta «via di fuga». Che è una regola di mantenimento dell'ordine pubblico, non un «regalo» ai manifestanti. Si dà loro la possibilità di fuggire per «decongestionare» la presenza in piazza, «scremare» la parte più convinta da quella che si spaventa prima, riprendere il controllo del terreno. La politica più antica del mondo. Se invece si «chiude la tonnara» - come avvenne a via Tolemaide - è inevitabile che la semplice compressione dei corpi generi una reazione, magari a metà strada tra il panico, la rabbia e la disperazione. Sembra di vederlo quel blocco di manifestanti riuscire a sfondare i cordoni di polizia in direzione di questa piccola e tranquilla piazza. Il resto lo si è visto fin troppe volte nelle immagini.
Questi «mediterranei» riconoscono anche questa modalità repressiva, la provano sulla propria pelle tutti i giorni. Dittatura e occupanti guardano alla protesta come il venire allo scoperto di un nemico mortale, non di un malessere sociale; una presenza «aliena», non un sussulto del proprio stesso popolo. Il messaggio che l'attacco in stile militare al corteo vuole in questo caso lanciare non è «state a casa» oppure «smettete di opporvi», ma «voi non dovete esistere». Che anche un paese democratico abbia ceduto (e, dalle promozioni concesse ai comandanti di piazza, non se n'è pentito) a questa prassi dovrebbe preoccupare tutti. O no?
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INTERVISTA - Aitor Balbas, basco, vittima del blitz alla scuola e di Bolzaneto. Ha denunciato tutto
«Eccoci, gli stranieri della Diaz»
«Oggi ci sono le condizioni per un nuovo movimento di protesta globale. I paesi arabi hanno ereditato le nostre battaglie di allora»
A piazza Alimonda arrivano anche gli stranieri. Sono i ragazzi della Diaz, quelli accusati di resistenza. Sono i ragazzi di Bolzaneto, torturati in un paese che credevano democratico. Tra di loro ci sono gli spagnoli di Saragozza, tra cui Aitor Balbas. 40 anni, laureato in geologia, oggi lavora in una ditta indipendente di produzione e distribuzione di documentari sociali. «Facciamo anche noi molte interviste», dice ridendo.
Come arrivò a Genova?
Sono venuto a Genova da Saragozza con un furgone, insieme ad altre 15 persone. Eravamo del Mrg, il movimento di resistenza globale che si era esteso man mano in varie città della penisola iberica. Facevo parte di un movimento sociale legato soprattutto alle realtà associative e prima di Genova andammo a Praga nel 2000. Io poi venivo dall'antimilitarismo, ho combattuto contro il servizio militare obbligatorio dal '93 al '96, fummo in 15 mila a disertare la leva e io mi feci anche un anno di carcere. Eravamo un grande movimento pacifista, chiedevamo la sostituzione del militare col servizio civile e con noi c'erano i sindacati, alcuni partiti. Finalmente il servizio fu abolito nel 2001. Il movimento antiglobalizzazione ha preso le pratiche, gli spunti e le idee del movimento antimilitarista, di quello femminista anti-patriarcale e di quello ecologista. E poi allora c'era un collegamento con movimenti dei paesi in via di sviluppo, come Via campesina.
Che speranze avevate venendo a Genova. Che cosa vi aspettavate?
Un ciclo politico si era aperto. Secondo me ereditava le pratiche del movimento zapatista che fu l'inizio di un certo uso dell'informazione, di un discorso che prestava alla sinistra una semantica rigenerata e sapeva proporre un'idea di esercito in maniera quasi sovversiva. Credo che per noi spagnoli in qualche modo chiudesse il ciclo aperto dalla morte di Franco nel '75. Per noi Genova era l'opportunità di una dimensione globale. Qui c'erano gli attori di tutta la protesta e sapevano superare i limiti dei partiti.
Lei dove è stato?
Ero alla Diaz, poi a Bolzaneto, poi nel carcere di Alessandria. In qualche modo per noi che stiamo nei paesi baschi (io sono di Pamplona anche se studiavo a Saragozza), non è eccezionale che uno stato occidentale sospenda i diritti democratici. Però vedere un atteggiamento simile a Genova mentre tutti gli obiettivi del mondo erano puntati fu un vero shock. Per me il potere non fu in grado di reagire al fatto che 300 mila persone protestassero in una città occidentale. Per loro fu una crisi. E lo stato italiano invece di affrontarla e garantire i diritti della gente, ci vietò con l'esercito di entrare nella zona rossa e ci attaccò. Poi penso che lo scopo di tutto fosse di rompere il movimento, facendo esplodere le contraddizioni rispetto alla reazione da tenere davanti alla violenza.
Quante volte è tornato a Genova?
Sono venuto sette volte per deporre ai processi e inizialmente per difendermi dalle accuse di resistenza, reato attribuito a tutti gli arrestati della Diaz.
Lei fu uno dei primi di Saragozza ad essere contattato dall'avvocato genovese Emanuele Tambuscio. Quelle denunce furono portate in Procura e così iniziarono le inchieste...
Appena tornati in Spagna andammo a denunciare tutto alla procura di Saragozza. Poi una volta qui a Genova facemmo una denuncia ancor più dettagliata. Ad esempio io raccontai che la cosa che mi impressionò maggiormente fu che, arrivato a Bolzaneto, vidi un ragazzo ammanettato a una sedia con in testa un cappuccio nero. È la stessa immagine che vidi anni dopo ad Abu Ghraib! E poi nel carcere di Alessandria, appena arrivato un compagno, Loren, si trovò davanti a un medico che gli fece alzare le braccia e gli tirò un pugno rompendogli una costola. Un medico! Rimasi veramente scioccato da quella scena. Lo shock peggiore dopo la morte di Giuliani.
Dieci anni dopo è di nuovo a piazza Alimonda. Che sensazioni ha?
Una sensazione di allegria. Ho incontrato tanti amici. Ho ritrovato italiani eccezionali e Genova m'incanta. E poi dieci anni dopo sono contento di vedere che qualcuno, oggi nei paesi arabi, ha ereditato le nostre proteste di allora. Stanno maturando nuovamente le condizioni per la creazione di un movimento di protesta globale, e questo mi rende felice.
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di Anna Pizzo
GENOVA +10
Nessuno ha chiesto scusa
«Un'onta sull'immagine della polizia, uno dei fatti più bui e gravi della nostra storia repubblicana», ha detto l'altra sera il presidente emerito della Corte costituzionale, Valerio Onida, in una solenne sala di Palazzo Ducale, a Genova davanti a un pubblico molto folto. Tema: le sentenze di appello contro i responsabili di ciò che avvenne, il 21 luglio del 2001, nella scuola Diaz, e nei giorni seguenti nella caserma di Bolzaneto. I fatti sono stati accertati da lunghe inchieste, ha spiegato Onida, e i responsabili individuati sopra ogni ragionevole dubbio. Però nessuno ha pagato, per ora, e forse, grazie al gioco perverso delle prescrizioni, nessuno pagherà. Anzi, per molti sono arrivate le promozioni. A cominciare dall'allora capo della polizia, Gianni De Gennaro. Sentite cosa recita la sentenza sulla Diaz in proposito: «La Corte ritiene di non obliterare la circostanza secondo cui vi è stata l'esplicita richiesta del capo della polizia» di fare quel che i poliziotti hanno fatto. Ancora Onida: «La polizia aveva organizzato una vera e propria spedizione punitiva alla Diaz per recuperare il presunto danno di immagine causato dalle violenze del giorno precedente». E ancora: «Sia a Bolzaneto che alla Diaz non si è trattato di individuare le responsabilità delle cosiddette 'mele marce' ma dell'intera istituzione». Tanto i giudici non hanno concesso le attenuanti generiche, dato che «non può che rimarcarsi la notevole gravità di tutori dell'ordine che si sono trasformati in violenti picchiatori... e l'enormità di tali fatti, che ha gettato discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero».
Le parole di Onida esprimono soddisfazione, anzi sollievo, per una verità finalmente svelata e al tempo stesso disgusto per le "falsificazioni", le "violenze del tutto ingiustificate", "gli arresti illegali", "le torture". Al punto da spingere Onida a fare ricorso alla Corte di Strasburgo per ottenere che finalmente anche in Italia venga introdotto il reato di tortura. Senza il quale viene violata la Costituzione, che all'articolo 13 sancisce l'inviolabilità della libertà personale e non ammette «forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge».
Genova è una pagina buia, dice Onida, che chiama in causa la politica e lo stato. Se la sentenza d'appello afferma che «il capo della polizia ha richiesto una operazione illegale per riscattare l'immagine del Corpo, può essere accolta una sentenza del genere senza reagire? Eppure - conclude il Presidente emerito - non un commento, non una presa di distanza. E questa è una colpa politica: è lo Stato a non aver funzionato».
Tra le pagine buie, ne resta una destinata a non trovare neppure un barlume di luce: è l'assassinio di Carlo Giuliani, e ieri molta gente lo ha ricordato per l'intero pomeriggio in piazza Alimonda. Pure, a distanza di tempo, anche i giudizi politici sembrano farsi più netti. Come quello dell'allora sindaco, Giuseppe Pericu, che al Secolo XIX ha detto che sui fatti della Diaz e di Bolzaneto «sarebbe bene che oggi lo Stato chiedesse scusa». Ma dove era lo Stato dieci anni fa e dov'era la politica? E potrà «l'onda lunga della democrazia insorgente» (era il titolo di un incontro di Democrazia km zero che si è tenuto ieri mattina), che ha preso la rincorsa dieci anni fa, violare l'omertà, il cinismo, con cui lo Stato ha sequestrato in una "zona rossa" la verità sul 2001?