Re: [Forumlucca] unità d'Italia/ due note scritte da un ana…

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Autor: laura picchi
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Para: m.ciancarella, info, marco marcucci, marisa.pareto, roberto sensi, mrseye, forumlucca, lucca, lucca, giulio sensi, alessio ciacci, salah chfouka, gicavalli, giovanna duranti, la gurfata, lista123lm
Tópicos Antigos: [Forumlucca] unità d'Italia/ due note scritte da un anarchico lucano su cui riflettere e da approfondire: i lager sabaudi e fenestrelle
Assunto: Re: [Forumlucca] unità d'Italia/ due note scritte da un anarchico lucano su cui riflettere e da approfondire: la pulizia etnica piemontese nel regno delle 2 sicilie

il SUD visto da un'altra
parte (per cercare di capire)
IL SUD D'ITALIA

negli
"ANNI INFAMI" (mai più dimenticati)





            la pulizia 
            etnica piemontese 


             nelle


             Due Sicilie 


            il "brigantaggio" - le deportazioni






di Antonio
Pagano

  La statistica 
    di fine anno 1861, fatta dagli occupanti piemontesi, indicò che nel solo secondo 
    semestre vi erano stati 733 fucilati, 1.093 uccisi in combattimento e 4.096 
    fra arrestati e costituiti. Le cifre, tuttavia, furono molto al disotto del 
    vero, in quanto non erano indicati quelli della zona della Capitanata, di 
    Caserta, Molise e Benevento, dove comandava il notissimo assassino Pinelli. 
    Al Senato di Torino, il ministro della guerra Della Rovere, dichiarò che 80.000 
    uomini dell'ex armata napoletana, imprigionati in varie località della penisola, 
    avevano rifiutato di servire sotto le bandiere piemontesi. 


    Vi erano stati migliaia di profughi, centinaia i paesi saccheggiati, decine 
    quelli distrutti. Dovunque erano diffuse la paura, l’odio e la sete di vendetta. 
    L’economia agricola impoverita, quasi tutte le fabbriche erano state chiuse 
    e il commercio si era inaridito in intere province. La fame e la miseria erano 
    diventate un fatto comune tra la maggior parte della popolazione.




    Il 1° gennaio 1862 in Sicilia insorse Castellammare del Golfo al grido di 
    “fuori i Savoia. Abbasso i pagnottisti. Viva la Repubblica”. 
    Furono uccisi il comandante collaborazionista della guardia nazionale, Francesco 
    Borruso, con la figlia e due ufficiali. Case di traditori unitari vennero 
    arse. Strappati i vessilli sabaudi, spogliati ed espulsi i carabinieri. Le 
    guardie e i soldati accorsi da Calatafimi e da Alcamo furono battuti e messi 
    in fuga dai rivoltosi. Il 3 gennaio arrivarono nel porto la corvetta “Ardita” 
    e due piroscafi che furono accolti a cannonate, ma con lo sbarco dei bersaglieri 
    del generale Quintini i rivoltosi furono costretti alla fuga. I piemontesi 
    fucilarono centinaia di insorti tra cui alcuni preti. A Palermo comparirono 
    sui muri manifesti borbonici e sulla reggia fu messa una bandiera gigliata.




    Agli inizi dell’anno il generale borbonico Tristany, accompagnato da una decina 
    di ufficiali Spagnoli e Napolitani, ebbe un nuovo abboccamento con il comandante 
    partigiano Chiavone, al quale ripeté la richiesta di subordinare le sue forze 
    partigiane alla sua azione di comando affidatogli dal Re Francesco II.




    A Marsala, durante la caccia ai patrioti siciliani, le truppe piemontesi circondarono 
    la città e arrestarono oltre tremila persone, per lo più parenti dei ricercati, 
    comprese donne e bambini, che furono ammassate per settimane nelle catacombe 
    sotterranee vicine alla città, in condizioni disumane, dove erano prive di 
    luce e di aria.




    Al ponte di Sessa un plotone di lancieri cadde in un agguato dei partigiani 
    napolitani e sedici soldati furono uccisi. A Napoli si ebbero tumulti per 
    l’applicazione della legge che aveva imposta la nuova tassa detta il decimo 
    di guerra.




    Proprio in gennaio furono abolite le tariffe protezionistiche per effetto 
    delle pressioni della borghesia agraria del Piemonte e della Lombardia. Queste 
    disposizioni dettero il colpo di grazia alle industrie dell’ex Reame provocando 
    il definitivo fallimento degli opifici tessili di Sora, di Napoli, di Otranto, 
    di Taranto, di Gallipoli e del famosissimo complesso di S. Leucio, i cui telai 
    furono portati qualche anno dopo a Valdagno, dove fu creata la prima fabbrica 
    tessile nel Veneto, di Piero Marzabotto (poi Marzotto) che con i Rossi, protetti 
    entrambi dagli Austriaci fin dal 1836, da semplici pannaioli si erano trasformati 
    in industriali monopolisti privilegiati dell'austro Lombardo-Veneto, facendo 
    fallire e chiudere molte grandi industrie tessili milanesi, ormai senza più 
    ordini. 




    Vennero smantellate, tra le altre attività minori, le cartiere di Sulmona 
    e le ferriere di Mongiana, i cui macchinari furono trasferiti in Lombardia. 
    Furono costrette a chiudere anche le fabbriche per la produzione del lino 
    e della canapa di Catania. La disoccupazione diventò un fenomeno di massa 
    e incominciarono le prime emigrazioni verso l’estero, l’inizio di una vera 
    e propria diaspora. Con gli emigranti incominciarono a scomparire dalle già 
    devastate Terre Napoletane e Siciliane le forze umane più intraprendenti.




    A questo grave disastro si aggiunse l’affidamento degli appalti (e le ruberie) 
    per i lavori pubblici da effettuare nel Napoletano ed in Sicilia ad imprese 
    lombardo-piemontesi che furono pagate con il drenaggio fiscale locale operato 
    dai piemontesi. La solida moneta aurea ed argentea borbonica venne sostituita 
    dalla carta moneta piemontese, provocando la più grande devastazione economica 
    mai subìta da un popolo.




    Il 22 gennaio sul Fortore, nel Foggiano una banda di 140 patrioti a cavallo 
    attaccò una compagnia di fanti piemontesi che furono decimati. A Napoli militari 
    piemontesi isolati caddero vittime di attentati. A Mugnano, caduta in un agguato, 
    la banda partigiana di Angelo Bianco fu completamente assassinata dai bersaglieri 
    e dalle guardie nazionali.




    Il 1° febbraio, nei boschi di Lagopesole, due compagnie di bersaglieri e fanti 
    assaltarono i patrioti di Ninco-Nanco e Coppa, uccidendone 11 e catturando 
    una donna. Proprio in quel giorno il turpe Liborio Romano, quale deputato, 
    propose nel parlamento piemontese di vendere tutti i beni demaniali e degli 
    istituti di beneficenza delle Due Sicilie a prezzo minore del valore reale, 
    a rate fino a 26 anni, pagabile con titoli di Stato al 5%.




    Il giorno dopo la banda di Giuseppe Caruso sgominò un reparto del 46° fanteria 
    nel bosco di Montemilone.




    A Reggio Calabria, il 5 febbraio, vennero imprigionati tutti quelli "sospettati" 
    di essere filoborbonici. Sul confine pontificio, lo stesso giorno, alcuni 
    gruppi patrioti comandati dal Tristany furono sconfitti dalle truppe piemontesi 
    nei pressi di Pastena. Pilone, invece, a Scafati sfuggì ad un agguato tesogli 
    dalle guardie nazionali di Castellammare.




    A Vallo di Bovino furono catturati e fucilati dai patrioti due ufficiali piemontesi. 
    Il generale La Marmora, in visita a Pompei sfuggì ad un attentato da parte 
    della banda di Pilone. A Napoli venne minacciata da Pilone la stessa duchessa 
    di Genova, cognata di Vittorio Emanuele, a cui intimò con una lettera di non 
    uscire da Napoli, pena la cattura.




    I terrorizzati piemontesi, in quei giorni, persero completamente il controllo 
    della situazione, emanando dei bandi e ordinanze feroci, soprattutto nel Gargano 
    e in Lucera, dove furono comminate pene di morte per la violazione dei più 
    piccoli divieti. Il col. Fantoni in terra di Lucera, dopo aver vietato l’accesso 
    alla foresta del Gargano, fece affiggere un editto che disponeva che: «Ogni 
    proprietario, affittuario o ogni agente sarà obbligato immediatamente dopo 
    la pubblicazione di questo editto a ritirare le loro greggi, le dette persone 
    saranno altresì obbligate ad abbattere tutte le stalle erette in quei luoghi 
    ... Quelli che disobbediranno a questi ordini, i quali andranno in vigore 
    due giorni dopo la pubblicazione, saranno, senza avere riguardo per tempo, 
    luogo o persona, considerati come briganti e come tali fucilati».


    SI COMINCIA A CHIAMARLI TUTTI "BRIGANTI" E IL FENOMENO DELLA 
    PARTIGIANERIA LOCALE "BRIGANTAGGIO".




    L’8 febbraio evasero dalle carceri di Teramo 55 patrioti, che si rifugiarono 
    sui monti sotto il comando di Persichini. Inseguiti da un reparto del 41° 
    fanteria, cinque furono uccisi e tredici catturati, ma anche questi furono 
    fucilati dopo qualche giorno. Durante una riunione in una masseria di S. Chirico 
    in Episcopio, la banda di Cioffi, tradita da un tal Lupariello, fu circondata 
    ed assalita da ingenti forze piemontesi, ma l’inattesa e violentissima reazione 
    dei patrioti causò uno sbandamento degli assedianti. Pur subendo due morti 
    e molti feriti, Cioffi riuscì a sganciarsi con tutti i suoi uomini. I cadaveri 
    dei due patrioti morti in combattimento furono esposti dai piemontesi nella 
    piazza della Maddalena a Sarno. Qualche giorno dopo il Lupariello fu catturato 
    e, sottoposto ad un giudizio, giustiziato, poi la sua testa fu apposta dai 
    militari piemontesi su una pertica vicino a una sorgente frequentata dalla 
    popolazione.




    Il 12 febbraio il colonnello della guardia nazionale di Cosenza, Pietro Fumel, 
    emanò un bando da Cirò veramente raccapricciante : «Io 
    sottoscritto, avendo avuto la missione di distruggere il brigantaggio, prometto 
    una ricompensa di cento lire per ogni brigante, vivo o morto, che mi sarà 
    portato. Questa ricompensa sarà data ad ogni brigante che ucciderà un suo 
    camerata ; gli sarà inoltre risparmiata la vita. Coloro che in onta degli 
    ordini, dessero rifugio o qualunque altro mezzo di sussistenza o di aiuto 
    ai briganti, o vedendoli o conoscendo il luogo ove si trovano nascosti, non 
    ne informassero le truppe e la civile e militare autorità, verranno immediatamente 
    fucilati ... Tutte le capanne di campagna che non sono abitate dovranno essere, 
    nello spazio di tre giorni, scoperchiate e i loro ingressi murati ... È proibito 
    di trasportare pane o altra specie di provvigione oltre le abitazioni dei 
    Comuni, e chiunque disubbidirà a questo ordine sarà considerato come complice 
    dei briganti.» Costui, un sanguinario assassino, praticò metodicamente 
    il terrore e la tortura contro inermi cittadini e le loro proprietà per distruggere 
    ogni possibile aiuto ai patrioti.




    Questi orrendi misfatti ebbero un’eco perfino alla camera dei Lords di Londra, 
    dove nel maggio del 1863, il parlamentare Bail Cochrane, a proposito del proclama 
    del Fumel, affermò : «Un proclama più infame non 
    aveva mai disonorato i peggiori dì del regno del terrore in Francia», 
    per cui gli ufficiali che avevano emanato quegli ordini furono allontanati 
    dai propri reparti.




    Il famoso comandante Crocco, che aveva diviso la sua banda di circa 600 uomini 
    in sei gruppi, l’aveva disseminata nei boschi di Monticchio, Boceto, San Cataldo 
    e Lagopesole. I suoi gruppi patrioti con rapide scorrerie misero a sacco le 
    masserie dei traditori nella zona di Altamura. Poi, il 24 febbraio, Crocco 
    assaltò la guardia nazionale di Corato e batté i cavalleggeri del generale 
    Franzini in uno scontro presso Accadia, dove però perse dodici uomini.




    Il 1° marzo Crocco riunì nel bosco di Policoro, presso la foce del Basento, 
    i suoi patrioti a quelli di Summa, Coppa, Giuseppe Caruso e Cavalcante, in 
    previsione del piano elaborato dal Comitato Borbonico in Roma (Clary e Statella) 
    di attaccare Avezzano con duemila uomini comandati da Tristany, che, richiamando 
    così le truppe piemontesi, avrebbe dovuto lasciare sguarnito il confine pontificio 
    per lunghi tratti, permettendo ad altre forze borboniche di invadere gli Abruzzi 
    con la contemporanea sollevazione di tutti i patrioti del Reame. Era previsto 
    anche uno sbarco sul litorale ionico di elementi legittimisti spagnoli e austriaci. 
    Una spia infiltrata, Raffaele Santarelli, fece conoscere in tempo il piano 
    ai piemontesi, che presero contromisure sia navali, con la flotta di Taranto, 
    sia per via terrestre con un concentramento di bersaglieri e cavalleggeri.




    Il 3 e il 4 marzo 1862 Crocco si scontrò al ponte S. Giuliano, sul Bradano, 
    con il 36° fanteria e lo mise in fuga, ma subendo alcune perdite. Nei giorni 
    successivi, l’8 marzo, a S. Pietro di Monte Corvino, si ebbe un altro scontro 
    di patrioti contro piemontesi, che subirono numerose perdite. Il giorno dopo 
    Crocco sconfisse alcuni reparti di guardie nazionali alla masseria Perillo, 
    nei pressi di Spinazzola, uccidendone dieci, compreso il comandante, maggiore 
    Pasquale Chicoli, un traditore che aveva formato il governo provvisorio di 
    Altamura ancora prima dell’arrivo dei garibaldini.




    Il 10 marzo Pilone occupò Terzigno, dove dopo aver requisito armi e munizioni, 
    fucilò i ritratti di Garibaldi e Vittorio Emanuele. Il governatore piemontese 
    dispose che tutto il 7° reggimento di fanteria venisse destinato a catturare 
    Pilone.




    A Baiano, il 12 marzo, venne fucilato un contadino di 16 anni, Antonio Colucci, 
    che, stando su un albero in una masseria di Nola, aveva segnalato ai patrioti 
    l’arrivo di piemontesi. Il ragazzo era stato catturato e processato da un 
    tribunale di guerra che lo condannò alla pena capitale.




    Nel frattempo continuarono numerosi gli attacchi dei partigiani napoletani, 
    vere e proprie azioni di guerra, contro le truppe piemontesi. Tra gli episodi 
    più importanti sono da ricordare quello del 17 marzo, quando la banda di Michele 
    Caruso sterminò alla masseria Petrella (Lucera) un intero distaccamento di 
    21 fanti dell’8° fanteria, comandato dal capitano Richard. Il 31 marzo ad 
    Ascoli di Capitanata i patrioti sconfissero, procurando centinaia di morti, 
    i bersaglieri e i cavalleggeri del colonnello Del Monte. Lo stesso giorno, 
    a Poggio Orsini, presso Gravina, i piemontesi misero in fuga un centinaio 
    di patrioti, ma a Stornarella furono massacrati 17 lancieri del “Lucca”, che 
    ebbe anche 4 dispersi. La provincia di Bari, la terra d’Otranto ed il Tarantino 
    erano tuttavia controllate dalle forze partigiane. In questi avvenimenti vi 
    furono molti garibaldini ed anche regolari piemontesi che disertarono e si 
    unirono ai briganti. Tra i disertori è da ricordare come esempio quello dell’operaio 
    biellese Carlo Antonio Gastaldi, decorato con medaglia d’argento al valor 
    militare nella battaglia di Palestro del 1859. Inviato nelle Puglie a combattere 
    i “briganti”, fu talmente schifato delle nefandezze piemontesi, che divenne 
    addirittura luogotenente del Sergente Romano, insieme ad un altro piemontese, 
    Antonio Pascone.




    Alla fine di marzo, nel parlamento di Torino fu istituita un Commissione con 
    il compito di studiare le condizioni delle provincie meridionali. Tale Commissione, 
    presieduta dai massoni Giuseppe Montanelli e Luigi Miceli, suggeriva, tra 
    l’altro, di iniziare numerosi e svariati lavori pubblici, istituire nuove 
    scuole comunali per “illuminare” la gioventù, l’incameramento totale dei beni 
    religiosi, la divisione e vendita dei beni demaniali e comunali. Per la risoluzione 
    del “brigantaggio” la commissione proponeva anche l’invio di Garibaldi a Napoli 
    e l’aumento delle guardie nazionali.




    Il mese successivo, il 4 aprile, la legione ungherese, già "usata" 
    da Garibaldi nella sua spedizione, riuscì ad infliggere alcune perdite a Crocco 
    tra Ascoli e Cerignola. Il 6 aprile 200 patrioti assalirono Luco de’ Marsi 
    dove si era asserragliato un reparto del 44° fanteria che si difesero efficacemente. 
    Poi il 7 aprile Crocco sconfisse due drappelli del 6° fanteria a Muro, Aquilonia 
    e Calitri, uccidendo una ventina di piemontesi e catturando numerosi prigionieri. 
    A Torre Fiorentina, presso Lucera, l’8 aprile, i lancieri di Montebello uccisero 
    trenta patrioti. Il giorno dopo circondarono i rimanenti patrioti di Coppa 
    e Minelli, che furono quasi completamente distrutti: 40 morti, 21 fucilati 
    dopo la cattura ed altri 42 uccisi mentre “tentavano la fuga”. In Sicilia, 
    ad Apaforte, Stincone, S. Cataldo e Boccadifalco, la popolazione insorse dando 
    alle fiamme le cataste di zolfo. Furono distrutte tutte le piantagioni e gli 
    animali per protesta contro le vessazioni dei piemontesi.




    Le truppe francesi di stanza nello Stato Pontificio sequestrarono il 10 aprile 
    le armi e munizioni borboniche a Paliano, a Ceprano, a Falvaterra. Le armi 
    avrebbero dovuto servire per il piano d’invasione capeggiato dal Tristany.




    Con una delibera del 13 aprile la piazza nota come “Largo di Castello”, dov’è 
    situato il Maschio Angioino, fu fatta chiamare Piazza Municipio dal sindaco 
    massone Giuseppe Colonna.




    In quei giorni la banda di Pagliaccello, di Cerignola, fu dispersa dai cavalleggeri 
    “Lucca”, che fucilarono 21 patrioti. Duro colpo anche alla banda di Crocco 
    che il 25 aprile 1862, alla masseria Stragliacozza, subì un improvviso attacco 
    dai piemontesi che riuscirono a metterla in fuga, uccidendone 25 uomini.




    Alla fine del mese, il 28 aprile, Vittorio Emanuele si recò a Napoli a bordo 
    della nave “Maria Adelaide” e fece un donativo alla statua di S. Gennaro 
    per ingraziarsi i Napoletani. Ma S. Gennaro non abboccò e non fece il “miracolo”.




    Crocco, nonostante le dure sconfitte, continuò eroicamente le sue azioni di 
    guerra e il 7 maggio sterminò a Zungoli un distaccamento del 37° fanteria. 
    Tuttavia il giorno dopo, tra Canosa e Minervino, i patrioti di Summa persero 
    15 uomini per un fortunoso attacco dei cavalleggeri. Nell’occasione fu ferito 
    Ninco-Nanco. Nel prosieguo dell’azione alcune guardie nazionali catturarono 
    una donna, la quale portava in campagna un pezzo di pane al figlio che essi 
    ritenevano un patriota. La legarono, la fecero inginocchiare e la fucilarono.




    Il 7 maggio esplose anche lo scandalo riguardante la concessione degli appalti 
    per la costruzione delle ferrovie meridionali al massone Adami. Il direttore 
    del giornale “Espero” di Torino che aveva avuto il coraggio di denunciare 
    alla pubblica opinione le speculazioni commesse dal Bertani e dall’Adami, 
    fu condannato per diffamazione e per ingiurie a due mesi di carcere e a 300 
    lire di multa. Naturalmente lo scandalo, che cointeressava anche una trentina 
    di deputati piemontesi, fu insabbiata alla maniera piemontese.




    Chiavone invase e saccheggiò Fontechiari il 10 maggio.




    Intanto, allo scopo di impossessarsi dell’industria napoletana del gas per 
    ricompensare gli inglesi dell’aiuto ricevuto, i governanti piemontesi avevano 
    subdolamente fatte fare numerose critiche per la qualità del servizio, indicendo 
    una gara per una nuova concessione. Alla gara si presentarono numerosi concorrenti, 
    ed il 12 maggio 1862 venne firmato il nuovo contratto di appalto dell'illuminazione 
    a gas con la ditta Parent, Shaken and Co. La nuova Società venne costituita 
    il 18 ottobre dello stesso anno con il nome di “Compagnia Napoletana d'Illuminazione 
    e Scaldamento col Gaz”, che verso la fine dell'anno seguente inaugurò 
    un nuovo opificio nella zona dell'Arenaccia lungo il fiume Sebeto.




    Il 18 maggio le collaborazioniste guardie nazionali di Ariano, incontrati 
    presso Sprinia i patrioti di Parisi, si rifiutarono di battersi e si diedero 
    alla fuga, ma ne furono catturate 14. A Catania vi fu un’insurrezione lo stesso 
    18 maggio, ma fu rapidamente repressa dalle truppe piemontesi che massacrarono 
    49 civili. Il giorno dopo Chiavone conquistò Fontechiari e Pescosolido, riunendosi 
    con i patrioti di Tamburini e Pastore. Con tutte queste forze tentano di assalire 
    anche Castel di Sangro, ma vennero respinti e costretti a rifugiarsi nel territorio 
    pontificio.




    A Roma, intanto, erano avvenute le nozze tra Maria Annunziata, una delle prime 
    figlie di Ferdinando II, e l’arciduca Carlo Lodovico, fratello dell’imperatore 
    Francesco Giuseppe. Da questo matrimonio nacque l’erede al trono dell’Austria-Ungheria, 
    Francesco Ferdinando, che fu sempre uno strenuo nemico dell’Italia dei Savoia. 
    L’uccisione di Francesco Ferdinando a Serajevo nel 1914 fu la causa che fece 
    scoppiare la I guerra mondiale.




    Il 29 maggio fu catturato e poi fucilato a Mola di Gaeta il conte rumeno Edwin 
    Kalchrenth, il famoso capo patriota “conte Edwino”, ex ufficiale della cavalleria 
    borbonica che operava unitamente a Chiavone nella Terra del Lavoro e negli 
    Abruzzi.




    In giugno i patrioti non diedero tregua ai piemontesi. Il giorno 2, il 44° 
    fanteria fu attaccato al confine tra Abruzzi e Terra del Lavoro, perdendovi 
    cinque uomini. Il 7 giugno Chiavone invase Pescosolido, dove fece rifornimenti 
    per il suo raggruppamento. Ad Acqua Partuta, nel beneventano, il 14 giugno, 
    i patrioti uccisero 11 guardie nazionali e 4 carabinieri che li avevano assaliti. 
    Numerosi patrioti di Guardiagrele attaccarono Gamberale, ma furono respinti 
    da reparti del 42° fanteria.




    Il giorno 15, la legione ungherese in un drammatico ed imprevisto scontro 
    distrusse nel bosco di Montemilone una banda partigiana di 27 uomini. Presso 
    Ginestra la banda Tortora in uno scontro con gli stessi ungheresi perse 13 
    uomini. Poi, il giorno dopo, alla masseria La Croce la 4ª compagnia del 33° 
    bersaglieri fu assalita da Crocco e da Coppa, subendo molte perdite, ma a 
    S. Marco in Lamis fu catturato il capo patriota Angelo Maria del Sambro e 
    quattro suoi compagni, tra cui il dottor Nicola Perifano, già chirurgo del 
    3° Dragoni napoletano, più volte decorato. Furono tutti immediatamente fucilati.




    Numerosi furono gli scontri tra i piemontesi, particolarmente tra il 61° ed 
    il 62°, contro i patrioti che presidiavano i boschi di Monticchio, di Lagopesole 
    e di S. Cataldo. Il 17 giugno Chiavone, dopo essersi riunito con i patrioti 
    abruzzesi di Luca Pastore e di Nunzio Tamburini sull’altopiano delle Cinque 
    Miglia, invase Pietransieri e attaccò Castel di Sangro, dove però fu respinto. 
    Rientrato nel territorio pontificio, tuttavia, il Tristany il 28 giugno lo 
    fece arrestare e processare da un consiglio di guerra, che lo condannò a morte 
    per rapina e omicidio. La fucilazione di Chiavone volle essere anche un esempio 
    per far attenere i patrioti alle direttive impartite dal Comitato Borbonico.




    Tutta la penisola sorrentina intanto veniva continuamente rastrellata da numerosi 
    reparti piemontesi, ma senza alcun esito. A Torre del Greco il 7° fanteria, 
    rinforzato da colonne mobili della guardia nazionale, riuscirono a circondare 
    sulle alture della cittadina il gruppo di combattimento di Pilone. Dopo un 
    furioso combattimento, il grosso dei patrioti di Pilone, riuscì a sganciarsi, 
    ma con numerose perdite e molti prigionieri, che il giorno dopo furono fucilati 
    dai piemontesi. Dopo qualche giorno Pilone attaccò temerariamente in località 
    Passanti una colonna di truppe piemontesi, liberando anche alcuni prigionieri 
    che stavano per essere fucilati.




    Garibaldi, nel frattempo, che era comparso nuovamente in Sicilia il 20 maggio 
    per fomentare una rivolta diretta alla conquista di Roma, si recò Il 29 giugno 
    a Palermo, dov’erano in visita i principi Umberto e Amedeo. Il giorno dopo, 
    al Teatro “Garibaldi”, pronunciò uno sconclusionato discorso, affermando che 
    se fosse stato necessario avrebbe fatto un altro Vespro Siciliano. All’indomani 
    si recò alla Ficuzza per arruolare volontari da impiegare per la conquista 
    di Roma e di Venezia.




    La Capitanata, il Gargano e la Terra di Bari erano in concreto nelle mani 
    dei patrioti. Lo stillicidio delle continue perdite subìte in luglio dai piemontesi 
    indusse il governo piemontese a sostituire il comandante della zona, generale 
    Seismit-Doda, con il generale massone Gustavo Mazé de la Roche. Costui, per 
    tagliare i rifornimenti ai gruppi patrioti, fece incendiare i pagliai, fece 
    murare le porte e finestre delle masserie e fece arrestare tutte le persone 
    che circolavano fuori degli abitati. La reazione dei patrioti fu immediata 
    con la rapida invasione di grossi paesi, come Torremaggiore, con la razzia 
    di molte mandrie, con l’incendio di masserie e con ripetuti attacchi, nei 
    pressi di S. Severo, ai cantieri della ferrovia Pescara-Foggia allora in costruzione.




    Il 30 giugno 1862 il generale Tristany, per dare un esempio, fece fucilare 
    due capi patrioti, Antonio Teti e Giuseppe de Siati, che, quali armati per 
    la lotta di liberazione delle Due Sicilie, avevano commesso illegittimamente 
    alcuni furti durante azioni di guerriglia. Il Tristany aveva voluto, con quest'episodio, 
    improntare esclusivamente con carattere militare le azioni guerrigliere dirette 
    soprattutto contro le pattuglie piemontesi in perlustrazione nelle campagne. 
    Lo stesso giorno la banda dei patrioti comandata dai fratelli Ribera partì 
    da Malta e sbarcò a Pantelleria, allo scopo di liberare l’isola dai piemontesi 
    e per ripristinare il governo borbonico. Con l’aiuto di tutta la popolazione, 
    i patrioti compirono numerose azioni contro i traditori collaborazionisti 
    e le guardie nazionali che prevaricavano sulla gente.




    Il 1° luglio il Re Francesco II protestò da Roma contro il riconoscimento 
    fatto dai vari Stati europei ai Savoia come re d’Italia.




    Nei primi giorni di luglio, il famoso comandante patriota Giuseppe Tardio, 
    uno studente di Piaggine Soprano, che aveva organizzato il suo gruppo di combattimento 
    nell’ottobre del 1861 nella zona di Agropoli, dopo aver eliminate le guardie 
    nazionali che incontrava, invase con i suoi uomini prima Futani e poi Abatemarco, 
    Laurito, Foria, Licusati, Centola e Camerota. Nella sua avanzata gli si aggregarono 
    molte centinaia di patrioti, che in seguito dovettero tuttavia disperdersi 
    per i continui attacchi delle truppe piemontesi.




    Il 6 luglio Garibaldi, in occasione di una rivista alla guardia nazionale 
    a Palermo, pronunziò davanti alle autorità un violento discorso contro Napoleone 
    III che riteneva responsabile del brigantaggio.




    Altro scontro dei patrioti di Crocco avvenne il 14 luglio a Lacedonia con 
    i bersaglieri, che persero cinque uomini. Si ebbero nel mese ancora numerosi 
    scontri tra piemontesi e patrioti, che attaccavano all’improvviso ed improvvisamente 
    sparivano. Il 16 luglio un reparto del 17° bersaglieri, in un durissimo e 
    prolungato combattimento, uccise il comandante partigiano Malacarne (fratello 
    del famoso Sacchettiello) ed altri sei patrioti. Il 19 luglio molti patrioti 
    abruzzesi attaccarono presso Fossacesia il magazzino degli imprenditori ferroviari 
    Martinez, uccidendo alcuni tecnici, e invasero l’abitato che fu saccheggiato. 
    Ad Amalfi però la superiorità partigiana si manifestò in tutta la sua evidenza 
    quando il 22 luglio i partigiani occuparono la città, tenendola addirittura 
    per due giorni. Lo stesso giorno, tuttavia, la bestiale legione ungherese 
    uccise 12 patrioti a Tortora. Alla fine di luglio, sui monti del Matese, nelle 
    zone di Piedimonte d’Alife e di Cerreto Sannita, i gruppi di combattimento 
    patrioti di Cosimo Giordano, Padre Santo e De Lellis contrastarono ferocemente 
    e vittoriosamente i rastrellamenti effettuati dai reparti del 39° e 40° fanteria.




    Il 26 luglio, dopo un lungo silenzio, i patrioti del sergente Romano invasero 
    Alberobello, dove, eliminate le guardie nazionali, si rifornirono di tutte 
    le loro armi e munizioni.




    Agli inizi di agosto 1862 i gruppi patrioti del Pizzolungo e dello Scenna, 
    in numero di 200, invasero nel Vastese le cittadine di Villalfonsina, Carpineto, 
    Guilmi, Roio, Monteferrante, Colle di Mezzo, Pennadomo e Roccascalegna, dove 
    saccheggiarono le case dei collaborazionisti con i piemontesi e li trucidarono.




    In Pantelleria la banda Ribera non riuscì in un tentativo di giustiziare il 
    sindaco, connivente dei piemontesi, ma inflisse numerose perdite ai reparti 
    piemontesi che li inseguivano. L’imprendibilità e le quasi sempre vittoriose 
    azioni dei patrioti di Ribera indussero i piemontesi ad inviare nell'isola 
    altra 500 soldati sotto il comando del feroce colonnello Eberhard, già sperimentato 
    in azioni di controguerriglia nel continente.




    La continua opera di reclutamento e di propaganda di Garibaldi, finalizzata 
    a conquistare anche Roma, indusse Vittorio Emanuele ad emanare il 3 agosto 
    un proclama con cui, senza mai nominare il nizzardo, condannava la sua iniziativa.




    Il 4 agosto il gruppo patriota di Abriola invase e saccheggiò le case di alcuni 
    traditori di Campomaggiore. Fra il 3 ed il 5 agosto, disgustati per l’ingrata 
    opera di repressione, gli usseri e la fanteria ungherese stanziati a Lavello, 
    Melfi e Venosa si misero in movimento per concentrarsi a Nocera, ma, bloccati 
    e disarmati dai piemontesi, furono imbarcati a Salerno il 13 agosto per ordine 
    di La Marmora, che li fece trasportare in piemonte. 150 ungheresi tuttavia 
    riuscirono a fuggire con lo scopo di raggiungere Garibaldi.




    Sulle montagne tra Castro e Falvaterra, i patrioti, approfittando del marasma 
    causato da Garibaldi, si lanciarono in una cruenta offensiva e invasero i 
    comuni di Campomaggiore, nel potentino, e Flumeri, nell’avellinese. La cittadina 
    di Sturno fu occupata e tenuta fino al 7. Intensi combattimenti vi furono 
    per tutto il mese nell’Alta Irpinia: a Bisaccia, Guardia Lombardi, Monteleone, 
    Pescopagano, Avigliano, S. Sossio, Ariano, Genzano, Frigenti. Ogni piemontese 
    scovato era immediatamente fucilato.




    Il 6 agosto Garibaldi si scontrò a S. Stefano di Bivona con le truppe piemontesi 
    e si ebbero alcuni morti da ambo le parti. A Fantina, in Sicilia, sette volontari 
    per Garibaldi della colonna Tasselli, dei quali cinque disertori piemontesi, 
    vennero catturati da un reparto del 47° fanteria, comandato dal maggiore De 
    Villata, e fucilati sul posto. Trentadue ufficiali della brigata “piemonte”, 
    che avevano dato le dimissioni nei pressi di Catania, furono arrestati e privati 
    del grado dal Consiglio di disciplina di Torino, per “mancanza contro l’onore”. 
    A Torino, fu varata una legge che disponeva una “spesa straordinaria” di lire 
    23.494.500 per l’acquisto e la fabbricazione di 676.000 fucili da destinarsi 
    alle guardie nazionali.




    Verso la metà del mese vi fu un’evasione in massa dal carcere di Granatello 
    di Portici di detenuti politici, che andarono ad ingrossare le bande partigiane.




    Nel frattempo, mentre il 13 agosto in Capitanata i patrioti avevano occupato 
    Zapponeta ed otto comuni del Vastese, Garibaldi scorrazzava per la Sicilia, 
    entrando in Catania il 18 agosto. La Marmora proclamò il 20 lo stato d’assedio 
    in tutta la Sicilia e dichiarò ribelle Garibaldi, che si accingeva a risalire 
    la penisola con il suo Corpo di Volontari.




    Il 22 agosto al massone Bastogi fu concesso l’appalto per la costruzione delle 
    ferrovie nel sud dell’Italia, per cui fu costituita la società delle Strade 
    Ferrate Meridionali. Nel consiglio d'amministrazione della società facevano 
    parte ben 14 deputati piemontesi, che erano stati anche ricompensati con 675.000 
    lire per il loro “interessamento”. Vice presidente della società fu nominato 
    Bettino Ricasoli. Lo Stato accordò un sussidio a Bastogi di 20 milioni di 
    lire e lo sfruttamento per 90 anni dei 1.365 chilometri di ferrovia. Tra i 
    finanziatori vi erano la Cassa del Commercio di Torino, i fratelli ebrei massoni 
    Isaac e Emile Pereire di Parigi, e la società di Credito mobiliare spagnolo 
    (di cui Nino Bixio era consigliere di amministrazione). Tra i vari possessori 
    delle azioni della società figuravano molti massoni, tra cui il fratello di 
    Cavour, il marchese Gustavo, il Nigra, il Tecchio, il Bomprini, il Denina, 
    il Beltrami.




    Dopo lo sbarco di Garibaldi, il 24 a Pietra Falcone, sulla spiaggia tra Melito 
    e Capo d’Armi, lo stato d’assedio fu esteso il 25 agosto a tutto il Mezzogiorno. 
    Approfittando dello stato d’assedio i piemontesi saccheggiarono moltissime 
    chiese, rubando ogni oggetto prezioso. Fu soppressa la libertà di stampa e 
    di riunione. Anche la posta fu censurata. Fu instaurata una feroce dittatura 
    militare. I principali comandanti patrioti di Terra d’Otranto, allora, si 
    riunirono nel bosco di Pianella, a nord di Taranto, per concordare l’unitarietà 
    del comando e la condotta delle operazioni, con lo stabilire le zone di competenza. 
    Il sergente Romano ebbe a disposizione oltre 300 uomini a cavallo, suddivisi 
    agli ordini dei luogotenenti Cosimo Mazzeo (Pizzichicchio), Giuseppe Nicola 
    La Veneziana, F.S. L’Abbate, Antonio Lo Caso (il capraro), Riccardo Colasuonno 
    (Ciucciariello), Francesco Monaco (ex sottufficiale borbonico) e Giuseppe 
    Valente (Nenna-Nenna, ex ufficiale garibaldino).




    In quei giorni, tutta la Terra d’Otranto rimase sotto il totale controllo 
    dei patrioti.




    Sull’Aspromonte il 29 agosto, a seguito di un brusco voltafaccia del governo 
    savoiardo (che fino allora l’aveva nascostamente appoggiato), vi fu uno scontro 
    tra le truppe piemontesi e gli avventurieri di Garibaldi, che fu intenzionalmente 
    ferito e fatto prigioniero. I piemontesi subito dopo gli scontri fucilarono 
    a Fantina, senza alcun processo, sette disertori piemontesi che erano con 
    Garibaldi, che a seguito della cattura fu rinchiuso per qualche tempo nel 
    forte di Verignano. Pochissimi popolani l’avevano seguito nell’avventura, 
    la maggior parte erano piemontesi disertori. Il Tribunale Militare degli invasori 
    piemontesi emise in seguito 109 condanne a morte, 19 ergastoli e 93 condanne 
    ai lavori forzati. Il Savoia, per questi fatti, concesse 76 medaglie al valore.




    Il 31 agosto un reparto del 18° bersaglieri uccise tredici patrioti ad Apice, 
    in provincia di Benevento. I patrioti di Tristany ebbero uno scontro a fuoco 
    con gli zuavi pontifici nei pressi di Falvaterra e a Castronuovo.




    Numerosi patrioti a cavallo attaccarono agli inizi di settembre reparti piemontesi 
    di stanza nell’Irpinia a Flumeri, a S. Sossio ed a Monteleone, alla masseria 
    Franza (Ariano) e nei boschi di S. Angelo dei Lombardi. Il 6 settembre i patrioti 
    riuscirono a disarmare la guardia nazionale di Colliano, in provincia di Campagna. 
    Notevole, il 7 settembre 1862, lo scontro alla masseria Canestrelle, nel Nolano, 
    di bersaglieri e cavalleggeri che attaccarono un gruppo di duecento patrioti, 
    che furono costretti a disperdersi, perdendo tuttavia 15 uomini. Dopo qualche 
    giorno, il giorno 11 settembre, i patrioti di Crocco e di Sacchetiello si 
    vendicarono alla masseria Monterosso di Rocchetta S. Antonio (Foggia) attaccando 
    un drappello di venti bersaglieri del 30° battaglione che furono tutti uccisi. 
    A Carbonara i patrioti di Sacchetiello massacrarono 25 bersaglieri del 20° 
    battaglione, comandati dal sottotenente Pizzi. Aliano e Serravalle furono 
    liberate dai patrioti che minacciarono di invadere anche Matera.




    In Pantelleria, nel frattempo, i piemontesi, che avevano instaurato in tutta 
    l’isola una feroce legge marziale, riuscirono a convincere quasi quattrocento 
    isolani a collaborare con le truppe savoiarde. Formate tre colonne, il colonnello 
    Eberhard, governatore militare dell’isola, fece avanzare il 18 settembre le 
    truppe a raggiera per setacciare tutta l’isola. I patrioti erano nascosti 
    in una profonda caverna posta quasi sulla sommità della Montagna Grande a 
    848 metri si altezza, in una posizione imprendibile, ma traditi da un pecoraio 
    furono circondati e dopo una sparatoria, in cui morirono alcuni piemontesi, 
    furono costretti ad arrendersi a causa del fumo di zolfo acceso davanti alla 
    caverna che aveva reso l’aria irrespirabile. I patrioti ammanettati, laceri 
    e smunti, furono fatti sfilare nelle strade di Pantelleria al suono di un 
    tamburo e col tricolore spiegato, tra ali di gente commossa fino alle lagrime. 
    Tutte le spese dell’operazione, lire 637, furono a carico del comune. Furono 
    incarcerati a Trapani, ma alcuni, tra cui due fratelli Ribera, riuscirono 
    a evadere dalle carceri della Colombaia. Dei rimanenti 14, processati il 14 
    giugno 1867, 10 furono condannati a morte per impiccagione e gli altri ai 
    lavori forzati.




    A Roma, in quei giorni, Francesco II si trasferì con tutta la sua corte nel 
    Palazzo Farnese, che era di proprietà dei Borbone, dopo averlo fatto ristrutturare, 
    poiché erano secoli che non era stato abitato.




    Il 1° ottobre a Palermo furono accoltellati simultaneamente, in luoghi diversi, 
    tredici persone. Uno degli accoltellatori, inseguito e arrestato, confessò 
    che gli era stato ordinato da un “guardapiazza” (quello che oggi viene chiamato 
    mafioso) di colpire alla cieca e che erano stati pagati con danaro proveniente 
    dal principe Raimondo Trigona di Sant’Elia, senatore del regno, delegato da 
    Vittorio Emanuele II. Da successivi controlli fatti dal piemontese sostituto 
    procuratore del re Guido Giacosa, evidentemente all’oscuro delle criminali 
    intenzioni del governo piemontese, venne accertato che i moltissimi omicidi, 
    avvenuti anche prima e molti altri dopo, avevano il solo scopo di “sconvolgere 
    l’ordine” per poter permettere e giustificare la feroce repressione così da 
    eliminare impunemente la resistenza siciliana antipiemontese. L’indagine, 
    che portò a riconoscere la responsabilità di quei sanguinosi crimini al reggente 
    della questura palermitana, il bergamasco (ma messinese di nascita) Giovanni 
    Bolis, antico affiliato carbonaro con La Farina, fu, comunque, subito chiusa.




    In quel mese di ottobre 1862 vi furono moltissime, alcune violente, manifestazioni 
    di quasi tutte le popolazioni delle Puglie e della Basilicata. I contadini 
    si rifiutarono di eseguire i lavori nei campi per protestare contro gli abusi 
    e le violenze dei soldati piemontesi. Alcuni contadini furono fucilati "per 
    dare l'esempio" dalle truppe piemontesi.




    Un gruppo di patrioti di Romano, comandato da Valente, riunitisi nella masseria 
    S. Teresa, decisero di attaccare la guardia nazionale e i carabinieri di Cellino 
    e S. Pietro Vernotico, che li braccavano. Tre militari furono uccisi “perché 
    portavano il pizzo all’italiana” e nove, furono sfregiati con l’asportazione 
    di un lembo dell’orecchio, per essere così “pecore segnate”. I gruppi 
    di Tardio invasero i paesi di S. Marco La Bruna, Sacco e S. Rufo, dove sgominarono 
    le guardie nazionali e ne saccheggiarono le case.




    Il 24 ottobre Tristany si scontrò sul confine pontificio con le truppe francesi 
    e subì la perdita di due ufficiali.




    Nel mese di ottobre, essendosi fatta insostenibile la sistemazione dei prigionieri 
    di guerra e dei detenuti politici, con la deportazione degli abitanti d'interi 
    paesi, con le "galere" piene fino all'inverosimile, il governo piemontese 
    diede incarico al suo ambasciatore a Lisbona di sondare la disponibilità del 
    governo portoghese a cedere un'isola disabitata dell'Oceano Atlantico, al 
    fine di relegarvi l'ingombrante massa di decine di migliaia di persone da 
    eliminare definitivamente. Il tentativo diplomatico, tuttavia, non ebbe successo, 
    ma la notizia riportata il 31 ottobre dalla stampa francese suscitò una gran 
    ripugnanza nell'opinione pubblica.




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    L'ISOLA PER DEPORTATI




    Il maggiore piemontese Aichelburg con fanti e bersaglieri attaccò il 2 novembre 
    a Tremoleto i patrioti di Petrazzi, uccidendo 9 guerriglieri. Tutto il Sud 
    fu diviso in zone e sottozone con posti fissi di polizia e fu raddoppiato 
    il numero dei carabinieri. I guerriglieri di Romano subirono una pesante sconfitta 
    il 4 novembre presso la masseria Monaci. Per quest'avvenimento Romano divise 
    le sue bande in piccoli gruppi più manovrabili, seguendo la tattica di Crocco. 
    A S. Croce di Magliano duecento patrioti di Michele Caruso attaccarono il 
    5 novembre la 13ª compagnia del 36° fanteria, massacrando il comandante ex 
    garibaldino dei “mille”, capitano Rota, e ventitré piemontesi. Il giorno dopo, 
    inseguiti da un battaglione del 55° fanteria, gli stessi patrioti tesero loro 
    un agguato e uccisero un sergente e tre soldati, senza subire perdite. A Torre 
    di Montebello una compagnia di bersaglieri del 26° e cavalleggeri del “Lucca” 
    in un furibondo combattimento distrusse l’8 novembre l’intera banda di Pizzolungo. 
    Quelli che furono fatti prigionieri furono immediatamente fucilati.




    Il 16 novembre, nonostante l’opposizione di La Marmora, fu revocato da Rattazzi 
    lo stato d’assedio nelle provincie meridionali, ma in realtà rimasero ancora 
    in vigore la soppressione ed il divieto di introdurre nel Mezzogiorno di tutta 
    la stampa non governativa e la sospensione delle libertà d'associazione e 
    di riunione. Addirittura furono intensificati gli arresti di semplici cittadini 
    solo per il fatto di essere “sospetti” patrioti borbonici. In Capitanata, 
    per ordine del generale Mazé de la Roche e del prefetto De Ferrari, furono 
    compilate liste d'assenti dal proprio domicilio e dei sospetti, furono istituiti 
    fogli di via senza dei quali nessuno poteva uscire dagli abitati, imposero 
    l’abbandono delle masserie e il divieto di portare generi alimentari nelle 
    campagne. Così nell’avellinese furono perquisite e saccheggiate le case degli 
    assenti, ai contadini fu ordinato di trasferirsi nei paesi con le masserizie, 
    il bestiame ed il raccolto. Divenne sistematico l’arresto dei parenti fino 
    al terzo grado dei patrioti. Le popolazioni, che già vivevano nel terrore 
    e nei soprusi dei piemontesi, vissero in quei lunghi mesi in modo veramente 
    tragico, anche perché ogni attività lavorativa fu in pratica soppressa e la 
    vita economica e sociale ne fu paralizzata.




    Il 17 novembre, per reazione, vi furono in vari paesi molti attentati a esponenti 
    liberali da parte dei patrioti. A Grottaglie i patrioti di “Pizzichicchio” 
    s'impadronirono addirittura della cittadina, dove liberarono i detenuti dalle 
    carceri e eliminarono tutti i possidenti liberali, che erano stati particolarmente 
    oppressivi con i loro braccianti, devastandone e saccheggiandone le abitazioni. 
    Furono abbattuti gli stemmi sabaudi e ripristinati le insegne borboniche tra 
    le grida di esultanza di tutta la popolazione e financo del sindaco, che giorni 
    dopo fu arrestato dai piemontesi.




    Il generale Franzini fece uccidere il 20 novembre alla masseria Lamia nove 
    patrioti delle bande di Petrozzi e Schiavone, catturati di sorpresa. L’indomani 
    a Rapolla, nei pressi di Ponte Aguzzo, uno squadrone cavalleggeri “Saluzzo” 
    attaccò un centinaio di patrioti di Crocco che perdette nove uomini. Altri 
    venti, tra feriti e catturati, furono subito fucilati. I patrioti di Romano, 
    in quel giorno, invasero le cittadine di Carovigno ed Erchie, disperdendone 
    la guardia nazionale e saccheggiando le abitazioni dei liberali conniventi 
    dei piemontesi.




    Il giorno 27 furono sorpresi a Casacalenda in una chiesa due patrioti che, 
    dopo essere stati incarcerati a Larino, furono fucilati “per tentata fuga” 
    due giorni dopo.




    Alla fine di novembre, morto il generale borbonico Statella, che da Roma ne 
    coordinava le azioni, nonostante gli appoggi forniti dal generale Bosco, il 
    gruppo di combattimento del colonnello Tristany si dissolse. Gli ufficiali 
    stranieri se ne tornarono ai loro paesi e i gregari si riversarono in altri 
    gruppi patrioti.




    Il primo dicembre un reparto del 10° fanteria, per effetto di una delazione, 
    riuscì a sorprendere alla masseria Monaci, nei pressi d'Alberobello, alcuni 
    gruppi patrioti di Romano, di cui fucilarono 14 uomini, compreso il capo partigiano 
    La Veneziana.




    Il giorno 11 dicembre i patrioti a cavallo di Michele Caruso assaltarono vittoriosamente 
    a Torremaggiore la 13ª compagnia del 55° fanteria, che tornava da Castelnuovo 
    Daunia, dove aveva compiuto operazioni di leva.




    A Ururi i piemontesi con uno stratagemma arrestarono il sindaco, tutti i consiglieri 
    ed il prete come “sospetti” e li fecero incarcerare a Larino. A S. Croce di 
    Magliano, su segnalazione del sindaco massone De Matteis, furono inviate truppe 
    piemontesi a circondare le masserie Verticchio, De Matteis e Mirano, dove 
    sono sorpresi e fucilati quattro patrioti. Nella stessa zona il comandante 
    della guardia nazionale di S. Martino, il massone conte Bevilacqua, con cento 
    uomini e una compagnia di fanti piemontesi riuscirono a catturare in un bosco 
    circa 47 patrioti, che furono tutti fucilati a Larino.




    Il 14 dicembre, a Napoli, nel carcere di S. Maria Apparente vi furono violenti 
    tumulti per le condizioni inumane in cui erano tenuti i prigionieri. Vivevano 
    in fetore insopportabile. Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, 
    vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, 
    senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perché aveva 
    profferito ingiurie contro i Savoia. Spesso le persone imprigionate non sapevano 
    nemmeno di cosa fossero accusati ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso 
    la ragione per cui erano imprigionati era solo per rubare loro il danaro che 
    possedevano. Molti non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni 
    venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica.
  Questo era il 
    governo dei Savoia, “vera negazione di Dio”.




    A Torino, per acquietare l’opinione pubblica, fu nominata il 15 dicembre una 
    Commissione d’inchiesta sul “brigantaggio”, dopo che vi erano state numerose 
    denunce contro le barbarie commesse dalle truppe piemontesi contro patrioti 
    che difendevano la libertà delle loro terre. Un deputato, Giuseppe Ferrari, 
    federalista convinto, aveva detto “...potete chiamarli 
    briganti, ma i padri di questi briganti hanno per due volte rimesso i Borbone 
    sul trono di Napoli... Ma in che consiste il brigantaggio ? nel fatto che 
    1.500 uomini tengono testa a un regno e ad un esercito. Ma sono semidei, dunque, 
    sono eroi ! ...Io mi ricordo che vi dissi che avendo visitato le province 
    meridionali avevo veduto una città di cinquemila abitanti distrutta, e da 
    chi ? dai briganti ? NO!” La città era Pontelandolfo.




    Il 17 dicembre i bersaglieri del 29° battaglione riuscirono a sgominare i 
    patrioti dell’avvocato Giacomo Giorgi presso Palata, nel Molise, dove uccisero 
    5 patrioti, catturando anche una partigiana.




    La banda di Carbone fu accerchiata il 20 dicembre da fanteria, cavalleria 
    e guardie nazionali nella masseria Boreano, nei pressi di Melfi. Furono tutti 
    uccisi appena catturati.




    Il 21 dicembre cavalleggeri piemontesi sorpresero nella cascina Barcana, nei 
    pressi di Venosa, una ventina di patrioti che fecero morire atrocemente tra 
    le fiamme.




    Il 23 dicembre, migliaia di cittadini di Napoli, inviarono una petizione al 
    Re Francesco II con la quale, nell’indicare le barbarie degli invasori piemontesi, 
    riaffermavano la fedeltà alla monarchia dei Borbone e la speranza di un prossimo 
    ritorno sul trono delle Due Sicilie.




    Il giorno 29 lo squadrone cavalleggeri “Saluzzo”, stanziati a Gioia del Colle, 
    salvarono un drappello di guardie nazionali di Acquaviva che erano stati circondati 
    dai patrioti. In Capitanata, reparti dell’8°, del 36° e del 49° fanteria, 
    comandati dal colonnello Favero, attaccati il 31 dicembre 1862 da un consistente 
    numero di patrioti vennero sterminati con perdite superiori ai 150 morti.




    L’anno 1862 si chiuse ....




    ...con una relazione alla Camera di Torino sulla situazione nell’ex Regno 
    delle Due Sicilie con i dati ufficiali di 15.665 fucilati, 1.740 imprigionati, 
    960 uccisi in combattimento. Gli scontri a fuoco di una certa consistenza 
    nell’anno furono 574. I meridionali emigrati all’estero furono circa 6.800 
    persone. Le forze piemontesi di occupazione risultarono costituite da 18 reggimenti 
    di fanteria, 51 “quarti” battaglioni di altri reggimenti, 22 battaglioni bersaglieri, 
    8 reggimenti di cavalleria, 4 reggimenti di artiglieria. Nei territori delle 
    Due Sicilie si contavano circa 400 bande di patrioti legittimisti, comandate 
    per la maggior parte da ex militari borbonici.




    Il Piemonte, che era lo Stato più indebitato d’Europa, si salvò dalla bancarotta 
    disponendo alla fine dell'anno l’unificazione del “suo” debito pubblico con 
    gli abitanti dei territori conquistati. Furono venduti, con prezzi irrisori, 
    ai traditori liberali tutti i beni privati dei Borbone e gli stabilimenti 
    pubblici civili e militari delle Due Sicilie. Tutte le spese 
    per la “liberazione” e dei lavori pubblici (affidati alle speculazioni 
    delle imprese lombardo-piemontesi) furono addebitate 
    proprio alle regioni “liberate” (!!). 




    Anche l’arretrato sistema tributario piemontese fu applicato nel Napoletano 
    ed in Sicilia, che fino allora avevano avuto un sistema fiscale mite, razionale, 
    semplice e soprattutto efficace nell’imposizione e nella riscossione, indubbiamente 
    tra i migliori in Europa. Al Sud fu applicato un aumento di oltre il 32 per 
    cento delle imposte, mentre gli fu attribuito meno del 24 per cento della 
    ricchezza “italiana”.


Del resto era
l’avverarsi di ciò che pochi secoli prima aveva detto

Emanuele Filiberto di Savoia

(“L’Italia? E' un carciofo di cui i Savoia mangeranno una foglia alla volta”
);

  Lo stato 
    sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di 
    carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro e d'argento 
    insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle "polizze notate" 
    alle quali però corrispondeva l'esatto controvalore in oro versato 
    nelle casse del Banco delle Due Sicilie. 


    Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della "convertibilità" 
    della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non 
    corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l'istituto bancario 
    emittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti 
    dello stato. 


    In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana 
    era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica 
    doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantità d'oro o d'argento 
    in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale). 



    A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco 
    delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare 
    dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta così 
    come previsto dall'ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi 
    avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero 
    potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (benché ai 
    due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno). 
    Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre passò nelle casse piemontesi. 









  Massimo 
    d'Azeglio, in una lettera al senatore Matteucci scriveva tra l'altro: "A 
    Napoli noi abbiamo cacciato il sovrano per ristabilire un governo fondato 
    sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra ciò non basti, sessanta 
    battaglioni...Abbiamo  il suffragio universale? Io nulla so di suffragio; 
    ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di 
    là sono necessari. Ci dev'essere per forza qualche errore.... Bisogna cangiare 
    atti o principi..." (ed era filo-piemontese!)


Antonio
Pagano
_______________________________



RICEVIAMO
E PUBBLICHIAMO



Buongiorno

Ho letto gli articoli del sig. Antonio Pagano sull'occupazione piemontese del
meridione negli anni 1860.

Non avendo motivo di dubitare sulla veridicità dei dati riportati (e
tantomeno sulla buona fede del sig. Franco del cui sito sono e resterò
frequentatore), vorrei porgere delle domande, rivolte all'autore di tali articoli:

1) è vero che
la legge sabauda (Casati, '59) non risolse l'analfabetismo, che in piemonte
viaggiava intorno al 50%, ma perchè nel brillante stato borbonico si
toccò il 90%?

2) può dirsi efficiente
un sistema economico basato sul protezionismo? Chiedere ai governi della Sinistra
Storica e al fascismo

3) perchè il buon
siciliano Orlando, uno dei 30000 rifugiati politici che il piemonte ospitava,
i suoi cantieri non potè aprirli a casa sua?? E perchè la tremenda
dittatura piemontese permise a ben 2300 di entrare tra le file dell'amministrazione
entro il '57?

3) è vero che il buon
Ferdinando fu il primo a emanare una Costituzione nel '48 a cui si ispirò
sicuramente Carlo Alberto, ma perchè lo fece solo quando una rivoluzione
rischiava di portargli via la cadrega, mentre Calro Alberto fece esperienza
dei moti del '21 e una volta libero dal conservatore Carlo Felice, potè
crescere in senso liberare? e soprattutto perchè nel '49 la costituzione
borbonica era già carta straccia?

4) come complici dei piemontesi
cita spesso i lombardi (usciti da poco da una tremenda dittatura) come rapaci
imprenditori. Vorrei sapere dov'era la brillante e competitiva classe borghese-industriale
nata da un secolo di buon governo borbonico.

5) è vero che il piemonte
era lo stato più indebitato d'europa (avendo affrontato in 50 anni la
crisi della restaurazione e i moti rivoluzionari, due guerre d'indipendenza
e la guerra di Crimea) e che la leva obbligatoria e l'alta pressione fiscale
erano impopolari, ma perchè i lombardi e i toscani, seppur con mille
smorfie, pararono il colpo mentre la solida economia meridionale ci lasciò
quasi le penne (vorrei ricordare che, moti esclusi, era dal 1745 che i borboni
non combattevano una guerra: il tempo per fare due conti l'hanno avuto)?

6) La legge elettorale censitaria
non la si può certo chiamare rappresentativa nè in Piemonte nè
altrove, ma mi dica un po' che percentuale di popolazione portava alle urne
al Nord e che percentuale portava nel ricco Sud...



La lista potrebbe continuare
ma sarebbe inutile.

Credo sia ovvio che lo stato piemontese fu cieco, superficiale ed egoista, ma
è altrettanto ovvio che lo stato Borbonico più che un solido edificio
travolto da un uragano, non era altro che una capanna di frasche secche su cui
si appoggiò uno scatolone di piastrelle!

Concludendo, da piemontese anti-risorgimentale, invito chiunque a diffondere
questo sano "revisionismo", senza tuttavia scadere in ridicole e infondate
nostalgie borboniche.

Confido in una risposta ed eventuali dati che smentiscano le mie tesi sono molto
ben accetti

(la storia è una delle poche cose che devono essere certe e assolute,
aldilà di ogni battibecco personale!)

Luca da Torino

(Piemonte)

____________________________________________
Può rispondere
alle domande del sig. Luca il sig. Antonio Pagano

oppure chi la pensa come lui.

Franco
-------------------
riceviamo da ANTONIO PAGANO

Carissimo Franco,

    Un lettore mi ha segnalato che un tale Luca, piemontese, voleva delle risposte 
    ad alcune sue domande. Poiché non non ne ero a conoscenza prima rispondo 
    ora. 


    Già altre volte ho avuto modo di dialogare sulle stesse cose con altri 
    piemontesi e ho visto che è del tutto defatigante spiegare alcune cose 
    perché alla fine non si arriva ad alcun charimento. Loro restano sulle 
    loro opinioni e chiedono sempre le stesse cose. Allora questa volta voglio 
    rispondere con un raccontino.


    Un tale, mentre se ne sta buono nella sua casa, viene aggredito da alcuni, 
    rubato di quanto possiede e bastonato perché si è permesso di 
    difendersi. Gli aggressori poi, installatosi nella sua casa, lo rimproverano 
    per giunta perché se ne sta buttato a terra tutto sporco.


    E' la stessa cosa che hanno fatto i piemontesi.


    Le domande che loro fanno su chi era più bravo e buono non significano 
    nulla e, in fondo, a loro non interessano granché. Servono solo a deviare 
    il discorso dall'aggressione che il Sud ha dovuto subire. 


    Se quel Luca vuol sapere chi era il più bello e il più bravo 
    se lo vada a cercare negli Archivi di Stato, negli Archivi portuali (Genova 
    e Napoli), negli Archivi delle Banche, delle Camere di Commercio, nelle relazioni 
    fatte dagli Ambasciatori di Francia, di Svizzera, dell'Inghilterra, ecc. dove 
    troverà la verità, se è questa che vuole sapere e che 
    è quanto ho fatto io personalmente.


    Con ogni considerazione e cordiali saluti, 


    Antonio Pagano


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TI AGGIUNGO


ANCHE QUEST'ALTRO MIO INTERVENTO

  Uno dei progetti criminali 
    del risorgimento piemontese contro i Duosiciliani
  LA DEPORTAZIONE
  (dal numero 1, anno 2003, 
    della rivista Due Sicilie. Direttore Antonio Pagano)


  "Se 
    ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un'implacabile frequenza, 
    se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l'opinione e i costumi in Italia 
    vi ripugnerebbero, i giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere 
    in ogni caso le circostanze attenuanti.


    Bisogna 
    dunque pensare ad aggiungere alla pena di morte un'altra pena, quella della 
    deportazione, tantopiù che presso le impressionabili popolazioni del 
    Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce 
    più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti 
    dall'idea di andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno 
    col più grande stoicismo incontro al patibolo".
  Le parole di cui sopra 
    sono del Ministro degli Esteri del Regno d’Italia, il milanese Emilio 
    Visconti Venosta, indirizzate al Ministro a Londra, il piemontese Carlo Cadorna, 
    in data 19 dicembre 1872 da Roma neonata capitale (Documenti 
    Diplomatici Italiani [d’ora in poi, con la sigla D.D.I.], 2a Serie, 
    Vol. IV, n. 235). 
  Esse danno un’idea 
    abbastanza luminosa del clima di terrore ancora imperante nelle Due Sicilie: 
    nonostante fossero trascorsi ben dodici anni dal cataclisma del 1860, le prigioni 
    erano zeppe di prigionieri politici, 11.635 nella sola città di Napoli, 
    mentre gli ultimi fuochi di resistenza andavano spegnendosi. 


UN MANUTENGOLO MORALE

  Il Visconti Venosta, 
    come gli altri personaggi che incontreremo nel corso del presente studio, 
    la cui ossatura sarà costituita principalmente da estesi documenti 
    diplomatici monotematici, era un esponente di spicco della Destra storica 
    "italiana", di quella Destra della quale il Croce ebbe a tessere, 
    forse in un momento di depressione intellettuale, nel 1927, il seguente elogio: 
    «…di rado un popolo ebbe a capo della 
    cosa pubblica un'eletta di uomini come quelli della vecchia Destra italiana, 
    da considerare a buon diritto esemplare per la purezza del loro amore di patria 
    che era amore della virtù, per la serietà e dignità del 
    loro abito di vita, per l'interezza del loro disinteresse, per il vigore dell'animo 
    e della mente, per la disciplina religiosa che s’erano data sin da giovani 
    e serbarono costante: il Ricasoli, il Lamarmora, il Lanza, il Sella, il Minghetti, 
    lo Spaventa e gli altri di loro minori ma da loro non discordi, componenti 
    un'aristocrazia spirituale, galantuomini e gentiluomini di piena lealtà. 
    Gli atti loro, le parole che ci hanno lasciate scritte, sono fonti perenni 
    di educazione morale e civile, e ci ammoniscono e ci confortano e ci fanno 
    a volte arrossire; sicché deve dirsi che, se cadde dalle loro mani 
    il fuggevole potere del governo, hanno pur conservato il duraturo potere di 
    governarci interiormente, che è di ogni vita bene spesa ed entrata 
    nel pantheon delle grandezze nazionali» (Benedetto 
    Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Adelphi, 1991, pag. 16), 
    cioè il panegirico di spietati fucilatori come, nel Reame, non se ne 
    erano visti prima se non in epoca giacobina francese.


  AFFANNOSA RICERCA DI 
    UN ANGOLO DI TERRA
  La lettera del Venosta 
    aggiunge particolari a particolari: 
  «…Ora, 
    in quest’ordine di idee, e intorno ai nostri progetti di colonia penitenziaria, 
    io La prego di avere sollecitamente una nuova conversazione con Lord Granville 
    [Ministro degli Esteri di Sua Maestà Britannica, ndr]. Ella fu incaricata, 
    or sono molti mesi, di chiedere al Governo inglese se per parte sua non vi 
    fossero state obbiezioni alla cessione all'Italia, per parte di un capo indipendente, 
    d'un territorio posto sulla costa Nord Est di Borneo. Questo capo indipendente 
    aveva degli impegni col governo dell’India; noi non volevamo quindi 
    procedere nelle pratiche senza prima prevenire il Governo inglese ed avere 
    la sua morale adesione. Finora non abbiamo ottenuto una risposta. Lord Granville 
    avrà dovuto certamente consultare i dipartimenti competenti ed anche 
    il Governo dell’India. Lo spazio di tempo trascorso però è 
    tale che abbiamo dovuto supporre che questo scambio di comunicazioni abbia 
    già avuto luogo, e che il loro risultato essendo sfavorevole, si abbia 
    preferito il silenzio ad una risposta negativa…In questo stato di cose, 
    io La prego di avere, colla maggiore sollecitudine possibile, una aperta e 
    leale spiegazione con Lord Granville e anche parmi opportuno che Ella interessi 
    in questo argomento il Signor Gladstone, il quale ha tante volte portato con 
    predilezione il suo pensiero sulle condizioni politiche e sociali dell'Italia 
    e ci ha, da tanti anni, abituati a contare sulla sua simpatia. Lo scopo che 
    perseguiamo non può che essere approvato, il sentimento che ci muove 
    è quello di un Governo che vuole adempiere ai suoi doveri. 


    I nostri rapporti coll'Inghilterra e la convinzione della solidarietà 
    di interessi che esiste fra i due Paesi ci consigliano di non agire se non 
    d'accordo con essa e colla sua morale adesione in quelle contrade dove la 
    politica inglese ha tanti e tanto potenti interessi. D'altronde non si può 
    supporre che noi abbiamo l’interesse di fare amministrativamente una 
    razzia di malviventi e di gettarli a caso su una spiaggia remota. Ella sa 
    che si tratta per noi di introdurre la deportazione nella scala penale dei 
    nostri codici e di regolare, col concorso del Parlamento, il piano di uno 
    stabilimento penitenziario di deportazione, ma regolare e dietro tutti i suggerimenti 
    della esperienza e della scienza. 


    Ma prima di tutto questo, bisogna che il Governo possa offrire la possibilità 
    di trovare un luogo non troppo lontano dalle grandi linee della navigazione, 
    in condizioni di clima compatibili coll’umanità e colle altre 
    condizioni richieste.
  L'Inghilterra 
    ci potrebbe rendere senza alcun suo sacrificio, un vero servizio, dandoci 
    prova di buona volontà e prestandoci un certo concorso morale nel raggiungere 
    il nostro scopo.
  La 
    prego dunque innanzi tutto di chiedere una risposta relativamente al territorio 
    nord-est di Borneo, risposta che, a quest'ora, non può a meno d'essere 
    pronta.
  In 
    seguito La prego di accertarsi se noi possiamo contare su qualche buona disposizione 
    da parte del Governo inglese. è abbastanza nella natura degli ufficj 
    e delle autorità coloniali d'essere diffidenti alquanto ed esclusive. 
    Se quest'affare, dunque in ogni circostanza, sèguita le vie burocratiche, 
    si potrà attendersi sempre a difficoltà e ad ostacoli. Le ragioni, 
    per esempio, che consigliarono il rifiuto per l'isola di Socotra la quale 
    non pare che appartenga ora all'Inghilterra, non furono indicate nella lettera 
    particolare di Lord Granville, e forse se fossero state esaminate non sarebbero 
    parse sufficienti per motivare un definitivo rifiuto. 


    La prego, anche a nome del Presidente del Consiglio, di occuparsi colla maggiore 
    sollecitudine, e col maggiore interesse, di questo affare. è da molti 
    anni ormai che cerchiamo un angolo di terra, ma col desiderio e coll'intento 
    di non metterci attraverso delle vedute e degli interessi inglesi, anzi col 
    desiderio che lo scopo ci fosse agevolato dai consigli e dall'accordo morale 
    del Governo britannico. Oramai ci preme di uscire dai dubbii a questo riguardo 
    e di accertarci delle disposizioni reali che possiamo trovare».


  ROMAGNOLI TRA I BRIGANTI
  La stessa lettera ci 
    informa che il Visconti Venosta, alcuni giorni prima, aveva avuto un incontro 
    col Ministro d'Inghilterra Sir Bartle Frere, "una delle persone più 
    competenti nelle questioni della politica inglese nelle colonie indiane", 
    che si recava a Brindisi all’imbarco per Zanzibar in missione antischiavitù. 
    Con lui toccò l’argomento dei progetti del governo "italiano" 
    per la costituzione di una colonia penitenziaria, cioè un campo di 
    concentramento lontano dagli occhi di tutti in un territorio remoto della 
    Terra, in particolare nel Borneo. 
  Apprendiamo, con una 
    certa meraviglia, che anche la Romagna dava grattacapi politici di non poco 
    conto, se questi venivano equiparati a quelli che procurava l'ex Regno delle 
    Due Sicilie: 
  «Spiegai a 
    Sir B. Frere qual’era la nostra situazione. Noi non abbiamo alcuna volontà 
    né alcuna ragione di metterci ora a fare della politica coloniale. 
    Anche uno stabilimento di deportazione non sarà forse per l’Italia 
    un'istituzione permanente. Ma abbiamo in alcune parti d’Italia alcune 
    piaghe sociali triste retaggio del passato. Queste piaghe vogliamo guarirle 
    a qualunque costo - è per noi una questione di dovere e di onore nazionale. 
    Noi non vogliamo transigere con questi disordini e rassegnarci a fare menage 
    con essi. Abbiamo passato questi anni a fare grandi sforzi per metterci in 
    misura di far fronte ai nostri impegni finanziari; un sentimento analogo di 
    dovere ci impone di porre un termine alle condizioni anormali della Romagna, 
    del Napoletano, della Sicilia, di ristabilire colà una sicurezza pari 
    a quella delle altre parti di Italia e degli altri paesi civili d'Europa. 
    Questo dovere, i giornali inglesi ce lo fanno spesso sentire in un modo certo 
    più sincero che obbligante».


  ATTERRITE QUESTE POPOLAZIONI
  Le sottigliezze diplomatiche 
    del Venosta, le sue false argomentazioni, la sua finta innocenza, che servono 
    a coprire il suo ruolo odioso di invasore, che con tutto il suo governo aveva 
    inviluppato il Sud in un immenso grumo di sofferenza e di sangue, non devono 
    trarre in inganno. 
  Appena due anni prima 
    un alto ufficiale operante in Calabria in funzione antibrigantaggio dava ordini 
    lapidari: "Atterrite queste popolazioni", 
    terrore in nulla diverso da quello imposto, già negli anni 1808/1810 
    sempre in Calabria dall’accoppiata di criminali di guerra Charles Antoine 
    Manhès e Pietro Colletta, quest’ultimo lo storico esaltato nei 
    libri di scuola, colà inviati dall'ambizioso e folle "re" 
    Gioacchino Murat per reprimere le insorgenze antinapoleoniche. Importante 
    in proposito il carteggio tra il colonnello Milon, ex ufficiale dell'esercito 
    duosiciliano passato nelle file del governo di occupazione, e il generale 
    Sacchi di Pavia, carteggio raccolto con gran diligenza dal professor Eugenio 
    De Simone (Atterrite queste 
    popolazioni, Editoriale Progetto 2000, Cosenza, 1994). 
  Il piano di deportazione 
    del Venosta coincideva quasi alla lettera con quello che il generale Sacchi 
    di Pavia esplicitava al colonnello Milon in data Agosto 1868 da Catanzaro 
    (pag. 93 del carteggio), segno di perfetta intesa tra militari e governo : 


  «Esposi al 
    Ministero con dettagliata relazione l’opportunità e l'urgenza 
    di adottare provvedimenti pei numerosi arrestati per ragione di brigantaggio; 
    prevedendo difficile l'ottenere misure eccezionali che vogliono essere autorizzate 
    dal Parlamento insistetti nel reclamare un provvedimento di traslocazione 
    ad altre carceri di un buon numero di detenuti; si verrà così 
    a conseguire il risultato per noi importante di allontanarli dai loro luoghi 
    natii e così impressionare le popolazioni».


  1862: QUI COMINCIA L'AVVENTURA…
  Circa "l'angolo 
    di terra" in cui relegare la parte del popolo duosiciliano riottosa al 
    nuovo ordine e sopravvissuta alle fucilazioni, i documenti da noi raccolti 
    spaziano dal 1862 al 1873. Il più antico è un telegramma, il 
    n. 640, in francese!, del 17 novembre 1862, inviato dal Ministro piemontese 
    a Lisbona, Della Minerva, al Ministro degli Esteri, Durando: 
  «La 
    pubblicazione d’un dispaccio telegrafico da Parigi in data 6 dove a 
    seguito lettera da Torino si parla di negoziazioni tra l’Italia e il 
    Portogallo per cessione isola nell'Oceano, col fine di relegarvi briganti, 
    ha talmente commosso opinione pubblica e la stampa che il ministero ha già 
    fatto smentire tale notizia. Penso che per il momento sarebbe meglio sospendere 
    ogni tentativo se si vuol farne più tardi con successo» (La publication 
    d'une dépêche télégraphique de Paris du 6 où 
    d'après lettre de Turin on parle de négociations entre l'Italie 
    et le Portugal pour cession île dans l'Océan, afin d'y réléguer 
    coquins, a tellement ému opinion publique et la presse que le ministère 
    a déja fait démentir cette nouvelle. Je pense que pour le moment 
    il serait mieux suspendre toute démarche si l'on veut en faire plus 
    tard avec succès)». 
    (D.D.I., 1a Serie, Vol. III, 
    1862). 
  Guido Po, uno storico 
    di cose marinare, aggiunge, senza citarne la fonte, che il Ministero degli 
    Esteri aveva fatto richiesta al Portogallo anche per una località nel 
    Mozambico o nell’Angola (Il giovane Regno d'Italia alla ricerca di una 
    colonia oceanica, in Nuova Antologia, fasc. n. 1339, anno 1928, pp. 516/528, 
    affermazione riconfermata dallo stesso nella Rivista di Cultura Marinara, 
    gennaio-febbraio 1942, pp. 3/13), ma di tale affermazione non s’è 
    da noi trovato riscontro nei documenti diplomatici. 
  Quali considerazioni 
    avevano spinto il governo italiano a rivolgersi, nella ricerca di un angolo 
    di terra straniera a fini di deportazione, in primo luogo al Portogallo? La 
    risposta va individuata nel legame parentale instauratosi nel mese di luglio 
    di quell’anno 1862 in seguito all'avvenuto matrimonio tra la figlia 
    del Savoia II, Maria Pia, e Luigi I di Braganza, Re di quel Regno da appena 
    un anno. Il sire savoiardo e il suo entourage governativo volevano evidentemente 
    trarre profitto da quella alleanza dinastica per trasformarla in un’alleanza 
    di malaffare dai contorni abietti, malaffare che suscitò però 
    ripugnanza e indignazione nel popolo portoghese. L’accorto sovrano non 
    volle rendere il suo popolo e se stesso complici di un crimine che la storia 
    avrebbe giudicato severamente.


  UNO SCIENZIATO PAZZO 
    AL GOVERNO
  Il progetto di una colonia 
    di deportazione di Duosiciliani fu ripreso nel 1867 dall'allora Presidente 
    del Consiglio e Ministro degli Esteri, Luigi Federico Menabrea, savoiardo 
    di Chambery. Questi in data 30 novembre rivolgeva al Ministro a Londra, Emanuele 
    D'Azeglio, la seguente nota il cui contenuto doveva rimanere segreto: 
  «Vengo 
    a farvi carico di una comunicazione particolarmente delicata e segreta. Da 
    molto tempo il Governo cerca un luogo di deportazione per i condannati. Informazioni 
    recenti ci indicano come molto adatta a tale scopo una regione situata sulla 
    costa del Mar Rosso presso il paese dei Galla [Eritrea, ndr] in contiguità 
    dell’Abissinia e che attualmente, per la verità, non appartiene 
    ad alcun sovrano. Noi vorremmo occuparla; ma prima di intraprendere alcunché, 
    sarebbe essenziale essere certi che da parte dell'Inghilterra non ci sarebbe 
    opposizione. Vi prego dunque di sondare l’opinione di Lord Stanley [Ministro 
    degli Esteri britannico, ndr] su questo argomento. Fate valere questa ragione: 
    che il paese in questione da noi non viene occupato, lo sarà probabilmente 
    da parte della Francia che certamente si affretterebbe a piantarvi la sua 
    bandiera dopo l'apertura dell’istmo di Suez e potrebbe così creare 
    difficoltà all’Inghilterra. Del resto questo desiderio, da parte 
    nostra, non è affatto il risultato di una politica di conquista che 
    non è nelle nostre mire, ma un bisogno di sicurezza interna di cui 
    l’Italia non potrà gioire finché non ci sarà un 
    luogo remoto per trasportarvi i numerosi criminali che affollano le sue prigioni. 
    Noi contiamo sulla buona volontà che, a tutt’oggi, l'Inghilterra 
    ha dimostrato verso l'Italia perché essa, l'Inghilterra, non sia un 
    ostacolo ai nostri progetti» (D.D.I., 
    1a Serie, Vol. IX, n. 631) (Je vais vous charger d'une communication 
    particulièrement délicate et secrète. Depuis longtemps 
    le Gouvernement cherche un lieu de déportation pour les condamnés. 
    Des renseignements récents indiquent comme très adaptée 
    à ce but une région située sur le bord de la Mer Rouge 
    près du pays des Gallas en contiguité de l'Abyssinie et qui, 
    actuellement n'appartient réellement à aucun souverain. Nous 
    voudrions l'occuper: mais avant de rien entreprendre, il serait essentiel 
    d'être assuré que de la part de l'Angleterre il n'y aurait pas 
    d'opposition. Je vous prie donc de sonder l'opinion de lord Stanley à 
    ce sujet. Faites valoir cette raison que le pays en question n'est pas occupé 
    par nous, et il le sera probablement par la France, qui certainement s'empresserait 
    d'y planter son drapeau après l'ouverture de l'isthme de Suez et pourrait 
    ainsi créer des embarras à l'Angleterre. Du reste ce désir 
    de notre part n'est point le rèsultat d'une politique de conquête 
    qui n'est nullement dans nos vues, mais un besoin de sécurité 
    intérieure dont l'Italie ne pourra jouir tant qu'elle n'aura pas un 
    lieu éloigné pour y transporter les nombreux criminels qui encombrent 
    ses prisons. Nous comptons sur le bon vouloir que l'Angleterre a toujours 
    démonstré envers l'Italie pour qu'elle ne soit pas un obstacle 
    à nos projets).


  LA PRUDENZA INGLESE
  Il Ministro a Londra 
    D’Azeglio, contrariamente alla storica burocratica lentezza tutta italica, 
    rispose con inusitata rapidità, due giorni dopo, 2 dicembre 1867 ore 
    16,50, con telegramma n. 875 (D.D.I., 1a Serie, Vol. IX, n. 643): 
  «Circa la deportazione, 
    Stanley non ha detto né sì né no, e non è sembrato 
    affatto troppo contrario. S’è riservato di dare una risposta; 
    ma egli desidera che il progetto sia differito, in ogni caso, a dopo la guerra 
    dell'Abissinia, altrimenti questo farebbe nascere delle complicazioni sollevando 
    i nativi contro gli europei. Gli ho detto di ricordarsi della Francia» 
    (Stanley n’a dit ni oui ni non quant à la déportation 
    et il n'a point paru trop contraire. Il s'est réservé de donner 
    réponse; mais il désire que le projet en tout cas soit differé 
    après la guerre de l'Abyssinie, sinon cela ferait naître des 
    complications en soulevant les naturels contre les européens. Je lui 
    ai dit de se souvenir de la France).


  LA PATAGONIA ARGENTINA
  Il Menabrea, uno dei 
    carnefici di Gaeta, prototipo degli scienziati criminali - esperto di balistica, 
    aveva diretto, nel 1860, i cannoni contro la fortezza e soprattutto contro 
    l'ospedale - non demorde dal progetto, decide di battere strade al di fuori 
    dell'influenza o presenza inglese. Dall’Africa orientale all'America 
    meridionale, obiettivo la Patagonia, estremo limite meridionale dell'aspro 
    cono argentino, un territorio all'apparenza terra di nessuno. 
  Circa un anno dopo infatti, 
    in data 16 settembre 1868, sempre da Firenze, affida un dispaccio riservato 
    (D.D.I., 1a Serie, Vol. X, n. 523) al Ministro Della Croce in partenza per 
    Buenos Aires, documento stilato stavolta in italiano, ché dopo 4 anni 
    di soggiorno in Toscana aveva cominciato a masticare un po' di dantesco idioma: 


  «Fra 
    gli interessi gravissimi ai quali il Governo del Re deve porgere ogni sua 
    cura, tiene un luogo distinto quello che si riferisce all'efficacia dei sistemi 
    punitivi onde migliorare la condizione morale del nostro paese. La S.V. non 
    ignora certamente in quali tristi condizioni queste versano in alcune parti 
    d'Italia, ed Ella ben conosce come più volte già il Governo 
    del Re abbia dato opera a ricercare se, col mezzo di stabilimenti penali in 
    lontane contrade e colla deportazione dei rei, non raggiungerebbesi quel miglioramento 
    che, nelle condizioni presenti, è pressoché impossibile ottenere 
    col sistema in vigore della reclusione e dei bagni.
  In 
    tempi addietro furono fatti studi per fondare uno stabilimento di simil natura 
    nelle regioni dell'America del Sud e più particolarmente in quelle 
    bagnate dal Rio Negro che i geografi indicano come limite fra i territori 
    dell'Argentina e le regioni deserte della Patagonia. Quel progetto benché 
    sia rimasto allo stadio di semplice studio preparatorio, potrebbe forse utilmente 
    essere coltivato quando difficoltà d'indole politica non venissero 
    ad attraversarlo. Epperò il Governo del Re vorrebbe che la S.V., assunte 
    quelle informazioni che Le sarà agevole procurarsi al suo giungere 
    in Buenos Aires, subito si adoperasse a scandagliare le disposizioni del Governo 
    della Repubblica Argentina per ciò che potrebbe riguardare l'effettuazione 
    da parte nostra del progetto sovra indicato. Le terre che da noi si potrebbero 
    occupare a quest’effetto sarebbero scelte tra quelle interamente disabitate 
    e sulle quali non si estende la sovranità effettiva di alcun Stato. 
    Limitata allo scopo poc’anzi accennato, l'occupazione territoriale non 
    avrebbe in vista lo stabilimento di una vasta colonia destinata ad acquistare 
    una importanza politica: quindi è che come assolutamente prive di fondamento 
    si dovrebbero ritenere le apprensioni che da quel nostro progetto potrebbero 
    sorgere nelle repubbliche meridionali dell'America. Noi facciamo assegnamento 
    particolare sulla sagacità della S.V. per tutto ciò che può 
    agevolare il compimento di un disegno che, ove potesse attuarsi, riuscirebbe 
    di molto vantaggioso al nostro paese.
  Ella 
    vorrà pertanto, appena avrà raccolto le necessarie indicazioni, 
    riferire al R..Governo il risultamento delle di Lei investigazioni».


  RIFIUTO DELL’ARGENTINA
  Giunto in Argentina, 
    il Ministro Della Croce, espletate le indagini di rito, in data 10 dicembre 
    1868 risponde con un lettera riservata, il cui contenuto non lascia dubbi 
    in proposito: il progetto era destinato a naufragare perché il Ministro 
    degli Esteri di quel paese aveva lasciato "chiaramente intendere" 
    che il suo Governo vantava "diritti chiari e incontestabili" 
    sul territorio patagonico e pertanto non avrebbe mai acconsentito allo stabilimento 
    di una colonia straniera di deportazione su una terra che esso considerava 
    sua a tutti gli effetti anche se sussisteva contesa col governo del Cile che 
    a sua volta accampava diritti di sovranità territoriale: 
  «Appena 
    giunto a Buenos Aires mi sono immediatamente occupato della quistione che 
    formava l'oggetto del dispaccio riservato dell'E.V. … Non ebbi difficoltà 
    a conoscere che la Repubblica Argentina ha preteso in ogni tempo e pretende 
    tuttora ad un assoluto diritto di neutralità sulle terre tutte di Patagonia 
    al di là e al di qua dello stretto di Magellano. Ho pure saputo che 
    alla foce del Rio Negro indicata da V.E. la sovranità di fatto della 
    Repubblica è incontestabile esistendo colà al luogo appunto 
    ove sorgeva l'antica missione del Carmen, un forte occupato da soldati argentini. 
    Dopo questi ragguagli poca speranza mi rimaneva che ai disegni del governo 
    Italiano potessero essere favorevoli gli animi di questi Governanti tanto 
    suscettivi per ciò che si riferisce ai veri o pretesi loro diritti 
    di sovranità. Non di meno ne parlai jeri al Ministro degli Affari Esteri. 
    Questi mi confermò quanto ebbi l'onore di esporre più sopra 
    aggiungendomi che i diritti della Confederazione sulla Patagonia e sullo stretto 
    di Magellano erano chiari e incontestabili, che il Governo Argentino aveva 
    è vero una quistione pendente a questo riguardo colla Repubblica del 
    Chili la quale aveva da varii anni fondato una colonia nello stretto summentovato, 
    ma che egli non dubitava menomamente che sottoposto il litigio a qualsiasi 
    arbitro la Repubblica Argentina ne uscirebbe vincitrice; che quanto al possesso 
    o dominio di fatto la Repubblica intendeva di estenderlo ogni giorno maggiormente 
    per respingere sempre più le tribù indiane e mettere un termine 
    alle loro incursioni, che a tale oggetto in questi giorni stessi si dovevano 
    occupare nuovi punti verso il Sud. Sulla proposta poi del Governo Italiano 
    che io gli feci in via di semplice e privata conversazione egli riservossi 
    di conferirne col Presidente ma mi lasciò chiaramente intendere che 
    il Governo Argentino non vi avrebbe aderito». 


  TERRORE NELLE CALABRIE
  Intanto negli stessi 
    mesi il colonnello di Stato Maggiore Bernardino Milon ex alto ufficiale delle 
    Due Sicilie divenuto camerata del generale Presidente Menabrea, in perfetta 
    consonanza di intenti col governo "italiano" composto, come visto, 
    da uomini "virtuosi" secondo le oblique vedute del Croce, spargeva 
    terrore nelle Calabrie e ne riferiva al suo superiore generale Sacchi nei 
    termini seguenti: "il mio arrivo qui ha prodotto 
    terrore, e difatti ieri a notte in Sorbo quasi tutti gli abitanti dormirono 
    in campagna per tema di essere da me arrestati" (Eugenio 
    De Simone, ibidem, pag. 111), arresti a cui seguiva inesorabilmente, 
    per tentata fuga, la fucilazione. Merita di essere qui riprodotto un manifesto 
    terroristico di codesto colonnello, traditore del suo popolo:


  COMANDO DELLA ZONA MILITARE 
    DELLE CALABRIE CITRA ED ULTRA 2a
  "L'attuale 
    stagione permettendo di attuare altre misure per la totale distruzione del 
    brigantaggio, questo Comando determina quanto appresso:
  1° 
    - Tutte le mandrie, di qualunque specie esse siano, dovranno essere al più 
    presto concentrate;
  2° 
    - Tale concentramento dovrà essere per contrade;
  3° 
    - I posti armati delle varie mandrie, della medesima contrada, saranno tutti 
    riuniti in punto centrale, intorno al quale sarà solo permesso di tenere 
    i pagliai;
  4° 
    - Nelle ore del giorno le mandrie potranno liberamente pascolare entro il 
    terreno della rispettiva contrada, ed è severamente proibito ai Mandriani, 
    foresi o qualsiasi persona, che le custodiscono, di asportare seco, nelle 
    ore del pascolo, pane od altri generi di vittitazione, dovendo tali generi 
    essere custoditi presso il posto armato centrale, ove è solo permesso 
    di consumarli. I posti armati saranno direttamente responsabili di ogni contravvenzione 
    a tali disposizioni.
  I 
    Signori comandanti degli scompartimenti, Distaccamenti, RR. Carabinieri e 
    Guardie Nazionali sorveglieranno per lo esatto adempimento delle suaccennate 
    determinazioni, e questo comando punirà con inflessibile rigore tutti 
    coloro che non vi si conformeranno strettamente.
  Rossano, 
    30 Dicembre 1868.
  Il 
    Luogotenente Colonnello Comandante B. MILON.
  Erano gli stessi metodi 
    terroristici che, esattamente sessanta anni prima, aveva inaugurato il Gauleiter 
    di Napoleone, "re" Gioacchino Murat, nelle varie regioni del Reame, 
    in particolare in Calabria, per mezzo del Manhès, per domare i tenaci 
    insorgenti antifrancesi, già allora bollati come briganti (P. Colletta, 
    Storia del Reame di Napoli, 7, XXVII) sì da far esclamare al Colletta, 
    che gli teneva degnamente la mano: "Non vorrei 
    essere stato il generale Manhès, e non vorrei che il generale Manhès 
    non fosse stato nel regno negli anni 9 e 10". 
  Sicché fu, allora, 
    sacrosanta vendetta della Calabria la fucilazione del tiranno giacobino a 
    Pizzo, non volgare tradimento, come, con scarsa anima storica, vuole il magistrato 
    Pietro D'Amico nel suo recente libro apologetico "Il re Gioacchino 
    Murat" edito dalla casa editrice Monteleone di Vibo Valentia. Il 
    D'Amico, nel poscritto al libro, ha perfino l'audacia di invitare la cittadinanza 
    di Pizzo ad un atto di pubblica "resipiscenza", elevare cioè 
    un monumento al Murat, nella stessa piazza che lo vide, secondo codesto autore, 
    "martire ed eroe"! (La Gazzetta del Sud, 3.5. 2002, pag. 10)


  TUNISIA: DEPORTIAMONE 
    DIECIMILA 
  Lo stesso mese di dicembre 
    1868, da Firenze, il generale Presidente e Ministro degli Esteri Menabrea, 
    sempre per il fine della costituzione di una colonia di deportazione in una 
    terra remota, invia un dispaccio circostanziato all'Agente e Console Generale 
    a Tunisi, Pinna. Viene concretizzato per la prima volta il numero di prigionieri 
    duosiciliani, altissimo, da deportare: almeno diecimila. Nessun "tirannico" 
    governo preunitario si era mai infangato in tal maniera: 
  «Il 
    governo del Re desidererebbe che la S.V. studiasse se vi sia modo di stabilire 
    sul territorio della Tunisia una colonia penitenziaria italiana.
  Le 
    condizioni che sarebbero richieste per fondare uno stabilimento di tal fatta 
    sarebbero le seguenti: 
  1° 
    trovare un territorio nelle condizioni volute di salubrità, fertilità 
    ecc., il quale sia separato dalla costa abitata almeno di tanta estensione 
    di deserto, quanta è necessaria perché uno o più viandanti 
    non possano traversarla, se non organizzati in carovana.
  Il 
    territorio dovrebbe essere capace di almeno diecimila coloni.
  2° 
    ottenere dal Governo tunisino la Concessione per poter colonizzare quel territorio. 
    La proprietà del medesimo dovrebbe essere ceduta al Governo Italiano 
    mentre invece la sovranità rimarrebbe al Bey sufficiente alla tutela 
    delle autorità che il Governo del Re invierebbe per esercitarvi la 
    giurisdizione penale e civile sovra i suoi sudditi, ed ottenere inoltre che 
    il Bardo consenta al governo del Re la facoltà di applicare le leggi 
    penali del regno nella località sovrindicata.
  3° 
    entrare col Governo Tunisino in accordi per tutto quanto riguarda le particolari 
    questioni riflettenti il transito dei coloni, la loro forzata dimora, i rapporti 
    dei coloni stessi cogl’abitanti della reggenza, lo stabilimento di un’autorità 
    tunisina nel territorio che si vorrebbe colonizzare ecc. Sembra che la presenza 
    di un’autorità tunisina, almeno da principio, allontanerebbe 
    il sospetto che in questo negoziato, che d’altronde vuol essere tenuto 
    segretissimo, si asconda una cessione formale di territorio all’Italia.
  4° 
    ottenere dal Governo di Tunisi la facoltà di creare nella località 
    prescelta un corpo di guardie 
  Fatte 
    che Ella avrà le indagini necessarie, e prese le preliminari informazioni 
    sulle disposizioni che si incontrerebbero, la prego Signor Commendatore, di 
    volermi riferire l'esito delle pratiche ch'Ella avrà fatte» (D.D.I., 
    1a Serie, Vol. X). 


  IL BEY NON CI STA
  Evidentemente la risposta 
    del Bey era stata negativa, dato che il tema della deportazione "con 
    ineluttabile necessità" veniva ereditato da un altro Ministero, 
    quello del Lanza, in cui figurava come Ministro degli Esteri il Visconti Venosta, 
    le cui parole hanno formato l’inizio della presente esposizione. 
  Ma, ancora nel 1868, 
    10 agosto, in piena estate, prima che le mire del generale Presidente Menabrea 
    si volgessero verso la Tunisia, altra idea - inviare una nave in esplorazione 
    per il mondo - aveva preso corpo nella mente del diabolico savoiardo, ossessionato 
    da furore antibrigantesco. Si era ormai convinto che i governi stranieri non 
    avrebbero mai ceduto una fetta di territorio per quel fine abietto.


LO ZAMPINO DELLA MARINA

  A tal fine si rivolge 
    al Ministro della Marina, August Antoine Riboty, originario di Puget-Théniers, 
    nel dipartimento di Nizza (Ufficio 
    Storico Marina Militare, lettera riservata, n. 457): 
  «Oggetto: 
    colonia penitenziaria. è gran tempo che il Governo del Re riflette 
    ai vantaggi che molti fra i rami della Pubblica Amministrazione, e segnatamente 
    quello della punitiva giustizia, risentirebbero dalla possessione di un territorio 
    oltremare, situato a ragguardevole distanza dalla madre patria, ove possa 
    aver sede sicura e salubre una colonia penitenziaria. Né andrà 
    molto che siffatto possesso diverrà pur anche un bisogno assoluto, 
    quando cioè fosse introdotto il nuovo codice penale italiano, di cui 
    già conoscesi il progetto, essendo in esso stabilita qual pena principale 
    la deportazione.
  Gli 
    sforzi fatti insino ad ora per scegliere una località conveniente all'oggetto 
    indicato non riuscirono ad utile effetto. Il Ministero degli Affari Esteri 
    che si occupò principalmente di questa bisogna, pose, in più 
    d’una circostanza, lo sguardo sopra diversi punti dell'uno o dell'altro 
    emisfero, ma senza alcun frutto fin qui perché considerazioni politiche 
    od altre di varia natura posero ostacolo all’attuazione dei concetti 
    ideati prima d’ora a questo riguardo.
  E’ 
    però necessario che si ponga mano, quanto più presto sarà 
    possibile, al compimento di un tale disegno. A questo scopo il provvedimento 
    più vantaggioso ad essere prescelto, sarebbe quello di un viaggio di 
    speciale esplorazione, intrapreso da una nave della R. Marina, al cui comandante 
    fossero impartite particolari istruzioni riflettenti l'oggetto, compilate 
    di comune accordo fra i vari dicasteri più particolarmente interessati 
    in quell'argomento.
  Il 
    sottoscritto crede suo debito di chiamare su questo punto tutta l’attenzione 
    del Ministero della Marina. Egli è persuaso di non aver d'uopo di ricorre 
    a più estese argomentazioni in proposito, per trasfondere in esso il 
    convincimento della necessità dell’indicata spedizione, e quindi 
    dei concerti per ottenere che in tempo prossimo possa tradursi efficacemente 
    in realtà. Starà quindi aspettando le comunicazioni che il Ministero 
    della Marina vorrà essere compiacente di fargli a tale riguardo, assicurandogli 
    dal canto suo tutto il concorso che possa essere in grado di prestargli».


  LA REGIA MARINA NON HA 
    LA FLOTTA 
  Sennonché la Regia 
    "Italiana" Marina, dopo la sonora batosta portata a casa da Lissa 
    nel 1866, 20 di luglio, per merito del Persano, esisteva quasi solamente sulla 
    carta. Là infatti il fior fiore del naviglio da guerra era stato affondato 
    dall'Ammiraglio dell'Impero danubiano Wilhelm Tegetthoff che già due 
    anni prima aveva dimostrato la sua grande perizia strategica distruggendo 
    la flotta danese nel Kattegat. 
  Sfortuna per il Menabrea 
    volle che egli inviasse la sua nota al Riboty in ritardo rispetto alla partenza 
    di una nave, la pirocorvetta Principessa Clotilde, di 2182 tonnellate, a vela 
    e a vapore, lunga 66 m, dotata di 20 cannoni calibro 16, impostata da appena 
    due anni (1866) in un cantiere di Genova dopo un lavoro di ben 5 anni, essendo 
    stata impostata nel 1861, con quali soldi pagata non sappiamo o forse li sospettiamo. 
    Due giorni dopo l’invio della richiesta, al Menabrea perviene fulminea, 
    deludente, la risposta del Riboty (U.S.M.M., 
    lett. n. 32300/2792). Egli è: 
  «oltremodo 
    dispiacente che le condizioni del bilancio della Marina gli vietino in modo 
    assoluto di destinare una nave appositamente per la spedizione di cui è 
    caso.
  Come 
    è noto a codesto Ministero se gli avvenimenti ultimi del Giappone non 
    avessero influito a dar ordine alla Principessa Clotilde di recarsi direttamente 
    in quella contrada, al Comandante di tale R. Legno dovean darsi istruzioni 
    nel senso che ponesse ogni cura alla ricerca di un sito per stabilirvi una 
    colonia penitenziaria.
  Se 
    pertanto codesto Ministero crede che fra qualche tempo la presenza della Principessa 
    Clotilde nelle acque del Giappone non sarà più necessaria alla 
    protezione degli interessi nazionali, lo scrivente nel far proseguire al detto 
    R. Legno il viaggio ch’era in progetto, sarà ben lieto di dargli 
    istruzioni nel senso che in seguito ad accordo fra i vari dicasteri sarà 
    stabilito per lo scopo che fanno oggetto della nota a cui si risponde».
  Il dialogo tra i due 
    Ministeri continua. Il generale Presidente del Consiglio e Ministro degli 
    Esteri Menabrea, tenace fucilatore di Meridionali, con successiva lettera 
    avente sempre per oggetto una colonia penitenziaria (U.S.M.M., 
    21 settembre 1868, prot. 490), preso atto delle condizioni del 
    risicato bilancio della Marina, non è in grado di fornire una previsione 
    circa il termine del viaggio di quella pirocorvetta nelle acque del Giappone 
    perché: 
  «... 
    la presenza di una forza navale italiana nell'Estremo Oriente, desiderata 
    vivamente anche in addietro, ed oggidì resasi indispensabile ed urgente, 
    può considerarsi siccome stabilmente necessaria anche per l’avvenire, 
    affinché il prestigio del vessillo nazionale ed il sicuro sviluppo 
    del nostro commercio con quelle regioni, possano rimanere inviolati. 
  In 
    vista di ciò ed in presenza dell’altro bisogno, pur rispettabile 
    ed urgente, di cui è parola, la R. Amministrazione non potrebbe certamente 
    esimersi dal fare in modo che si provegga ad entrambi quei fini senza reciproco 
    danno, e possibilmente senza troppo ritardo per quanto riflette il nuovo proposto 
    viaggio di esplorazione.
  Al 
    sottoscritto parrebbe che la soluzione più semplice di questo oggetto, 
    possa trovarsi nel disporre in anticipazione una nave che vada a surrogare 
    a suo tempo al Giappone la Principessa Clotilde, alla quale sarà pur 
    necessario dare presto o tardi lo scambio, e nell’affidare in parte 
    alla nave medesima nel recarsi a quella volta, ed in parte alla Principessa 
    Clotilde nel ritornarsene, l’incarico di eseguire le ricerche che ora 
    interessa di condurre ad effetto.
  Lo 
    scrivente saprà grado [sic] al Ministero della Marina di fargli conoscere 
    il proprio avviso a questo riguardo, indicandogli l'epoca in cui possa, nel 
    caso, effettuarsi il divisato progetto, affinché vengano presi in tempo 
    i necessari accordi circa l’importante missione di cui si tratta».


  IL PARLAMENTO NON DEVE 
    SAPERE 
  Tre giorni, dopo 24 settembre, 
    perviene sollecita la risposta del Riboty (prot. 
    37410/3260): la pirocorvetta dovrà rimanere nelle acque 
    dell'estremo Oriente fin verso la fine del 1870 e per il 1869 "non 
    fu portata sul bilancio la spesa d’una nave che vada a surrogare la 
    medesima… dovendo per regola le navi stazionarie all’estero rimanere 
    assenti almeno 3 anni, come usasi da tutte le nazioni marittime…e qualora 
    si voglia eseguire [il viaggio di esplorazione] bisognerà chiedere 
    un fondo suppletivo per questa missione al Parlamento, ma adottando questa 
    proposta [il Ministero della Marina] prevede le difficoltà cui si avrebbero 
    ad affrontare se mai la delicata quistione venisse ventilata nella Camera, 
    che stima superfluo di enunciare a codesto Ministero". 
  La pulce messa nell'orecchio 
    dal Riboty circa la "delicata quistione" induce il Menabrea 
    a rifarsi vivo (U.S.M.M., 
    7 ottobre 1868, lettera riservata prot. 529). Egli è:
  «dolente…di 
    scorgere come le condizioni del proprio bilancio e le norme adottate riguardo 
    alle stazioni navali all'estero, gli impongano di rimandare sin verso la fine 
    dell'anno 1870 il provvedimento proposto per la ricerca di una località 
    adatta alla creazione tanto necessaria di una colonia penitenziaria italiana. 
    Lo scrivente ammette senza difficoltà che la richiesta di fondi speciali 
    al Parlamento per l'oggetto in discorso, presenterebbe gravi inconvenienti 
    e pertanto, nell’impossibilità, a quanto sembra, di trovare pel 
    momento un mezzo di esecuzione di quel progetto, deve suo malgrado limitarsi 
    a raccomandare vivamente al Ministero della Marina di tenersi presente il 
    progetto medesimo pel caso in cui si verifichi qualche straordinaria spedizione 
    di navi in epoca per avventura più vicina a quella della normale surrogazione 
    dell'uno o dell'altro dei regi legni stazionarii all'estero affinché 
    si possa, in termine fattibilmente poco lontano, provvedere all'urgente bisogno 
    di cui è parola».


  SI RIPROVA NEL BORNEO
  Dopo aver tentato a più 
    riprese, collezionando smacchi diplomatici, di ottenere un’isola portoghese 
    del Pacifico, o un lembo di Mozambico o di Angola, l’isola di Socotra 
    nell'Oceano Indiano, un angolo di costa dell’Eritrea sul Mar Rosso, 
    un fazzoletto di terra nella sperduta Patagonia, un po’ di sabbia del 
    deserto tunisino, l’occhio del Ministro degli Esteri si volge ancora 
    al Pacifico, per la precisione a un’isola dei Sette Mari: Borneo. 
  Gliene dà il destro 
    la notizia che la pirocorvetta "Principessa Clotilde" si 
    trova da quelle parti. Il 6 di gennaio 1869 quindi nuova iniziativa: il Menabrea, 
    sempre ossessionato da patologia antimeridionale, decide di scrivere direttamente 
    al comandante di quella nave, il capitano di fregata Carlo Alberto Racchia, 
    torinese, futuro Senatore del Regno d'Italia (1/11/1892) e Ministro Segretario 
    di Stato della Regia Marina (1892/1893), ma ne dà previa comunicazione 
    al Riboty (U.S.M.M., prot. 
    14, Reg. Giappone) nei termini seguenti: 
  «…L’importanza 
    dell'argomento segnatamente per ciò che concerne la possibilità 
    di formare uno stabilimento sulle coste di Borneo ha deciso il sottoscritto 
    di scrivere direttamente al Comandante della Piro-corvetta "Principessa 
    Clotilde" per avere dal medesimo una relazione ragguagliata delle condizioni 
    del paese dove si potrebbe impiantare quello stabilimento. Sin d’ora, 
    ed anche soltanto dietro le informazioni avute sembra che il R. governo dovrebbe 
    frapporre il minor indugio possibile ad inviare a Borneo un legno della R. 
    Marina per esaminare minutamente ogni cosa ed anche per entrare in trattative 
    positive e concrete per l’acquisto del territorio che ci è necessario 
    per lo stabilimento che è in animo del R. Governo di fondare. 
  Se 
    l’invio di altra nave dello Stato dovesse essere molto ritardato, converrebbe 
    forse che la "Principessa Clotilde" ricevesse istruzione di recarsi 
    di nuovo a Borneo allo scopo sopra indicato».


  AUMENTA IL NUMERO DEI 
    PRIGIONIERI 
  E, senza frapporre indugio, 
    lo stesso giorno il Menabrea scrive al Comandante Racchia rivelando, in quelle 
    che sono per noi, pronipoti di eroici Briganti, le sante reliquie dei documenti, 
    il numero dei prigionieri da deportare, numero che stavolta sale incredibilmente 
    a quindicimila:
  «Dal 
    Ministero della Marina mi vennero comunicate le osservazioni interessantissime 
    che Ella ha fatto al suo passaggio a Borneo.
  Bramerei 
    che quelle osservazioni fossero da Lei completate ed esposte in una relazione 
    a questo Ministero circa la facilità che presenterebbe lo stabilimento 
    di una colonia penitenziaria sulle coste di quell'isola.
  Il 
    rapporto che io Le domando dovrebbe contenere una descrizione della località 
    che si vorrebbe scegliere e ciò avuto riguardo tanto alle condizioni 
    geografiche ed idrografiche, alla situazione politica attuale del territorio, 
    alle sue condizioni economiche ed alle difficoltà che si dovrebbero 
    vincere per istabilirsi e mantenersi.
  Lo 
    stabilimento che l’Italia vorrebbe fondare dovrebbe essere capace di 
    almeno dieci o quindicimila deportati e dovrebbe per la fertilità o 
    per altre produzioni naturali del paese fornire alla numerosa colonia i necessari 
    mezzi di sussistenza.
  Anche 
    la quistione della salubrità del paese da scegliersi vuol essere tenuta 
    in conto acciocché la deportazione non divenga pena più grande 
    ed inumana pel condannato a causa di mortalità deplorevole nei funzionari 
    e nelle truppe destinate alla custodia dello stabilimento.
  Gradisca, 
    Signor Comandante, i sensi della mia distinta considerazione».


  E’ IL TURNO DELLE 
    ISOLE DELLA DANIMARCA
  Un mese dopo, esattamente 
    il 23 febbraio 1869, con lettera "urgente e riservata" (U.S.M.M., 
    n. 2 del Reg. Danimarca), il Presidente Menabrea ricontatta il 
    Ministro Riboty comunicandogli che fin dal 1848 la Danimarca aveva abbandonato 
    le isole Nicobare situate nell’Oceano Indiano a nord dell'Indonesia 
    di fronte alla penisola di Malacca. Come al solito anche qui si fece sentire 
    la longa manus della superpotenza mondiale, la Gran Bretagna, che, come il 
    Menabrea comunica al collega della Marina, 
  «malgrado 
    la dichiarazione di abbandono esitò di prendere possesso di quelle 
    isole e stimò prudente di farsene cedere regolarmente il possesso dal 
    Gabinetto di Copenaghen… [il quale] aderì a siffatto desiderio, 
    mediante una dichiarazione del 2 dicembre 1868, non senza osservare, però, 
    che codesta dichiarazione, fatta dopo una precedente dichiarazione d’abbandono, 
    non avrebbe potuto pregiudicare il diritto di terzi che nel frattempo si fossero 
    impossessati delle isole Nicobare come di res derelicta. 
  Nel 
    caso, dunque, che le esitazioni della Gran Bretagna si protraggano ancora, 
    e nel caso soprattutto, che quelle isole fossero giudicate di conveniente 
    e vantaggioso possesso, nulla osterebbe a che dal R. Governo di procedere 
    [sic!] alla occupazione.
  Epperò 
    il sottoscritto prega l’Onorevole Collega della Marina di voler considerare 
    se alla Principessa Clotilde attualmente di Stazione al Giappone, si possa 
    commettere l’incarico di visitare, nel più breve termine possibile, 
    le isole Nicobare, e di riferire al R. Governo intorno alla convenienza o 
    meno di acquistarne col possesso il dominio».


  LA CONFERMA CHE I PRIGIONIERI 
    SONO MIGLIAIA
  Trascorso un altro mese, 
    con scambi epistolari di poco o nessun valore ai fini del presente scritto, 
    il Menabrea riscrive altra lettera al Ministro della Marina Riboty (U.S.M.M., 
    19 marzo 1869, lett. n. 7 del Reg. Danimarca), lettera da cui 
    apprendiamo essere molte migliaia i detenuti politici rinchiusi nelle carceri 
    della penisola : 
  «… 
    L’epoca fissata per il viaggio della Piro-corvetta Principessa Clotilde 
    nei mari della Cina sembra a chi scrive molto lontana per un’esplorazione 
    come sarebbe quella delle isole Nicobar e delle coste di Borneo ad uno scopo 
    utile ed urgente quale sarebbe quello di trovare una località dove 
    stabilire una colonia penitenziaria per le molte migliaia di condannati che 
    popolano gli stabilimenti carcerari del regno. L'invio di una altra nave forse 
    sarebbe stato il partito migliore da adottarsi se i fondi stanziati in bilancio 
    per l’anno corrente lo avessero permesso…
  Se 
    però il Ministero della Marina possedesse qualche suo uffiziale il 
    quale avesse già visitato i paraggi dove sono situate le isole Nicobar, 
    converrebbe forse lo interpellasse segretamente sulle vere condizioni di quelle 
    terre e sulla maggiore o minore probabilità di riuscita che potrebbe 
    avere uno stabilimento italiano che si volesse fondare in quella regione…»


  INTERVENTO DELL’INGHILTERRA
  Ma, quasi beffa a quel 
    lungo lavorio sotterraneo, di cui il sedicente parlamento costituzionale italiano 
    era tenuto pervicacemente all'oscuro, le informazioni, che quel Presidente 
    bramava, erano a portata di mano in un libro pubblicato dalla Imperiale Marina 
    Austriaca. Risponde infatti il Ministro della Marina con lettera riservata 
     (U.S.M.M., prot. n. 684 del 
    23 marzo 1869): 
  «Non v'ha alcun 
    uffiziale nel caso di poter fornire al R. Governo dati precisi sulle isole 
    Nicobar e meno ancora sull’opportunità di stabilirvi o non una 
    colonia penitenziaria. Cotesto Ministero potrà però rilevarne 
    notizie dettagliate dal 2° volume del viaggio intorno al Globo eseguito 
    dalla Fregata austriaca NOVARA negli anni 1857-58-59 a pag. 100 ove la descrizione 
    politica geografica in delle dette isole è degna di tutta fiducia, 
    per l’esattezza e l’imparzialità con cui è redatta».
  L'obiettivo delle Nicobare 
    di lì a poco venne però a sfumare, perché nello stesso 
    anno 1869 l'Inghilterra, per l'importanzastrategica di quelle isole sullo 
    stretto di Malacca, procedette alla loro occupazione, mettendosi così 
    in grado di controllare tutto il traffico marittimo per la Cina, il Giappone, 
    l'Indonesia e l'Australia.


  ANCHE IN AUSTRALIA
  Intanto il comandante 
    della "Principessa Clotilde" si moveva con la sua fregata 
    lungo le coste asiatiche dal Giappone a Bangkok, per sottoscrivere trattati 
    diplomatici, tra cui uno con la Cina per "meglio regolare l'emigrazione 
    dei coolies", sulla quale emigrazione, in realtà tratta di 
    schiavi, tempo prima ci aveva fatto il suo bel gruzzoletto anche colui che 
    la retorica patriottarda ha trasformato in "eroe dei due mondi".
  Ma con lettera riservata 
     (U.S.M.M., 28 settembre 1869, 
    prot. 44912/2476) il Ministro Riboty fa sapere al collega degli 
    Esteri che, adempiute il comandante Racchia le missioni assegnategli, avrebbe 
    potuto procedere all'esplorazione a Borneo e fino ad Est dell'Australia: 
  «…Qualora 
    l'esplorazione a Borneo e isole adiacenti al NE non dasse [sic] il risultato 
    che si ripromette, l’unica altra zona interessante da esplorarsi con 
    speranza di successo sarebbe quella all’Est dell'Australia…Urge 
    avere una risposta poiché si correrebbe il rischio, aspettando, di 
    far trascorrere nelle acque del Giappone alla "Principessa Clotilde" 
    una parte del prossimo inverno, stagione preziosissima per recarsi nelle regioni 
    tropicali ed eseguire la esplorazione di cui è stato incaricato il 
    comandante di quel R. Legno».
  L’affacciarsi sul 
    Pacifico, dove già altri vantavano diritti di primogenitura, causava 
    però sospetti e scontri diplomatici. L’Oceano sconfinato era 
    appannaggio dell'Inghilterra, degli Stati Uniti, dell’Olanda, della 
    Spagna, della Francia: trovare qualche terra non ancora colonizzata idonea 
    alla deportazione risultava impresa alquanto difficile, se non impossibile. 


  Quelle potenze ravvisavano, 
    nell’intrusione del nuovo venuto, un fastidioso potenziale concorrente 
    nella spartizione del bottino coloniale, anche se si presentava, almeno in 
    linea di principio, in veste di agnello alieno da mire colonialiste. Conferma 
    infatti Sergio Angelini (Il 
    tentativo italiano per una colonia nel Borneo, 1870-1873, Rivista di Studi 
    Politici Internazionali, n. 4, ott./dic. 1966, p. 527): "In 
    realtà questo motivo della deportazione… non poteva essere considerato… 
    fine a se stesso ma invece, sull’esempio di altrui esperienze, avrebbe 
    dovuto significare il primo nucleo di una successiva più vasta espansione 
    coloniale". Cosa che si verificherà puntualmente nel 
    1884 con l'acquisto della baia di Assab in Eritrea da parte della società 
    di navigazione Rubattino, la stessa già in precedenza fornitrice della 
    nave Cagliari al Pisacane e di due navi al Garibaldi per lo sbarco a Marsala.


  RIPUGNANZA INGLESE
  Il padrone primario del 
    Pacifico restava in ogni caso l’Inghilterra, verso cui il governo italiano 
    si mostrava molto ossequente se non addirittura servile. Sull’affare 
    di Borneo, il Ministro Cadorna da Londra riferiva, dopo un incontro con Lord 
    Granville, al Ministro degli Esteri Visconti Venosta in data 3 gennaio 1872 
     (D.D.I., 2a Serie, Vol. III, 
    n. 282): 
  «…il 
    Governo Inglese, qualunque ne sia il motivo, non vede molto volontieri il 
    nostro progetto di occupare una terra nei grandi lontani mari per farvi uno 
    stabilimento di deportazione. Ma l’opposizione non fu finora per sua 
    parte aperta, sibbene indiretta, fatta caso per caso, senza ragionamenti e 
    motivi; soprattutto non fu mai ostensivamente basata sopra considerazioni 
    politiche…[da] questa lunga conversazione traspare una non celata riluttanza 
    al nostro progetto, appoggiata a ragioni insussistenti, e non applicabili 
    al caso, le quali (dette da Lord Granville uomo molto fino, e di molta intelligenza) 
    danno il diritto di credere, che i veri motivi di questa riluttanza non si 
    vogliono dire, e che non si vuole perché ragionevolmente non si può. 
    Ora tutto ciò mi conferma nella presunzione che le difficoltà 
    non sono nel caso particolare di Borneo, e che nol furono negli altri casi 
    consimili che l’hanno preceduto; ma che hanno base in una ragione politica 
    di carattere generale…». 
  Dal rapporto emerge infine 
    la parola (ripugnanza) che dà finalmente la misura della sporca, abietta, 
    operazione che quel Ministro "virtuoso" era intenzionato a portare 
    a compimento: “Se questo contegno di Lord 
    Granville non fosse stato già preceduto da molti fatti che indicano 
    la ripugnanza dell’intero Governo ai nostri progetti si potrebbe dubitare 
    se il contegno di Lord Granville in questa circostanza possa considerarsi 
    proveniente da un partito preso…”.


  SOCOTRA NON SI TOCCA
  Il 3 maggio 1872 giunge 
    intanto da Londra al Ministro Visconti Venosta la risposta negativa dell'Inghilterra 
    circa l'isola di Socotra di cui si è già detto (D.D.I., 
    2a Serie, Vol. III, n. 496). Il governo inglese, in previsione 
    dell’apertura del canale di Suez, predisponeva i picchetti per il dominio 
    del Mar Rosso, dominio che sarà poi completo con l'acquisizione del 
    pacchetto di azioni del Canale di Suez ad opera del Ministro Disraeli. 
  Riferisce infatti il 
    Ministro Cadorna: 
  «… intorno 
    all’eventuale occupazione per parte nostra dell'Isola di Socotra…poiché 
    essa [la risposta] è sfavorevole è da sperarsi che non sia per 
    essere dello stesso tenore quella che sto ancora attendendo, e che ho già 
    più volte sollecitata relativa alla occupazione di una parte della 
    costa dell'Isola di Borneo. Veramente per quest’ultima non potrebbero 
    esservi gli ostacoli che hanno potuto ravvisarvi per Socotra la quale si trova 
    sulla nuova linea di navigazione tra l’Europa e i possedimenti inglesi 
    nelle Indie pel canale di Suez».


  1872: LA RESISTENZA CONTINUA
  Intanto dal dispaccio 
    1136/348 datato Londra 11 settembre 1872 inviato dall'incaricato d'affari 
    Maffei al Venosta apprendiamo "della recrudescenza 
    del brigantaggio nelle nostre provincie meridionali" (D.D.I., 
    2a serie, Vol. IV, n. 117) su cui il Times aveva pubblicato 
    "un articolo di fondo in cui, sebbene si esprima 
    molta simpatia per il Governo Italiano, tuttavia non gli si risparmiano biasimi 
    per non agire con più energia per estirpare una piaga così grave”. 
    Questa notizia è da tenere nella dovuta considerazione, 
    perché dilata ancora di qualche anno il limite temporale di opposizione 
    dei Duosiciliani al governo unitario, normalmente fissato dai cattedratici 
    all'anno 1870.
  Sullo stesso argomento 
    tornava il 10 aprile 1873 il Segretario Generale all'Interno, Cavallini, in 
    una nota al Venosta (D.D.I., 
    2a Serie, Vol. IV, n. 453): “Da 
    qualche mese si diffondono voci con qualche insistenza nella Sicilia e nelle 
    Calabrie di prossimi movimenti insurrezionali”.
  Nel 1873 il Cadorna ha 
    un ultimo incontro con Lord Granville. La lettera che ne riferisce gli esiti 
     (D.D.I., 2a Serie, vol. IV, 
    n. 271) è della massima importanza storica perché 
    demolisce l'artificiosa, interessata, suddivisione storiografica in voga che 
    vuole un brigantaggio politico fino al 1862/63 e un brigantaggio banditesco 
    da quegli anni al 1870. 
  Dalle parole di quel 
    Ministro piemontese a Lord Granville emerge in tutta la sua unicità 
    l'aspetto politico della resistenza duosiciliana, purtroppo acefala, all'invasore 
    nordista e ai suoi collaborazionisti, iniziata nel 1860. Ne riportiamo le 
    parti più significative: 
  «… 
    La criminalità in Italia è diversissima nelle sue varie parti. 
    Le parti in cui essa è poco soddisfacente son la Sicilia, il Napoletano, 
    ed alcune province delle Romagne. Sebbene in questi luoghi siamo immensamente 
    lontani dallo stato in cui i precedenti Governi ci lasciarono quelle province, 
    quando i Tristany, ed i Borjés capitanavano bande di 300, e più 
    briganti, pure è deplorabilmente vero, che lo stato della sicurezza 
    pubblica è lungi dall'esservi soddisfacente. Noi siamo deliberati di 
    metter fine a qualunque costo a questo stato anormale, e di fare a tale scopo 
    tutti i possibili sforzi. Per noi è questa non solo una questione delmassimo 
    interesse, politica, e quasi sociale, ma è questione di dovere, e di 
    onore…Quale può essere il rimedio? La pena della morte? No. I 
    gravi reati sono ancora frequenti. Il numero dei manutengoli che sono la vera 
    base, ed il quartiere generale dei briganti, e senza la cui distruzione è 
    impossibile la distruzione del brigantaggio, è assai grande. Piantare 
    il patibolo ad ogni passo, ad ogni momento è cosa altrettanto impossibile!… 
    Si dovrebbero fare delle carneficine… solo la deportazione, come pena, 
    può, in Italia, essere applicata largamente, ed efficacemente; essa 
    soltanto può reprimere la numerosa classe di manutengoli. I briganti… 
    avvezzi a mettere la vita in pericolo, resi più feroci dalla stessa 
    lor vita, salgono spesso il patibolo stoicamente, cinicamente (esempio tristissimo 
    per le popolazioni!). Invece la fantasia fervida, immaginosa di quelle popolazioni 
    rende ad essi ed alle loro famiglie terribile la pena della deportazione. 
    In Italia, e massime nel Mezzodì, ove è grande l'attaccamento 
    alla terra, ed al proprio sangue, il pensiero di non vedere più mai 
    il suolo natale, la moglie, i figli, di passare, e di finire la vita in lontano 
    ignoto paese, lontani da tutto, e da tutti, è pensiero che atterrisce. 
    Non v'ha più né speranza di grazia né di fuga, né 
    di ajuto esterno. La pena della deportazione è per noi una vera necessità… 
    Noi non abbiamo alcun pensiero di fare delle colonie; lo scopo che ci proponiamo 
    è abbastanza giustificato dalle circostanze, perché ci si possa 
    supporre una volontà che non abbiamo; vogliamo applicare un sistema 
    penale. Non vogliamo neppure fare delle colonie penali; ma sibbene degli stabilimenti 
    penali, un penitenziario lontano…l’effetto sui malfattori italiani, 
    e sulle loro famiglie, e massimo per la parte meridionale d'Italia, sarebbe 
    grandissimo».
  Lord 
    Granville ascoltò il lungo monologo senza batter ciglio, poi esclamò: 
    “Non sarebbe egli meglio portare i malfattori 
    italiani del Sud a scontare la pena nel Nord dell'Italia…?”.
  E il Cadorna: “Risposi, 
    che ciò già si faceva da molto tempo…».
  vedi 
    IL LAGER PIEMONTESE (SABAUDO) DI FENESTRELLE > 



  ANCHE L’OLANDA 
    SI OPPONE
  Anche per l’insediamento 
    nell'isola di Borneo il governo italiano conseguì dunque uno smacco 
    diplomatico. Al diniego inglese si era sommata anche la tenace opposizione 
    olandese, dato che l’Olanda ne possedeva quasi tutto il territorio, 
    ma ne attendeva il riconoscimento britannico proprio in quegli anni. Il governo 
    italiano però fin dal 1869, in previsione di altri smacchi diplomatici, 
    aveva deciso di seguire strade non ortodosse per conseguire l’obiettivo 
    deportazione: affidare a un privato il compito di ricercare una colonia nelle 
    isole intorno alla Nuova Guinea per deportarvi almeno ventimila prigionieri 
    (v. Guido Po). 
  Fu incaricato un certo 
    Giovanni Emilio Cerruti. Costui aveva firmato una convenzione col Sultano 
    delle isole Batchiane, a nord della grande isola di Ceram. Quel Sultano concedeva 
    il diritto di sovranità su alcune di quelle isole in cambio di un canone 
    annuo in gilders olandesi. Lo stesso risultato il Cerruti conseguiva col Rajah 
    delle isole Key e coi due Rajah delle Arù. Ma le ulteriori opposizioni 
    britannica e olandese consigliarono al governo italiano di desistere definitivamente 
    dall'impiantarsi da quelle parti. 
  Agli schizofrenici fucilatori 
    di Duosiciliani non rimaneva dunque che rimandare a tempi più favorevoli 
    (colonia di Eritrea) il compimento dei loro piani distruttivi della nazione 
    duosiciliana che, per sopravvivere alle fucilazioni sommarie, ai lutti, alla 
    pesantissima pressione fiscale, alle rapine, si era già incamminata 
    sulla strada dell’emigrazione, cioè dell'autodeportazione, risolvendo 
    così, senza rumore politico, il problema dello scienziato pazzo e dei 
    suoi "fratelli."



Antonio Pagano

    Direttore della rivista Due Sicilie


    numero 1, anno 2003, .  






vedi 
      BRIGANTAGGIO: 
  LA GUERRA DEI POVERI >
vedi L'INSABBIAMENTO CULTURALE 
  DELLA "QUESTIONE MERIDIONALE" >  
vedi I 
  BRIGANTI? VI DICO IO CHI SONO! >  
vedi IL LAGER PIEMONTESE 
  (SABAUDO) DI FENESTRELLE >


From: impossibilepentirsi@???
To: m.ciancarella@???; info@???; m.marcucci@???; marisa.pareto@???; rsensi@???; mrseye@???; forumlucca@???; lucca@???; lucca@???; sensi99@???; alessiociacci@???; salahchfouka@???; gicavalli@???; giovanna.duranti@???; la.gurfata@???; lista123lm@???
Subject: unità d'Italia/ due note scritte da un anarchico lucano su cui riflettere e da approfondire: i lager sabaudi e fenestrelle
Date: Thu, 17 Mar 2011 11:44:13 +0100











      http://cronologia.leonardo.it/storia/a1863b.htm



Dopo l' "invenzione" 
        del "contrassegno per marchiare gli ebrei con un panno sulla spalla" 
        (vedi 
        AMEDEO VIII DI SAVOIA) - quindi un precursore dello "antisemitismo" 
        hitleriano - nel 1863 un altro sabaudo inventava i "lager", 
        e le "vasche di calce" per scioglierci dentro i cadaveri dei 
        reclusi soccombenti borbonici.




1863 - cronologia
di un anno infame





            la pulizia 
            etnica piemontese 


             I LAGER SABAUDI






IL TALLONE DI FERRO
DEI SAVOIA - Dopo la conquista del Sud, 5212 condanne a morte.

Prigionieri e ribelli puniti con decreti e una legge del 1863

MIGLIAIA DI SOLDATI BORBONICI

DEPORTATI NEI LAGER DEL NORD

di STEFANIA MAFFEO


Il "lager" di Fenestrelle. La ciclopica
sabauda cortina bastionata


  Cinquemiladuecentododici 
    condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. 
    Queste le cifre della repressione consumata all'indomani dell'Unità 
    d'Italia dai Savoia. La prima pulizia etnica della modernità occidentale 
    operata sulle popolazioni meridionali dettata dalla Legge Pica, promulgata 
    dal governo Minghetti del 15 agosto 1863 "… 
    per la repressione del brigantaggio nel Meridione"[1]. 



    Questa legge istituiva, sotto l'egida savoiarda, tribunali di guerra per il 
    Sud ed i soldati ebbero carta bianca, le fucilazioni, anche di vecchi, donne 
    e bambini, divennero cosa ordinaria e non straordinaria. Un genocidio la cui 
    portata è mitigata solo dalla fuga e dall'emigrazione forzata, nell'inesorabile 
    comandamento di destino: "O briganti, o emigranti".




    Lemkin, che ha definito il primo concetto di genocidio, sosteneva: "… 
    genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione…esso 
    intende designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere 
    i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali. Obiettivi di un piano 
    siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, 
    della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della 
    vita economica dei gruppi nazionali e la distruzione della sicurezza personale, 
    della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite 
    degli individui…non a causa delle loro qualità individuali, ma 
    in quanto membri del gruppo nazionale". 




    Deportazioni, l'incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa cattolica, 
    profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie 
    di "briganti") costretti ai ferri carcerari. 


    Una pagina non ancora scritta è quella relativa alle carceri in cui 
    furono rinchiusi i soldati "vinti". Il governo piemontese dovette 
    affrontare il problema dei prigionieri, 1700 ufficiali dell'esercito borbonico 
    (su un giornale satirico dell'epoca era rappresentata la caricatura dell'esercito 
    borbonico: il soldato con la testa di leone, l'ufficiale con la testa d'asino, 
    il generale senza testa) e 24.000 soldati, senza contare quelli che ancora 
    resistevano nelle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto. 




    Ma il problema fu risolto con la boria del vincitore, non con la pietas che 
    sarebbe stata più utile, forse necessaria. Un primo tentativo di risolvere 
    il problema ci fu con il decreto del 20 dicembre 1860, anche se le prime deportazioni 
    dei soldati duosiciliani incominciarono già verso ottobre del 1860, 
    in quanto la resistenza duosiciliana era iniziata con episodi isolati e non 
    coordinati nell'agosto del 1860, dopo lo sbarco dei garibaldini e dalla stampa 
    fu presentata come espressione di criminalità comune. Il decreto chiamava 
    alle armi gli uomini che sarebbero stati di leva negli anni dal 1857 al 1860 
    nell'esercito delle Due Sicilie, ma si rivelò un fallimento. Si presentarono 
    solo 20.000 uomini sui previsti 72.000; gli altri si diedero alla macchia 
    e furono chiamati "briganti". (nel '43, dopo l'8 settembre, accadde 
    quasi la stessa cosa, ma dato che vinsero (gli anglo-americani) la lotta la 
    chiamarono di "resistenza" , e gli uomini "partigiani". 
    Ndr.)




    A migliaia questi uomini furono concentrati dei depositi di Napoli o nelle 
    carceri, poi trasferiti con il decreto del 20 gennaio 1861, che istituì 
    "Depositi d'uffiziali d'ogni arma dello sciolto 
    esercito delle Due Sicilie". 


    La Marmora ordinò ai procuratori di "non 
    porre in libertà nessuno dei detenuti senza l'assenso dell'esercito". 



    Per la maggior parte furono stipati nelle navi peggio degli animali (anche 
    se molti percorsero a piedi l'intero tragitto) e fatti sbarcare a Genova, 
    da dove, attraversando laceri ed affamati la via Assarotti, venivano smistati 
    in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, 
    Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di 
    Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altre località 
    del Nord. 




    Presso il Forte di Priamar fu relegato l'aiutante maggiore Giuseppe Santomartino, 
    che difendeva la fortezza di Civitella del Tronto. Alla caduta del baluardo 
    abruzzese, Santomartino fu processato dai (vincitori) Piemontesi e condannato 
    a morte. In seguito alle pressioni dei francesi la condanna fu commutata in 
    24 anni di carcere da scontare nel forte presso Savona. Poco dopo il suo arrivo, 
    una notte, fu trovato morto, lasciando moglie e cinque figli. Si disse che 
    aveva tentato di fuggire. Un esempio di morte sospetta su cui non fu mai aperta 
    un'inchiesta per accertare le vere cause del decesso. 




    In quei luoghi, veri e propri lager, ma istituiti per un trattamento di "correzione 
    ed idoneità al servizio", i prigionieri, appena coperti da cenci 
    di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po' di pane nero raffermo, 
    subendo dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisiche 
    e morali. Per oltre dieci anni, tutti quelli che venivano catturati, oltre 
    40.000, furono fatti deliberatamente morire a migliaia per fame, stenti, maltrattamenti 
    e malattie.




    Quelli deportati a Fenestrelle [2], fortezza situata a quasi duemila metri 
    di altezza, sulle montagne piemontesi, sulla sinistra del Chisone, ufficiali, 
    sottufficiali e soldati (tutti quei militari borbonici che non vollero finire 
    il servizio militare obbligatorio nell'esercito sabaudo, tutti quelli che 
    si dichiararono apertamente fedeli al Re Francesco II, quelli che giurarono 
    aperta resistenza 
    ai piemontesi) subirono il trattamento più feroce.




    Fenestrelle (nella foto di apertura) più che un forte, era un insieme 
    di forti, protetti da altissimi bastioni ed uniti da una scala, scavata nella 
    roccia, di 4000 gradini. Era una ciclopica cortina bastionata cui la naturale 
    asperità dei luoghi ed il rigore del clima conferivano un aspetto sinistro. 
    Faceva tanto spavento come la relegazione in Siberia. I detenuti tentarono 
    anche di organizzare una rivolta il 22 agosto del 1861 per impadronirsi della 
    fortezza, ma fu scoperta in tempo ed il tentativo ebbe come risultato l'inasprimento 
    delle pene con i più costretti con palle al piede da 16 chili, ceppi 
    e catene. 




    Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani 
    e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato 
    venne ucciso da una sentinella solo perché aveva proferito ingiurie 
    contro i Savoia. Vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con 
    il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati 
    a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi 
    solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei. 





    Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusati 
    ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per cui erano stati 
    catturati era proprio solo per rubare loro il danaro che possedevano. Molti 
    non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni venivano 
    processati e condannati senza alcuna spiegazione logica.




    Pochissimi riuscirono a sopravvivere: la vita in quelle condizioni, anche 
    per le gelide temperature che dovevano sopportare senza alcun riparo, non 
    superava i tre mesi. E proprio a Fenestrelle furono vilmente imprigionati 
    la maggior parte di quei valorosi soldati che, in esecuzione degli accordi 
    intervenuti dopo la resa di Gaeta, dovevano invece essere lasciati liberi 
    alla fine delle ostilità. 


    Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero subire un trattamento infame 
    che incominciò subito dopo essere stati disarmati, venendo derubati 
    di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi. 




    La liberazione avveniva solo con la morte ed i corpi (non erano ancora in 
    uso i forni crematori) venivano disciolti nella calce viva collocata in una 
    grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva all'ingresso del Forte. 
    Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché 
    non restassero tracce dei misfatti compiuti. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, 
    su un muro è ancora visibile l'iscrizione: "Ognuno vale non 
    in quanto è ma in quanto produce".


    (ricorda molto la scritta dei lager nazisti "




    Non era più gradevole il campo impiantato nelle "lande di 
    San Martino" presso Torino per la "rieducazione" dei militari 
    sbandati, rieducazione che procedeva con metodi di inaudita crudeltà. 
    Così, in questi luoghi terribili, i fratelli "liberati", 
    maceri, cenciosi, affamati, affaticati, venivano rieducati e tormentati dai 
    fratelli "liberatori".




    Altre migliaia di "liberati" venivano confinati nelle isole, a Gorgonia, 
    Capraia, Giglio, all'Elba, Ponza, in Sardegna, nella Maremma malarica. Tutte 
    le atrocità che si susseguirono per anni sono documentate negli Atti 
    Parlamentari, nelle relazioni delle Commissioni d'Inchiesta sul Brigantaggio, 
    nei vari carteggi parlamentari dell'epoca e negli Archivi di Stato dei capoluoghi 
    dove si svolsero i fatti. 




    Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, sosteneva in Parlamento: "Ma 
    che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, 
    tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro 
    Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre 
    inospitali terre del Piemonte…Sono essi trattati peggio che i galeotti. 
    Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? 
    Perché abbia a torturare con la fame e con l'inerzia e la prigione 
    uomini nati in Italia come noi?". 




    Ma della mozione presentata non fu autorizzata la pubblicazione negli Atti 
    Parlamentari, vietandosene la discussione in aula [3]. Il generale Enrico 
    Della Rocca, che condusse l'assedio di Gaeta, nella sua autobiografia riporta 
    una lettera alla moglie, in cui dice: "Partiranno, 
    soldati ed ufficiali, per Napoli e Torino...", precisando, 
    a proposito della resa di Capua, "...le truppe 
    furono avviate a piedi a Napoli per essere trasportate in uno dei porti di 
    S.M. il Re di Sardegna. Erano 
    11.500 uomini" 
    [4]. 




    Alfredo Comandini, deputato mazziniano dell'età giolittiana, che compilò 
    "L'Italia nei Cento Anni (1801-1900) del secolo XIX giorno per giorno 
    illustrata", riporta un'incisione del 1861, ripresa da "Mondo 
    Illustrato" di quell'anno, raffigurante dei soldati borbonici detenuti 
    nel campo di concentramento di S. Maurizio, una località sita a 25 
    chilometri da Torino. Egli annota che, nel settembre del 1861, quando il campo 
    fu visitato dai ministri Bastogi e Ricasoli, erano detenuti 3.000 soldati 
    delle Due Sicilie e nel mese successivo erano arrivati a 12.447 uomini.




    Il 18 ottobre 1861 alcuni prigionieri militari e civili capitolati a Gaeta 
    e prigionieri a Ponza scrissero a Biagio Cognetti, direttore di "Stampa 
    Meridionale", per denunciare lo stato di detenzione in cui versavano, 
    in palese violazione della Capitolazione, che prevedeva il ritorno alle famiglie 
    dei prigionieri dopo 15 giorni dalla caduta di Messina e Civitella del Tronto 
    ed erano già trascorsi 8 mesi. Il 19 novembre 1861 il generale Manfredo 
    Fanti inviava un dispaccio al Conte di Cavour chiedendo di noleggiare all'estero 
    dei vapori per trasportare a Genova 40.000 prigionieri di guerra. Cavour così 
    scriveva al luogotenente Farini due giorni dopo: "Ho 
    pregato La Marmora di visitare lui stesso i prigionieri napoletani che sono 
    a Milano", ammettendo, in tal modo, l'esistenza di un altro 
    campo di prigionia situato nel capoluogo lombardo per ospitare soldati napoletani. 





    Questa la risposta del La Marmora: "…non 
    ti devo lasciar ignorare che i prigionieri napoletani dimostrano un pessimo 
    spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che 
    acconsentono a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di verminia…e 
    quel che è più dimostrano avversione a prendere da noi servizio. 
    Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andare a casa 
    perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà 
    a Francesco Secondo, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati, 
    e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano a servire, che 
    erano un branco di car…che avessimo trovato modo di metterli alla ragione". 





    Le atrocità commesse dai Piemontesi si volsero anche contro i magistrati, 
    i dipendenti pubblici e le classi colte, che resistettero passivamente con 
    l'astensione ai suffragi elettorali e la diffusione ad ogni livello della 
    stampa legittimista clandestina contro l'occupazione savoiarda. Particolarmente 
    eloquente è anche un brano tratto da Civiltà Cattolica: 
    "Per vincere la resistenza dei prigionieri 
    di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso 
    ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena 
    coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione 
    con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle 
    gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri 
    luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, 
    come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri 
    schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie". 




    Ancora possiamo leggere dal diario del soldato borbonico Giuseppe Conforti, 
    nato a Catanzaro il 14.3.1836 (abbreviato per amor di sintesi): "Nella 
    mia uscita fu principio la guerra del 1860, dopo questa campagna che per aver 
    tradimenti si sono perduto tutto e noi altri povere soldati manggiando erba 
    dovettimo fuggire, aggiunti alla provincia della Basilicata sortí un 
    prete nemico di Dio e del mondo con una porzione di quei giudei e ci voleva 
    condicendo che meritavamo di essere uccisi per la federtà che avevamo 
    portato allo notro patrone. Ci hanno portato innanzi a un carnefice Piemontesa 
    condicendo perché aveva tardato tanto ad abbandonare quell'assassino 
    di Borbone. Io li sono risposto che non poteva giammai abbandonarlo perché 
    aveva giurato fedeltà a lui e lui mi à ditto che dovevo tornare 
    indietro asservire sotto la Bandiera d' Italia. Il terzo giorno sono scappato, 
    giunto a Girifarchio dove teneva mio fratello sacerdote vedendomi redutto 
    a quello misero stato e dicendo mal del mio Re io li risposi che il mio Re 
    no aveva colpa del nostri patimenti che sono stato le nostri soperiori traditori; 
    siamo fatto questioni e lo sono lasciato". 


    "Allo mio paese sono stato arrestato e dopo 7 mesi di scurre priggione 
    mi anno fatto partire per il Piemonte. Il 15 gennaio del 1862 ci anno portato 
    affare il giuramento, in quello stesso anno sono stato 3 volte all'ospidale 
    e in pregiona a pane e accua. Principio del 1863 fuggito da sotto le armi 
    di vittorio, il 24 sono giunto in Roma, il giorno 30 sono andato alludienza 
    del mio desiderato e amato dal Re', Francesco 2 e li ò raccontato tutti 
    i miei ragioni"[5]. 



    Vittorio 
    Emanuele II, il re vittorioso...




    ...e Francesco II, il re vinto, nella fortezza di Gaeta



  Un ulteriore passo 
    avanti nella studio di questa fase poco "chiara" del post unificazione 
    è stato fatto recentemente, quando un ricercatore trovò dei 
    documenti presso l'Archivio Storico del Ministero degli Esteri attestanti 
    che, nel 1869, il governo italiano voleva acquistare un'isola dall'Argentina 
    per relegarvi i soldati napoletani prigionieri, quindi dovevano essere ancora 
    tanti [6]. 


    Questi uomini del Sud finirono i loro giorni in terra straniera ed ostile, 
    certamente con il commosso ricordo e la struggente nostalgia della Patria 
    lontana. Molti di loro erano poco più che ragazzi [7]. 




    Era la politica della criminalizzazione del dissenso, il rifiuto di ammettere 
    l'esistenza di valori diversi dai propri, il rifiuto di negare ai "liberati" 
    di credere ancora nei valori in cui avevano creduto. I combattenti delle Due 
    Sicilie, i soldati dell'ex esercito borbonico ed i tanti civili detenuti nei 
    "lager dei Savoia", uomini in gran parte anonimi per la pallida 
    memoria che ne è giunta fino a noi, vissero un eroismo fatto di gesti 
    concreti, ed in molti casi ordinari, a cui non è estraneo chiunque 
    sia capace di adempiere fedelmente il proprio compito fino in fondo, sapendo 
    opporsi ai tentativi sovvertitori, con la libertà interiore di chi 
    non si lascia asservire dallo "spirito del tempo". 
  STEFANIA MAFFEO 
  NOTE
  [1] Legge Pica: 


    " Art.1: Fino al 31 dicembre nelle province infestate dal brigantaggio, 
    e che tali saranno dichiarate con decreto reale, i componenti comitiva, o 
    banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche 
    strade o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, 
    saranno giudicati dai tribunali militari; 


    Art.2: I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono 
    resistenza alla forza pubblica, saranno puniti con la fucilazione; 


    Art.3: Sarà accordata a coloro che si sono già costituiti, o 
    si costituiranno volontariamente nel termine di un mese dalla pubblicazione 
    della presente legge, la diminuzione da uno a tre gradi di pena; 


    Art.4: Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare, per un 
    tempo non maggiore di un anno, un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, 
    alle persone sospette, secondo la designazione del Codice Penale, nonché 
    ai manutengoli e camorristi; 


    Art.5: In aumento dell'articolo 95 del bilancio approvato per 1863 è 
    aperto al Ministero dell'Interno il credito di un milione di lire per sopperire 
    alle spese di repressione del brigantaggio. (Fonte: Atti parlamentari. Camera 
    dei Deputati) 


    [2] Il luogo non era nuovo a situazioni del genere perché già 
    Napoleone se ne era servito per detenervi i prigionieri politici ed un illustre 
    napoletano, Don Vincenzo Baccher, il padre degli eroici fratelli realisti 
    fucilati dalla Repubblica Partenopea il 13 giugno del 1799, che vi aveva passato 
    9 anni, dal 1806 al 1815, tornando a Napoli alla venerabile età di 
    82 anni. 


    [3] Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento - legittimisti e briganti 
    tra i Borbone ed i Savoia, Guida Editore, Napoli, 2000.


    [4] Questa informazione e tutte le seguenti sono state reperite nei saggi 
    "I campi di concentramento", di Francesco Maurizio Di Giovine, nella 
    rivista L'Alfiere, Napoli, novembre 1993, pag. 11 e "A proposito 
    del campo di concentramento di Fenestrelle", dello stesso autore, 
    pubblicato su L'Alfiere, dicembre 2002, pag. 8.


    [5] Fulvio Izzo, I Lager dei Savoia, Controcorrente, Napoli 1999.


    [6] S. Grilli, Cayenna all'italiana, Il Giornale, 22 marzo 1997.


    [7] Sul sito www.duesicilie.org/Caduti.html 
    è possibile ritrovare i nomi, con data di nascita e provenienza di 
    alcuni martiri di Fenestrelle, nel periodo compreso tra il 1860 ed il 1865. 
    Erano poco più che ragazzi: il più giovane aveva 22 anni, il 
    più vecchio 32.


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vedi 
      BRIGANTAGGIO: 
  LA GUERRA DEI POVERI >
vedi L'INSABBIAMENTO CULTURALE 
  DELLA "QUESTIONE MERIDIONALE" >  
vedi I 
  BRIGANTI? VI DICO IO CHI SONO! >


From: impossibilepentirsi@???
To: m.ciancarella@???; info@???; m.marcucci@???; marisa.pareto@???; rsensi@???; mrseye@???; forumlucca@???; lucca@???; lucca@???; sensi99@???; alessiociacci@???; salahchfouka@???; gicavalli@???; giovanna.duranti@???; la.gurfata@???; lista123lm@???
Subject: unità d'Italia: due note scritte da un anarchico lucano su cui riflettere e da approfondire.....
Date: Thu, 17 Mar 2011 10:34:38 +0100








Perchè l'Italia sia davvero una e indivisibile come scritto nella Costituzione del 1948 e gli italiani si sentano uniti come popolo da nord a sud, dal continente alle isole, superando campanilismi e razzismi, evitando di rivivere un neomedioevalismo di neosignorie e neocomuni o di ripiombare in un'epoca neonazifascista dove la propria nazione e razza sia considerata superiore alle altre e dunque le altre nazioni e popoli si pensa di avere il diritto di annientare, ci deve anche essere la verità sulla storia d'Italia di questi 150 anni che è una sola e quasi mai/mai è quella "scritta dai vincitori" : ecco perchè porto alla vostra attenzione queste due note di questo anarchico lucano, comunque da verificare punto per punto sulla documentazione da cui sono prese queste notizie. In queste due note l'autore non cita le sue fonti e dunque indipendentemente da chi scrive, dalla sua cultura e convinzioni politiche i contenuti vanno verificati punto per punto con studio e ricerca, quando non si è a conoscenza come la sottoscritta dei fatti storici in esse denunciati, studio e ricerca che non ho potuto fare e dunque vi prego di prendere con cautela quanto scritto in queste 2 note che porto alla vostra attenzione e se l'argomento vi interessa, come interessa a me potrete di certo approfondire voi stessi come farò io appena ne avrò il tempo quanto scritto in queste 2 note. laura picchi
1861-2011: Il Genocidio dei Terronipubblicata da Nico Guevara brigante lucano il giorno mercoledì 16 marzo 2011 alle ore 8.04Non tutti sanno che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni. E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni “anti-terrorismo”, come i marines in Iraq.

Non tutti sanno che, nelle rappresaglie, si concessero libertà di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani, durante il conflitto etnico; o come i marocchini delle truppe francesi, in Ciociaria, nell’invasione, da Sud, per redimere l’Italia dal fascismo (ogni volta che viene liberato, il Mezzogiorno ci rimette qualcosa).

Non tutti sanno che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli d’Italia ebbero pure diritto di saccheggio delle città meridionali, come i Lanzichenecchi a Roma.
E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile.
In Parlamento, a Torino, un deputato ex garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al Sud a quelle di «Tamerlano, Gengis Khan e Attila».

Non
tutti sanno che si incarcerarono i meridionali senza accusa, senza
processo e senza condanna, come è accaduto con gl’islamici a Guantánamo. Lì qualche centinaio, terroristi per definizione, perché musulmani; da noi centinaia di migliaia, briganti per definizione, perché meridionali. E, se bambini, briganti precoci; se donne, brigantesse o mogli, figlie, di briganti; o consanguinei di briganti (sino al terzo grado di parentela); o persino solo paesani o sospetti tali. Tutto a norma di legge, si capisce, come in Sudafrica, con l’apartheid. Grazie alla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti, una legge simile, grazie a Nazi-Cossiga, servì oltre un secolo dopo per sterminare i nuovi Briganti.

Non tutti sanno che i briganti fossero guerriglieri per difendere il proprio paese invaso.

Non tutti sanno che il paesaggio del Sud divenne come quello del Kosovo, con fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi che bruciavano sulle colline e colonne di decine di migliaia di profughi in marcia.

Non tutti sanno che i primi campi di concentramento e sterminio in Europa li istituirono gli italiani del Nord, per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a migliaia, forse decine di migliaia (non si sa, perché li squagliavano nella calce).

Non tutti sanno che il ministero degli Esteri dell’Italia unita cercò per anni «una landa desolata», fra Patagonia, Borneo, per deportarvi i meridionali e annientarli lontano da occhi indiscreti.

Non tutti sanno che i fratelli d’Italia arrivati dal Nord svuotarono le ricche banche meridionali, regge, musei, case private (rubando persino le posate), per pagare i debiti del Piemonte e costituire immensi patrimoni privati.

Non tutti sanno che i Mille fossero quasi tutti avanzi di galera.

Non
tutti sanno che, a Italia così unificata, imposero una tassa aggiuntiva
ai meridionali, per pagare le spese della guerra di conquista del Sud,
fatta senza nemmeno dichiararla.

Non tutti sanno che l’occupazione del Regno delle Due Sicilie fosse stata decisa, progettata, protetta da Inghilterra e Francia, e parzialmente finanziata dalla massoneria (detto da Garibaldi, sino al gran maestro Armando Corona, nel 1988).

Non tutti sanno che il Regno delle Due Sicilie fosse, fino al momento dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati del mondo (terzo, dopo Inghilterra e Francia, prima di essere invaso).
Non tutti sanno che l’Italia unita facesse pagare più tasse a chi stentava e moriva di malaria nelle caverne dei Sassi di Matera, rispetto ai proprietari delle ville sul lago di Como.

Abbiamo sempre creduto ai libri di storia, alla leggenda di Garibaldi…la storia la scrive chi vince…




1861-2011:IL PRIMO LAGER AL MONDO, FENESTRELLE! Leggete questa storia,leggetela con attenzione e con una lacrima nel cuore.pubblicata da Nico Guevara Brigante Lucano il giorno giovedì 17 marzo 2011 alle ore 8.41Il primo campo di sterminio dell’era moderna era piemontese e vi morirono migliaia di soldati delle Due Sicilie.
All’entrata le parole: “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce”.
Gli storici continuano a voler ignorare una storia piena di dolore, disperazione e di morte
che da quasi 150 anni aspetta di essere scritta sui testi scolastici.
L’esempio piú emblematico di questa continua censura storica è il Lager
di Fenestrelle.
Ma facciamo un piccolo passo indietro, cosa ha
comportato l’Unità d’Italia? Le cifre ufficiali, anche se molto
sottovalutate, sono terrificanti: 5212 condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Una vera e propria repressione consumata all’indomani dell’Unità d’Italia dai Savoia e forse la si può definire come la prima pulizia etnica dell’epoca moderna, operata sulle popolazioni meridionali, dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti.

Se
queste argomentazioni ci indignano, niente può farci venire il ribrezzo
piú delle vicende che hanno coinvolto il forte di Fenestrelle dal 1860
al 1870.
In quel periodo si concretizzò il primo campo di sterminio della storia moderna, in esso trovarono la morte piú di 8.000 soldati del Regno delle Due Sicilie, ai quali va aggiunto un numero imprecisato di letterati, preti, briganti e miseri contadini.
Ma tutto ciò continua ad essere ignorato dalle menti illustri della storiografia “ufficiale” italiana e
dai letterati; addirittura sul sito dell’Amministrazione Provinciale la
fortezza viene presentata come “Monumento simbolo della Provincia di
Torino“ (con tanto di foto in notturna per decantarne implicitamente la
bellezza), mentre sul sito ufficiale del Forte, si invita alla
devoluzione del 5 per mille!

Sempre sul sito De Amicis scrive:
«Uno
dei piú straordinari edifizi che possa aver mai immaginato un pittore
di paesaggi fantastici: una sorta di gradinata titanica, come una
cascata enorme di muraglie a scaglioni, un ammasso gigantesco e triste
di costruzioni, che offriva non so che aspetto misto di sacro e di
barbarico, come una necropoli guerresca o una rocca mostruosa, innalzata
per arrestare un’invasione di popoli, o per contener col terrore
milioni di ribelli. Una cosa strana, grande, bella davvero. Era la
fortezza di Fenestrelle». Si chiude con «Guardiano immobile e supremo della nostra indipendenza e del nostro onore».
È la pura esaltazione dell’inferno! Ora immaginate se invece di Fenestrelle si parlasse di Auschwitz, e con in mente il nome del famoso lager nazista rileggete le parole di De Amicis appena sopra riportate!!
Noi popolo meridionale abbiamo l’obbligo morale di dire tutte
le verità sulla cieca e razzista politica di aggressione che i Savoia e
i Piemontesi hanno fatto nelle nostre meravigliose regioni!
Di seguito la vera storia, quella che non troverete mai nei testi scolastici dei vostri figli, leggetela con attenzione e con una lacrima nel cuore.

Fenestrelle, storia di un lager sconosciuto


“Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce”.
È
l’iscrizione che un visitatore legge oggi su un muro, entrando a
Fenestrelle, fortezza ubicata sulle montagne piemontesi dove, dal 1860
al 1870, furono deportati i migliaia di meridionali che si opposero
all’unità d’Italia e alla colonizzazione piemontese.
Gli
internati erano soprattutto poveri contadini ed ex soldati borbonici,
gli stessi che sarebbero morti di stenti e vessazioni perpetrati da chi
si reputava un liberatore!
Un insieme di forti protetti da
altissimi bastioni ed uniti da una scala di 4000 gradini scavata nella
roccia: ecco cos’era a quel tempo Fenestrelle, una gigantesca cortina
fortificata resa ancor piú spettrale dalla naturale asperità di quei
luoghi e dalla rigidità del clima.
Assassini, sacerdoti, giovani,
vecchi, miseri popolani e uomini di cultura privi di luce e coperte,
senza neanche un pagliericcio lottavano tra la vita e la morte in
condizioni disumane; perfino i vetri e gli infissi venivano smontati per
rieducare con il freddo i segregati.

Laceri
e poco nutriti passavano le giornate standosene appoggiati ai
muraglioni nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi di sole
invernali, e chissà che in quei momenti non ricordassero con nostalgia
il calore di climi piú mediterranei.
Pochissimi riuscirono a sopravvivere: le aspettative di vita in quelle condizioni non superavano i tre mesi e spesso i carcerati venivano uccisi anche solo per aver proferito ingiurie contro i Savoia.
Nessuna spiegazione logica dunque alla base della loro misera prigionia, molti non erano nemmeno registrati, da qui la difficoltà di conoscere oggi il numero preciso dei morti, processati e non.
E
proprio a Fenestrelle furono imprigionati la maggior parte di quei
soldati che, subito dopo la resa di Gaeta nel 1861, avrebbero dovuto
trovare la libertà. Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero,
invece, subire un trattamento infame: disarmati, derubati di tutto e
vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi, morirono di stenti.
Poi,
il 22 agosto del 1861 arriva il tentativo di rivolta: uno sforzo
inutile, sventato per tempo dai piemontesi e che ebbe come risultato
l’inasprimento delle pene tra cui la costrizione di portare al piede
palle da 16 chili, ceppi e catene.
L’unica liberazione possibile era dunque la morte,
delle piú atroci: i corpi venivano sciolti nella calce viva, collocata
in una grande vasca nel retro della chiesa all’ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti.

I NOSTRI MORTI
I
nostri morti, i quali per quasi un secolo e mezzo sono stati insultati e
poi dimenticati da ogni scuola ed istituzione del “nostro” Paese.
ED
OGGI TUTTI PRONTI A FESTEGGIARE CON LE BANDIERINE MACCHIATE DAL SANGUE
DI MIGLIAIA DI MERIDIONALI! TUTTI PRONTI A FESTEGGIARE, SENZA NEMMENO
SAPERE COSA REALMENTE SI FESTEGGIA, IGNARI, COME TANTI “BALILLA”.