Puttanamente
Manifesto per un godimento polimorfico costituente
PRIS
Qualche giorno fa mi è stato descritto un po’ meglio che cosa dovrebbe
essere questo bunga bunga dei festini del basso impero berlusconiano.
Poi mi sono fatta un giro su internet incappando in una definizione
dell'Urban Dictionary (che è il dizionario digitale dei termini slang):
“Brutale stupro anale, inflitto come forma di punizione a chi oltrepassa
i territori di fittizie tribù africane”.
Preludio. Noi saremo tutto!… scusate noi chi?
Lasciamo perdere la destra, i suoi rappresentanti, i suoi giornali, non
è il caso, evidentemente, di prenderli in considerazione. Ma
l’immaginario coloniale e sessista che evoca il bunga bunga riguarda una
dimensione che attraversa la gran parte della società italiana maschile
e femminile, nel suo insieme e che passa anche per una sinistra in parte
bigotta (che sente l’offesa verso le donne, madri mogli perbene), in
parte ammiccante e compiaciuta che si incontra in lungo e largo nel web.
Da notare, tra gli altri, ad esempio, le playlist musicali sul tema che
diventano cult: vengono sfoderate dal quotidiano la Repubblica che le
indica come la playlist di Ruby (e non di Berlusconi badate bene) sul
tema del momento, “Il Bunga Italia”. Oppure le brillanti battute su Ruby
rubacuori - rigorosamente da omettere - in giro un po’ ovunque, anche
sul blog satirico
www.spinoza.it. Non entro nel merito della raccolta
delle firme delle donne del PD che si dichiarano scandalizzate delle
condizioni di vita/lavoro delle giovani solo in occasioni delle campagne
antiberlusconiane (come se il problema fosse poi solo il potente orco
blu, e non il sistema di potere che lo nutre - seppure il premier sia da
considerare, in effetti, un essere veramente ripugnante). Mi interessa
la dimensione polisemica di questa narrazione che comporta
interrogazioni più profonde su cosa vogliamo essere e su cosa vogliamo
divenire. Durante una recente assemblea qualcuno ha pensato di fare
battuta gradita rivendicando, all’interno di un ipotetico nuovo sistema
di welfare, oltre al reddito anche il bunga bunga garantito, e questo mi
ha particolarmente illuminato, riconsegnandomi un modo per dipanare
l’ordine del discorso.
La narrazione del bunga bunga è dunque pervasivamente incominciata,
adattandosi alle forme del vivere, del dialogare, del pensare, del
progettare il mondo. A questo punto si impone una decostruzione, o
meglio se il bunga bunga è un sito polisemantico proviamo a costruire
una nuova narrazione che ponga le basi della crisi stessa del bunga
bunga e che, a questo punto, possiamo definire (scegliendo tra
molteplici possibilità) in tre modi (tra loro intrecciati oppure no): 1)
un rituale performativo che evidenzia (se ce ne fosse stato ancora
bisogno) la natura fallocratica della governance berlusconiana; 2)una
forma – tra le altre - di ricatto nell’era della precarietà del
biocapitalismo; 3)un commercio che prevede prestazioni sessuali in
cambio di denaro e beni (il sesso è una merce come la comunicazione)
dentro la società capitalista, e che ha a che fare con dei clienti e
delle lavoratrici/ori; 4) una pratica sessuale dove entrano in scena
(ipotetici?) rapporti asimmetrici di potere.
Primo itinerario
Bunga bunga as ritual power. Forme della resistenza
Il potere punta continuamente a fabbricare “corpi docili”. Il culto del
denaro, la spettacolarizzazione, la notorietà, il successo, il merito,
il sacrificio sono – e lo sono particolarmente nell’era berlusconiana-
alcune delle armi che mette in campo: il regime disciplinare si attiva
con sempre novelle pratiche di dominio. Il bunga bunga come rituale
performativo ci parla delle pratiche di assoggettamento e della
produzione di corpi “femminili” subalterni e “reificati” per il consumo
sessuale. Tali pratiche (di cui il bunga bunga rappresenta la versione
del nudo sovrano) si sono intrecciate per decenni alla riproduzione
velinificata (da velina) dell’immaginario femminile, come corpi al
servizio del piacere e della sessualità fallocratica. Ancora tali
pratiche/rappresentazioni offrono –nel tempo della crisi- un
controaltare speculativo all’immaginario di domesticità, focolare,
famiglia attraverso il quale le donne devono essere rieducate per
riprendere (umilmente direbbero la Gelmini e Marchionne) i loro
tradizionali posti.
Svariati maitres à penser ci stanno adesso spiegando, che cosa siamo
(dovremmo essere) e come lo siamo. Imbroglio insopportabile,
paternalistico, presuntuoso, quello di parlare (benevolmente, chiaro!),
al posto delle donne. Noi siamo ben lontane dall’introiettare
l’immaginario sessualizzato nel quale il potere prova a intrappolarci.
Siamo convinte, con Foucault “che il sesso non sia una fatalità ma una
possibilità di accesso alla vita creativa”. Ma, in questo contesto
capitalista e maschile, così come il genere anche la sessualità, vista
nel suo esplicarsi sedimentato, triste e rituale, è un dispositivo.
Diventa allora bunga bunga, che passa per ciò che solamente si conosce e
si riproduce, ordinariamente. La prima forma si resistenza è costituita
dunque dallo svelare l’ordito, dal conoscere il contesto, dalla
consapevolezza del meccanismo. La seconda sta invece nel creare e
ricreare, trasformando la situazione. Non possiamo non darci, ma proprio
essendoci possiamo cambiare la situazione.
Secondo itinerario
Bunga bunga as precariousness (arcore’s night in and out). La schiavitù
contemporanea, il desiderio, il corpo
Le donne sono precarie. La precarietà è la forma di organizzazione del
lavoro nel biocapitalismo. Struttura di dominio basata sulla
destrutturazione totale dei diritti e sull’asservimento dei corpi e dei
desideri. Mondo violento, frantumato, sclerotico, dove regna
l’imposizione della volontà altrui, una volontà immanente che si oppone
alla vera realizzazione del sé, mentre d’altra parte ostacola, si
frappone a ogni collegamento, alle possibili forme di alleanza. Facendo
leva sulla precarietà si è inventata la passione per il lavoro, essenza
di una schiavitù che si fa volontaria. Avete voluto uscire dalla
fabbrica, sognavate di sbarazzarvi, una volta per tutte,
dell’alienazione del lavoro? Eccovi accontentate: questo lavoro precario
diventerà parte di voi, performando tutta la vostra vita, ciò che
sognate/agite diventerà oggetto del vostro lavoro stesso. Le cosiddette
politiche di flessibilizzazione del lavoro hanno addossato ai singoli
soggetti l’intera responsabilità di loro stessi. Nella precarietà il
corpo emerge. La precarietà è spaziale e affettiva, perpetuo
disequilibrio che genera anche sofferenza, malattia, disagio del corpo.
Ma essa non dà scandalo. Non abbiamo proteste, appelli, fiaccolate in
difesa della dignità dei nostri corpi precari di donna. La precarietà
confisca i corpi delle donne così come li confisca il vecchio
miliardario. La precarietà approfondisce il legame del corpo con il
potere dell’economico. Qualsiasi lavoro, svolto in condizioni di
ricatto, è degradante, difficile, esigente. E’ così difficile parlare?
Così strana da ammettere, la similitudine? Perché? Come scrive Virginie
Despentes: “I tipi di lavoro che le donne nullatenenti esercitano, i
salari miserabili per i quali vendono il loro tempo non interessano a
nessuno”. Perché?
Terzo itinerario
Bunga bunga as sex work. La produzione biopolitica oltre le differenze
delle forme produttive
Le donne lavorano. Da sempre. Esplicano tutti i generi di attività.
Nella divisione sessuale (internazionale e non) del lavoro, le donne si
trovano spesso a svolgere oltre i lavori riproduttivi at home- senza un
reddito riconosciuto- (fare figli, occuparsi del menage domestico, degli
anziani di casa…) anche lavori che afferiscono ad una sfera
riproduttiva/produttiva che definiamo di welfare privatistico, fanno le
badanti, fanno le colf, le tate e le sex workers (o se preferite le
puttane) (da premettere che il sex work- così come per altri lavori
riproduttivi- non sono un lavoro solo al femminile, ma viene svolto
anche da uomini, trans, etc…). Fanno questi lavori per un’intera vita,
oppure per qualche anno, oppure li fanno ogni tanto mixandoli ad altre
forme del lavoro di solito con magre entrate salariali.
Il sex work, è un lavoro che si svolge a ridosso del corpo e che
attiene alla presa in carico e cura del corpo dell’altro e delle sue
emozioni. Chiaro che questo lavoro si svolge non in un contesto di
libertà, ma dentro una società capitalistica costruita dentro rapporti e
gerarchie di potere che hanno a che fare con i corpi sessualizzati (e
razzializzati) e precarizzati. Qual è la differenza che passa tra
vendere il proprio corpo-forza-lavoro in una fabbrica di Marchionne, o
in una villa berlusconiana, in una universitaria fabbrica del sapere, o
in un campo di pomodori di Rosarno? Provocatoriamente potremmo
rispondere: nessuna!
Se tocca abbattere la cultura lavorista e cercare di spiegare che oggi
il lavoro è sociale – ovvero corrisponde all’insieme delle attività
distribuite nella produzione diffusa- e viene prodotto e riprodotto
incessantemente, attraverso la conoscenza, le relazioni, la cura, oltre
che alla fatica, come non cercare di abbattere la morale che confina le
pratiche prostituzionali in un luogo di dannazione, negandone la dignità
del lavoro?
Quarto itinerario
Bunga bunga as sexual pratice: biopolitica, genere e piacere
I corpi non esistono di per sé, ma dentro reti di relazioni sociali che
li riproducono e li significano. La produzione dei corpi nella società è
legata a un dispositivo di potere eterosessista normativo: i corpi
normati sono sessualizzati nelle categorie dicotomiche del
maschile-femminile. Cioè che eccede dalla norma è altro, “diversità”,
se non devianza o malattia. La stessa strutturazione binaria del genere,
dunque, definisce e concorre a plasmare rapporti di potere asimmetrici
incarnati nei corpi. La produzione biopolitica è una produzione che ha a
che fare con i corpi, corpi che sono al lavoro e che sono dentro questi
stessi dispositivi che li producono binariamente. La sessualità e il
piacere sono al centro di questa costruzione binaria: la sessualità si
pone come un dispositivo di potere dal momento in cui il maschile si
costruisce in termini di controllo del corpo femminile e di pieno
accesso alla fruibilità del piacere, il femminile si costruisce, in una
certa misura, attraverso l’idea di subalternità della sessualità
femminile e della sua funzionalità alla sessualità maschile dominante.
Normalmente quando il confine di genere viene superato, le donne sono
relegate e “controllate” attraverso la categoria morale stigmatizzata
della prostituta.
Dunque, il modello di sessualità dominante comporta la produzione dei
corpi in cui si inscrive la dicotomia del maschile e del femminile:
plasmando i corpi si definiscono le stesse gerarchie di potere che
alimentano la divisione sessuale (e internazionale del lavoro). Il
cerchio è chiuso.
Come una metafora eccedente, il bunga bunga as sexual pratice, racconta
dell’intreccio tra potere, sesso/piacere e produzione nella “normalità”,
e non soltanto la decadenza di un vecchio porco sovrano.
Finale. Dalla resistenza alla dichiarazione di guerra di Pris
Noi donne, fike, puttane (al lavoro o no) vorremmo rivoluzionare
l’immaginario e le pratiche del piacere e della sessualità. Questo
perché sappiamo che da ciò dipende non solo il nostro piacere, ma una
nuova idea di vita, di cooperazione e di felicità comune. Per questo nel
comune combatteremo perché sia viva la potenza costituente di un nuovo
godimento, che con creatività e determinazione abbatta le gerarchie del
genere e del lavoro. Vogliamo godere oltre le vecchie regole e sappiamo
che questo ha una valenza rivoluzionaria.
Perché il nuovo welfare sia comune, rivendichiamo contro il capitalismo
della precarietà: la democrazia del piacere, la libertà di scelta del
lavoro e il reddito garantito. Decretiamo per questo - dentro la crisi
del capitalismo globale - inaugurata la fase della crisi del bunga bunga
(di destra e di sinistra) e cominciata la lotta per l’istituzione di un
godimento polimorfico costituente.