著者: carlo 日付: To: forumgenova 題目: [NuovoLab] da l'espresso 1/2
Quel regista è un sovversivo
di Malcom Pagani
Dalle violenze al G8 agli anni di piombo, da Nassiriya a Berlusconi: ecco chi ostacola i film che fanno i conti con la storia recente
(03 giugno 2011)
Sulle pareti della scuola Armando Diaz di Genova è rimasta un'invisibile macchia di sangue. Nessuno è riuscito a lavarla, perché il G8 del 2001, con il suo carico di sirene, ombre rosse, falsificazioni e abusi è una ferita che non si rimargina. Il regista Daniele Vicari vorrebbe fotografarla in un film. Studia le carte, ascolta i testimoni, edifica l'impresa di coniugare il rigore documentaristico alla visione personale. La Diaz è un'inquadratura complessa. Un racconto che, sfiorando un passato recente e non consolatorio, disturba. Altera opinioni e certezze, dilata i confini, imbarazza. L'esigenza di Vicari e della sceneggiatrice Laura Paolucci è inversamente proporzionale al desiderio dei potenziali produttori. L'unico a correre in direzione ostinata e contraria si chiama Domenico Procacci.
La sua Fandango, vent'anni di premi e idee di qualità, per contatti e curricula non dovrebbe avere problemi a reperire i finanziamenti. Però li ha. Rai e Medusa fuggono, i suoi colleghi declinano l'invito. Ai giorni si aggiungono i mesi. Fino a quando Procacci non si incazza. Mette di tasca propria oltre la metà del budget complessivo, cerca il resto in Francia e Romania, emigra, lo trova. "Diaz", con nomi di fantasia e attori del valore di Germano e Santamaria, si girerà in parte a Bucarest. In totale indipendenza, là dove di regimi, statue cadute e repressione selvaggia, sanno, non da ieri, qualcosa. Con i decenni la censura si è affinata. Diaz è un caso esemplare. Tramontata l'epoca dei pretori sessuofobi che mandavano al macero i passi di tango di Bernardo Bertolucci, i catoni del nuovo millennio utilizzano strumenti in linea con la modernità. Se le barricate di Genova bloccarono anche il più convincente documentario sulla vicenda ("Bella ciao" di Roberto Torelli, trasmesso a tarda notte, per l'incosciente ostinazione di Carlo Freccero), basta cambiare isolato per trovare trincee non dissimili.
La parola magica del momento è commedia e il sistema, consolato dagli incassi di Zalone, Miniero e Bruno, si è votato al genere unico. Le proposte tese a disseppelire dalla teca del rimpianto il cinema civile di maestri come Pontecorvo e Rosi non mancherebbero. Ma chi prova a replicarne la lezione è visto con sospetto. Da più di dieci anni, Francesca D'Aloja, attrice, scrittrice e regista, tenta invano di trascinare in sala le dissolvenze a nero di una storia italiana. A un film sulla figura di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, pensa da tempo: "La prima sceneggiatura, tratta da "A mano armata" di Giovanni Bianconi, scritta con Sandro Veronesi è del 1997. Il progetto, con la regia di Marco Risi, è fermo".
Da allora, nelle stanze ministeriali deputate al rilascio dei finanziamenti pubblici (non sono doni statali, una volta ottenuti vanno sempre restituiti) la sensibilità su certi temi non è cambiata di molto. Esplorare l'espediente letterario romanzando nel suo "Il sogno cattivo", l'educazione sentimentale e politica della 17enne Penelope Anselmi a d'Aloja non è servito. "Mi ero illusa che dipingere una vicenda politica sullo sfondo di un amore fosse utile a superare la durezza della realtà". Errore. "Nonostante il sostegno del produttore de "I cento passi", Fabrizio Mosca, mi sono resa conto che a dare fastidio era la sola evocazione di quella stagione". D'Aloja spera sempre: "Un giorno lo farò. "Tra tutte quelle presentate - mi dissero - è la migliore sceneggiatura che abbiamo letto". Una carezza prima di prendermi a calci in culo. Se penso che la Rai ha supportato con più di un milione il lavoro dell'amica bulgara del premier, Michelle Bonev, mi viene da piangere, ma non voglio passare per una perseguitata".
Il destino dell'opera mai nata di D'Aloja è comune a tanta pubblicistica sul tema. Quando tocchi gli anni di piombo, le sensibilità dei parenti delle vittime e un angolo di passato in cui le ombre sovrastano le luci, l'aria diventa irrespirabile. Se ne è accorto Renato De Maria, regista del sobrio "La prima linea" tratto da "A miccia corta" di Sergio Segio, sottoposto a un processo preventivo ancor prima che venisse battuto il primo ciak.
L'allora ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, dopo averlo visionato, ammise che non conteneva "apologie del terrorismo", ma per non sbagliare scagliò l'anatema: "Non credo che questo genere di film debba ricevere finanziamenti pubblici". Andrea Occhipinti con la sua Lucky Red rinunciò a un milione e mezzo di euro: "Non mi pento, non avevo alternative", ma non ai progetti difficili. L'ultimo, il "Silvio Forever" di Faenza, Macelloni, Stella, Rizzo, ha incontrato muri di gomma e dinieghi. Canovaccio abusato, molto italico, adattabile alla politica, al sesso e al neorealismo. Andreotti trovava che "Ladri di biciclette" proiettasse un'immagine "deprimente" del Paese e il profetico "Todo Modo" di Petri, travolto dal sequestro senza epifanìa di Aldo Moro, viaggiò tra insulti e deplorazioni tanto feroci da consigliare al produttore, Daniele Senatore, un rapido esilio negli Usa. Gli americani hanno scandagliato senza reticenze il Vietnam, ma Monicelli ebbe seri problemi già con "La grande guerra" e un j'accuse moderato come il premiato "20 sigarette a Nassiriya" di Aureliano Amadei prodotto dal Luce, conobbe secondo il regista pressioni indebite dello Stato maggiore dell'Esercito volte "a convincere i parenti delle vittime a protestare allo scopo di bloccarne il percorso".
Il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto smentì senza convinzione. Se la censura preventiva ha accompagnato l'intera epopea cinematografica del Vallanzasca di Michele Placido e Andrea Purgatori, sorte migliore non è toccata a un'altra opera di finzione immaginata dallo sceneggiatore delle nebbie di Ustica. "Tribuna d'onore", istantanea verista dell'impero di Luciano Moggi. "Scrissi il plot con Claudio Amendola ma su quell'argomento nessuno volle investire. Il perché? Semplice. Calciopoli non è mai finita e tra il pallone e il cinema balla un mostruoso e mai risolto conflitto di interessi". Il copione (il migliore tra gli esclusi, come nel caso di D'Aloja) è ancora oggi stipato nel cassetto delle ipotesi sconvenienti. Ne è uscito miracolosamente "Et in terra pax", trasvolata sulla periferia romana di due allievi del Centro Sperimentale con atmosfere tra Ken Loach e Pasolini.
Prodotto da Gianluca Arcopinto e portato alle giornate degli autori a Venezia con gli ironici ringraziamenti dello stesso: "Sono grato alla commissione ministeriale che ha negato il finanziamento, a Raicinema che pur apprezzandolo ha preferito non accompagnarci nell'avventura e ai distributori amici. A quelli che non hanno neanche voluto vederlo e a quelli che dopo averlo visto, hanno preferito non rispondere più alle mie telefonate".
Se la rivisitazione di Marco Tullio Giordana e il suo "Romanzo di una strage" su Piazza Fontana prodotto da Cattleya è atteso al varco degli esegeti della verità monolitica, l'indagine su un cinema al di sopra di ogni sospetto non può prescindere dall'influenza che il Berlusconi editore ha esercitato nell'ultimo ventennio. Così se qualcuno insinua che un mestierante spregiudicato come Ninì Grassia vide naufragare la pseudo satira bagaglinesca di "Hammamet Village" per il malumore di Craxi (ma nel film c'erano anche gli imitatori dell'uomo di Arcore e di D'Alema), anche altri tre film con Silvio sullo sfondo, il feroce "Citizen Berlusconi" e i più modesti "Shooting B." e "Bye Bye Berlusconi", furono fatti sparire in fretta. Il primo, inchiesta giornalistica pronta fin dal 2003, venne proiettato tra querele e diffide da Current solo nel 2009. Il terzo, invece, passato in decine di festival e acquistato a Berlino da un distributore italiano, fu nascosto e dall'oblìo non riemerse più.
Al lotto delle occasioni mancate andrebbe aggiunto anche il delirante "La brutta copia" di Massimo Ceccherini del 2003. Plot surreale su un fan di Berlusconi convinto che il premier sia un alieno. Una volta entrato ad Arcore, a un metro dal suo idolo, il protagonista scopre un'astronave in giardino. A Cecchi Gori, se ne intuiscono le ragioni, il film non piacque. Il giudizio di Berlusconi, allo stato, si ignora.