DALL'AMERICA LATINA ALLA SPAGNA ATTRAVERSO I PAESI ARABI
LA GENTE TORNA NELLE PIAZZE. E' UNA RIVOLUZIONE ?
Il numero di ieri di Carta Major, il notiziario-blog del sociologo
brasiliano Emir Sader, rivoluzionario convertito al "lulismo", si interroga
sul perché la gente in varie parti del mondo è tornata nelle strade, o
meglio nelle piazze. E' una nuova rivoluzione? E se lo è, in quale senso lo
è? Le interpretazioni sono diverse, e delle più interessanti cercheremo di
darne notizia sul sito (
www.kanankil.it). Intanto vi proponiamo questa di
Raúl Zibechi, sociologo e giornalista uruguayano, uno dei maggiori studiosi
dei movimenti sociali latinoamericani, che ci sembra interessante.(A.Z.)
LE RIVOLUZIONI DELLA GENTE COMUNE
Raul Zibechi
7/06/2011 (traduzione italiana tratta dal sito di Carta:
www.carta.org)
Nei più diversi angoli del pianeta la gente comune sta uscendo nelle strade
e occupando le piazze. Si incontra con altra gente comune che non conosceva
e immediatamente riconosce. Non ha aspettato di essere convocata, è accorsa,
spinta dalla necessità di scoprirsi. Non ha calcolato le conseguenze delle
sue azioni, ha agito sulla base di ciò che sente, desidera e sogna. Siamo di
fronte a delle vere rivoluzioni, a cambiamenti profondi che non lasciano
nulla al proprio posto, malgrado los de arriba («quelli di sopra», ndt )
credano che tutto tornerà uguale quando le piazze e le strade avranno
recuperato, per un certo tempo, quel silenzio di piombo che chiamano
«normalità».
Il miglior modo di spiegare quel che sta succedendo resta, a mio modo di
vedere, un memorabile testo di Giovanni Arrighi, Terence Hopkins e Immanuel
Wallerstein: «1968: la grande prova», un capitolo del libro Antisystemic
mouvement. Quel testo, ispirato dallo sguardo lungo e profondo di Braudel,
si apre con un'affermazione insolita: «Ci sono state solo due rivoluzioni
mondiali. La prima nel 1848. La seconda nel 1968. Entrambe sono state un
fallimento storico. Entrambe hanno trasformato il mondo».
Subito dopo, i tre maestri del sistema-mondo affermano che il fatto che
entrambe le rivoluzioni non furono progettate e furono spontanee «nel senso
profondo del termine» spiega tanto il loro fallimento quanto la loro
capacità di cambiare il mondo. Dicono, inoltre, che il 1848 e il 1968 sono
date più importanti del 1789 e del 1917, con riferimento alle rivoluzioni
francese e russa. Esse furono appunto superate da quelle del 1848 e del
1968.
Il concetto ereditato e ancora egemonico di rivoluzione deve essere
rivisitato, lo è nei fatti. Di fronte a un'idea di rivoluzione centrata
esclusivamente nella conquista del potere statale, appare un'altra idea più
complessa, e soprattutto più integrale, che non esclude la strategia statale
ma la supera e la deborda. In ogni caso, la questione di conquistare il
timone dello Stato è un passaggio in un cammino molto più lungo alla ricerca
di qualcosa che non può darsi a partire dalle istituzioni statali: creare un
mondo nuovo.
Per creare un mondo nuovo, ciò che meno serve è la politica tradizionale,
ancorata alla figura della rappresentanza che consiste nel sostituire
soggetti collettivi con professionisti dell'amministrazione e dell'inganno.
Al contrario, un mondo nuovo e diverso da quello attuale comporta il provare
e lo sperimentare relazioni sociali orizzontali in spazi autonomi e
autogestiti, spazi sovrani dove nessuno impone e comanda il collettivo.
La frase chiave della citazione precedente è «spontanee nel senso profondo».
Come interpretare quella affermazione? Su questo punto bisogna accettare il
fatto che non c'è una razionalità, strumentale e centrata sullo Stato, ma
che ogni soggetto ha la sua razionalità, e tutti possiamo essere soggetti
nel momento in cui diciamo «Basta». Si tratta, allora, di comprendere le
razionalità altre, questione che solo si può dare dal di dentro e in
movimento, a partire dalla logica intrinseca che rivelano le azioni
collettive dei soggetti dell'abajo (del «sotto», ndt). Questo significa che
non si tratta di interpretare ma di partecipare.
Al di là delle diverse congiunture in cui sono sorti, i movimenti di Piazza
Tahrir al Cairo e della Puerta del Sol a Madrid sono parte di una stessa
genealogia, quella del «Que se vayan todos» della rivolta argentina del
2001, della guerra dell'acqua di Cochabamba nel 2000, delle due guerre del
gas boliviane del 2003 e del 2005, e della Comune di Oaxaca del 2006, per
citare solo i casi delle rivolte urbane. Ciò che hanno in comune quei
movimenti sono sostanzialmente due fatti: porre un freno a los de arriba e
farlo aprendo spazi di democrazia diretta e partecipazione collettiva senza
rappresentanti.
Questa strategia in due fasi, rifiuto e creazione, deborda dalla cultura
politica tradizionale ed egemonica nelle sinistre e nel movimento sindacale,
le quali contemplano solo parzialmente la prima fase: le manifestazioni
autogestite con obiettivi precisi e delimitati. Quella cultura politica ha
mostrato i suoi limiti, perfino come rifiuto di ciò che esiste, perché nel
momento in cui non deborda dall'alveo istituzionale è incapace di frenare
los de arriba e si limita a preparare il terreno per una staffetta tra le
squadre di governo senza cambiare politica. Quella cultura politica è stata
utile a spodestare le destre ma ha fallito alla prova di cambiare il mondo.
Le rivoluzioni in corso sono estuari dove sboccano e confluiscono fiumi e
ruscelli di ribellioni che percorrono lunghi cammini, alcuni dei quali
bevono nelle acque del 1968 ma le superano in profondità e densità. Sono
ribellioni che vengono da molto lontano, dall'alta montagna, per confluire
in modo impercettibile e capillare in altri alvei, a volte minuscoli, per
poi mescolare un bel giorno le proprie acque in un torrente dove nessuno si
domanda più da dove viene e che colori e segni di identità trascina.
Queste rivoluzioni sono il momento visibile, importante ma non fondante di
un lungo cammino sotterraneo. Per questo l'immagine della talpa è tanto
adeguata: un bel giorno fa un salto e si mostra, ma prima ha fatto un lungo
percorso sotto terra. Senza questo percorso non potrebbe in alcun modo
vedere la luce del giorno. Questo lungo andare sono le centinaia di piccole
iniziative che sono nate come spazi di resistenza, piccoli laboratori (come
quelli della fine degli anni Novanta a Lavapies, Madrid) dove si vive come
si vuole vivere e non come loro vorrebbero che vivessimo.
Voglio dire che i grandi fatti sono preceduti e preparati, provati come
segnala James Scott, da pratiche collettive che vivono lontane dall'attenzione
dei media e dei professionisti della politica. Lì dove i partecipanti si
sentono al sicuro e protetti dai propri simili. Ora che quelle migliaia di
microesperienze sono confluite in queste mareggiate di vita, è il momento di
festeggiare e sorridere, malgrado le inevitabili repressioni. Occorrerà
soprattutto non dimenticare, al momento del ritorno degli anni di piombo,
che sono quelle laboriose esperienze solitarie, isolate e spesso
fallimentari, che pavimentano le giornate luminose. Una dopo l'altra
cambiano il mondo.