il SUD visto da un'altra
parte (per cercare di capire)
IL SUD D'ITALIA
negli
"ANNI INFAMI" (mai più dimenticati)
la pulizia
etnica piemontese
nelle
Due Sicilie
il "brigantaggio" - le deportazioni
di Antonio
Pagano
La statistica
di fine anno 1861, fatta dagli occupanti piemontesi, indicò che nel solo secondo
semestre vi erano stati 733 fucilati, 1.093 uccisi in combattimento e 4.096
fra arrestati e costituiti. Le cifre, tuttavia, furono molto al disotto del
vero, in quanto non erano indicati quelli della zona della Capitanata, di
Caserta, Molise e Benevento, dove comandava il notissimo assassino Pinelli.
Al Senato di Torino, il ministro della guerra Della Rovere, dichiarò che 80.000
uomini dell'ex armata napoletana, imprigionati in varie località della penisola,
avevano rifiutato di servire sotto le bandiere piemontesi.
Vi erano stati migliaia di profughi, centinaia i paesi saccheggiati, decine
quelli distrutti. Dovunque erano diffuse la paura, l’odio e la sete di vendetta.
L’economia agricola impoverita, quasi tutte le fabbriche erano state chiuse
e il commercio si era inaridito in intere province. La fame e la miseria erano
diventate un fatto comune tra la maggior parte della popolazione.
Il 1° gennaio 1862 in Sicilia insorse Castellammare del Golfo al grido di
“fuori i Savoia. Abbasso i pagnottisti. Viva la Repubblica”.
Furono uccisi il comandante collaborazionista della guardia nazionale, Francesco
Borruso, con la figlia e due ufficiali. Case di traditori unitari vennero
arse. Strappati i vessilli sabaudi, spogliati ed espulsi i carabinieri. Le
guardie e i soldati accorsi da Calatafimi e da Alcamo furono battuti e messi
in fuga dai rivoltosi. Il 3 gennaio arrivarono nel porto la corvetta “Ardita”
e due piroscafi che furono accolti a cannonate, ma con lo sbarco dei bersaglieri
del generale Quintini i rivoltosi furono costretti alla fuga. I piemontesi
fucilarono centinaia di insorti tra cui alcuni preti. A Palermo comparirono
sui muri manifesti borbonici e sulla reggia fu messa una bandiera gigliata.
Agli inizi dell’anno il generale borbonico Tristany, accompagnato da una decina
di ufficiali Spagnoli e Napolitani, ebbe un nuovo abboccamento con il comandante
partigiano Chiavone, al quale ripeté la richiesta di subordinare le sue forze
partigiane alla sua azione di comando affidatogli dal Re Francesco II.
A Marsala, durante la caccia ai patrioti siciliani, le truppe piemontesi circondarono
la città e arrestarono oltre tremila persone, per lo più parenti dei ricercati,
comprese donne e bambini, che furono ammassate per settimane nelle catacombe
sotterranee vicine alla città, in condizioni disumane, dove erano prive di
luce e di aria.
Al ponte di Sessa un plotone di lancieri cadde in un agguato dei partigiani
napolitani e sedici soldati furono uccisi. A Napoli si ebbero tumulti per
l’applicazione della legge che aveva imposta la nuova tassa detta il decimo
di guerra.
Proprio in gennaio furono abolite le tariffe protezionistiche per effetto
delle pressioni della borghesia agraria del Piemonte e della Lombardia. Queste
disposizioni dettero il colpo di grazia alle industrie dell’ex Reame provocando
il definitivo fallimento degli opifici tessili di Sora, di Napoli, di Otranto,
di Taranto, di Gallipoli e del famosissimo complesso di S. Leucio, i cui telai
furono portati qualche anno dopo a Valdagno, dove fu creata la prima fabbrica
tessile nel Veneto, di Piero Marzabotto (poi Marzotto) che con i Rossi, protetti
entrambi dagli Austriaci fin dal 1836, da semplici pannaioli si erano trasformati
in industriali monopolisti privilegiati dell'austro Lombardo-Veneto, facendo
fallire e chiudere molte grandi industrie tessili milanesi, ormai senza più
ordini.
Vennero smantellate, tra le altre attività minori, le cartiere di Sulmona
e le ferriere di Mongiana, i cui macchinari furono trasferiti in Lombardia.
Furono costrette a chiudere anche le fabbriche per la produzione del lino
e della canapa di Catania. La disoccupazione diventò un fenomeno di massa
e incominciarono le prime emigrazioni verso l’estero, l’inizio di una vera
e propria diaspora. Con gli emigranti incominciarono a scomparire dalle già
devastate Terre Napoletane e Siciliane le forze umane più intraprendenti.
A questo grave disastro si aggiunse l’affidamento degli appalti (e le ruberie)
per i lavori pubblici da effettuare nel Napoletano ed in Sicilia ad imprese
lombardo-piemontesi che furono pagate con il drenaggio fiscale locale operato
dai piemontesi. La solida moneta aurea ed argentea borbonica venne sostituita
dalla carta moneta piemontese, provocando la più grande devastazione economica
mai subìta da un popolo.
Il 22 gennaio sul Fortore, nel Foggiano una banda di 140 patrioti a cavallo
attaccò una compagnia di fanti piemontesi che furono decimati. A Napoli militari
piemontesi isolati caddero vittime di attentati. A Mugnano, caduta in un agguato,
la banda partigiana di Angelo Bianco fu completamente assassinata dai bersaglieri
e dalle guardie nazionali.
Il 1° febbraio, nei boschi di Lagopesole, due compagnie di bersaglieri e fanti
assaltarono i patrioti di Ninco-Nanco e Coppa, uccidendone 11 e catturando
una donna. Proprio in quel giorno il turpe Liborio Romano, quale deputato,
propose nel parlamento piemontese di vendere tutti i beni demaniali e degli
istituti di beneficenza delle Due Sicilie a prezzo minore del valore reale,
a rate fino a 26 anni, pagabile con titoli di Stato al 5%.
Il giorno dopo la banda di Giuseppe Caruso sgominò un reparto del 46° fanteria
nel bosco di Montemilone.
A Reggio Calabria, il 5 febbraio, vennero imprigionati tutti quelli "sospettati"
di essere filoborbonici. Sul confine pontificio, lo stesso giorno, alcuni
gruppi patrioti comandati dal Tristany furono sconfitti dalle truppe piemontesi
nei pressi di Pastena. Pilone, invece, a Scafati sfuggì ad un agguato tesogli
dalle guardie nazionali di Castellammare.
A Vallo di Bovino furono catturati e fucilati dai patrioti due ufficiali piemontesi.
Il generale La Marmora, in visita a Pompei sfuggì ad un attentato da parte
della banda di Pilone. A Napoli venne minacciata da Pilone la stessa duchessa
di Genova, cognata di Vittorio Emanuele, a cui intimò con una lettera di non
uscire da Napoli, pena la cattura.
I terrorizzati piemontesi, in quei giorni, persero completamente il controllo
della situazione, emanando dei bandi e ordinanze feroci, soprattutto nel Gargano
e in Lucera, dove furono comminate pene di morte per la violazione dei più
piccoli divieti. Il col. Fantoni in terra di Lucera, dopo aver vietato l’accesso
alla foresta del Gargano, fece affiggere un editto che disponeva che: «Ogni
proprietario, affittuario o ogni agente sarà obbligato immediatamente dopo
la pubblicazione di questo editto a ritirare le loro greggi, le dette persone
saranno altresì obbligate ad abbattere tutte le stalle erette in quei luoghi
... Quelli che disobbediranno a questi ordini, i quali andranno in vigore
due giorni dopo la pubblicazione, saranno, senza avere riguardo per tempo,
luogo o persona, considerati come briganti e come tali fucilati».
SI COMINCIA A CHIAMARLI TUTTI "BRIGANTI" E IL FENOMENO DELLA
PARTIGIANERIA LOCALE "BRIGANTAGGIO".
L’8 febbraio evasero dalle carceri di Teramo 55 patrioti, che si rifugiarono
sui monti sotto il comando di Persichini. Inseguiti da un reparto del 41°
fanteria, cinque furono uccisi e tredici catturati, ma anche questi furono
fucilati dopo qualche giorno. Durante una riunione in una masseria di S. Chirico
in Episcopio, la banda di Cioffi, tradita da un tal Lupariello, fu circondata
ed assalita da ingenti forze piemontesi, ma l’inattesa e violentissima reazione
dei patrioti causò uno sbandamento degli assedianti. Pur subendo due morti
e molti feriti, Cioffi riuscì a sganciarsi con tutti i suoi uomini. I cadaveri
dei due patrioti morti in combattimento furono esposti dai piemontesi nella
piazza della Maddalena a Sarno. Qualche giorno dopo il Lupariello fu catturato
e, sottoposto ad un giudizio, giustiziato, poi la sua testa fu apposta dai
militari piemontesi su una pertica vicino a una sorgente frequentata dalla
popolazione.
Il 12 febbraio il colonnello della guardia nazionale di Cosenza, Pietro Fumel,
emanò un bando da Cirò veramente raccapricciante : «Io
sottoscritto, avendo avuto la missione di distruggere il brigantaggio, prometto
una ricompensa di cento lire per ogni brigante, vivo o morto, che mi sarà
portato. Questa ricompensa sarà data ad ogni brigante che ucciderà un suo
camerata ; gli sarà inoltre risparmiata la vita. Coloro che in onta degli
ordini, dessero rifugio o qualunque altro mezzo di sussistenza o di aiuto
ai briganti, o vedendoli o conoscendo il luogo ove si trovano nascosti, non
ne informassero le truppe e la civile e militare autorità, verranno immediatamente
fucilati ... Tutte le capanne di campagna che non sono abitate dovranno essere,
nello spazio di tre giorni, scoperchiate e i loro ingressi murati ... È proibito
di trasportare pane o altra specie di provvigione oltre le abitazioni dei
Comuni, e chiunque disubbidirà a questo ordine sarà considerato come complice
dei briganti.» Costui, un sanguinario assassino, praticò metodicamente
il terrore e la tortura contro inermi cittadini e le loro proprietà per distruggere
ogni possibile aiuto ai patrioti.
Questi orrendi misfatti ebbero un’eco perfino alla camera dei Lords di Londra,
dove nel maggio del 1863, il parlamentare Bail Cochrane, a proposito del proclama
del Fumel, affermò : «Un proclama più infame non
aveva mai disonorato i peggiori dì del regno del terrore in Francia»,
per cui gli ufficiali che avevano emanato quegli ordini furono allontanati
dai propri reparti.
Il famoso comandante Crocco, che aveva diviso la sua banda di circa 600 uomini
in sei gruppi, l’aveva disseminata nei boschi di Monticchio, Boceto, San Cataldo
e Lagopesole. I suoi gruppi patrioti con rapide scorrerie misero a sacco le
masserie dei traditori nella zona di Altamura. Poi, il 24 febbraio, Crocco
assaltò la guardia nazionale di Corato e batté i cavalleggeri del generale
Franzini in uno scontro presso Accadia, dove però perse dodici uomini.
Il 1° marzo Crocco riunì nel bosco di Policoro, presso la foce del Basento,
i suoi patrioti a quelli di Summa, Coppa, Giuseppe Caruso e Cavalcante, in
previsione del piano elaborato dal Comitato Borbonico in Roma (Clary e Statella)
di attaccare Avezzano con duemila uomini comandati da Tristany, che, richiamando
così le truppe piemontesi, avrebbe dovuto lasciare sguarnito il confine pontificio
per lunghi tratti, permettendo ad altre forze borboniche di invadere gli Abruzzi
con la contemporanea sollevazione di tutti i patrioti del Reame. Era previsto
anche uno sbarco sul litorale ionico di elementi legittimisti spagnoli e austriaci.
Una spia infiltrata, Raffaele Santarelli, fece conoscere in tempo il piano
ai piemontesi, che presero contromisure sia navali, con la flotta di Taranto,
sia per via terrestre con un concentramento di bersaglieri e cavalleggeri.
Il 3 e il 4 marzo 1862 Crocco si scontrò al ponte S. Giuliano, sul Bradano,
con il 36° fanteria e lo mise in fuga, ma subendo alcune perdite. Nei giorni
successivi, l’8 marzo, a S. Pietro di Monte Corvino, si ebbe un altro scontro
di patrioti contro piemontesi, che subirono numerose perdite. Il giorno dopo
Crocco sconfisse alcuni reparti di guardie nazionali alla masseria Perillo,
nei pressi di Spinazzola, uccidendone dieci, compreso il comandante, maggiore
Pasquale Chicoli, un traditore che aveva formato il governo provvisorio di
Altamura ancora prima dell’arrivo dei garibaldini.
Il 10 marzo Pilone occupò Terzigno, dove dopo aver requisito armi e munizioni,
fucilò i ritratti di Garibaldi e Vittorio Emanuele. Il governatore piemontese
dispose che tutto il 7° reggimento di fanteria venisse destinato a catturare
Pilone.
A Baiano, il 12 marzo, venne fucilato un contadino di 16 anni, Antonio Colucci,
che, stando su un albero in una masseria di Nola, aveva segnalato ai patrioti
l’arrivo di piemontesi. Il ragazzo era stato catturato e processato da un
tribunale di guerra che lo condannò alla pena capitale.
Nel frattempo continuarono numerosi gli attacchi dei partigiani napoletani,
vere e proprie azioni di guerra, contro le truppe piemontesi. Tra gli episodi
più importanti sono da ricordare quello del 17 marzo, quando la banda di Michele
Caruso sterminò alla masseria Petrella (Lucera) un intero distaccamento di
21 fanti dell’8° fanteria, comandato dal capitano Richard. Il 31 marzo ad
Ascoli di Capitanata i patrioti sconfissero, procurando centinaia di morti,
i bersaglieri e i cavalleggeri del colonnello Del Monte. Lo stesso giorno,
a Poggio Orsini, presso Gravina, i piemontesi misero in fuga un centinaio
di patrioti, ma a Stornarella furono massacrati 17 lancieri del “Lucca”, che
ebbe anche 4 dispersi. La provincia di Bari, la terra d’Otranto ed il Tarantino
erano tuttavia controllate dalle forze partigiane. In questi avvenimenti vi
furono molti garibaldini ed anche regolari piemontesi che disertarono e si
unirono ai briganti. Tra i disertori è da ricordare come esempio quello dell’operaio
biellese Carlo Antonio Gastaldi, decorato con medaglia d’argento al valor
militare nella battaglia di Palestro del 1859. Inviato nelle Puglie a combattere
i “briganti”, fu talmente schifato delle nefandezze piemontesi, che divenne
addirittura luogotenente del Sergente Romano, insieme ad un altro piemontese,
Antonio Pascone.
Alla fine di marzo, nel parlamento di Torino fu istituita un Commissione con
il compito di studiare le condizioni delle provincie meridionali. Tale Commissione,
presieduta dai massoni Giuseppe Montanelli e Luigi Miceli, suggeriva, tra
l’altro, di iniziare numerosi e svariati lavori pubblici, istituire nuove
scuole comunali per “illuminare” la gioventù, l’incameramento totale dei beni
religiosi, la divisione e vendita dei beni demaniali e comunali. Per la risoluzione
del “brigantaggio” la commissione proponeva anche l’invio di Garibaldi a Napoli
e l’aumento delle guardie nazionali.
Il mese successivo, il 4 aprile, la legione ungherese, già "usata"
da Garibaldi nella sua spedizione, riuscì ad infliggere alcune perdite a Crocco
tra Ascoli e Cerignola. Il 6 aprile 200 patrioti assalirono Luco de’ Marsi
dove si era asserragliato un reparto del 44° fanteria che si difesero efficacemente.
Poi il 7 aprile Crocco sconfisse due drappelli del 6° fanteria a Muro, Aquilonia
e Calitri, uccidendo una ventina di piemontesi e catturando numerosi prigionieri.
A Torre Fiorentina, presso Lucera, l’8 aprile, i lancieri di Montebello uccisero
trenta patrioti. Il giorno dopo circondarono i rimanenti patrioti di Coppa
e Minelli, che furono quasi completamente distrutti: 40 morti, 21 fucilati
dopo la cattura ed altri 42 uccisi mentre “tentavano la fuga”. In Sicilia,
ad Apaforte, Stincone, S. Cataldo e Boccadifalco, la popolazione insorse dando
alle fiamme le cataste di zolfo. Furono distrutte tutte le piantagioni e gli
animali per protesta contro le vessazioni dei piemontesi.
Le truppe francesi di stanza nello Stato Pontificio sequestrarono il 10 aprile
le armi e munizioni borboniche a Paliano, a Ceprano, a Falvaterra. Le armi
avrebbero dovuto servire per il piano d’invasione capeggiato dal Tristany.
Con una delibera del 13 aprile la piazza nota come “Largo di Castello”, dov’è
situato il Maschio Angioino, fu fatta chiamare Piazza Municipio dal sindaco
massone Giuseppe Colonna.
In quei giorni la banda di Pagliaccello, di Cerignola, fu dispersa dai cavalleggeri
“Lucca”, che fucilarono 21 patrioti. Duro colpo anche alla banda di Crocco
che il 25 aprile 1862, alla masseria Stragliacozza, subì un improvviso attacco
dai piemontesi che riuscirono a metterla in fuga, uccidendone 25 uomini.
Alla fine del mese, il 28 aprile, Vittorio Emanuele si recò a Napoli a bordo
della nave “Maria Adelaide” e fece un donativo alla statua di S. Gennaro
per ingraziarsi i Napoletani. Ma S. Gennaro non abboccò e non fece il “miracolo”.
Crocco, nonostante le dure sconfitte, continuò eroicamente le sue azioni di
guerra e il 7 maggio sterminò a Zungoli un distaccamento del 37° fanteria.
Tuttavia il giorno dopo, tra Canosa e Minervino, i patrioti di Summa persero
15 uomini per un fortunoso attacco dei cavalleggeri. Nell’occasione fu ferito
Ninco-Nanco. Nel prosieguo dell’azione alcune guardie nazionali catturarono
una donna, la quale portava in campagna un pezzo di pane al figlio che essi
ritenevano un patriota. La legarono, la fecero inginocchiare e la fucilarono.
Il 7 maggio esplose anche lo scandalo riguardante la concessione degli appalti
per la costruzione delle ferrovie meridionali al massone Adami. Il direttore
del giornale “Espero” di Torino che aveva avuto il coraggio di denunciare
alla pubblica opinione le speculazioni commesse dal Bertani e dall’Adami,
fu condannato per diffamazione e per ingiurie a due mesi di carcere e a 300
lire di multa. Naturalmente lo scandalo, che cointeressava anche una trentina
di deputati piemontesi, fu insabbiata alla maniera piemontese.
Chiavone invase e saccheggiò Fontechiari il 10 maggio.
Intanto, allo scopo di impossessarsi dell’industria napoletana del gas per
ricompensare gli inglesi dell’aiuto ricevuto, i governanti piemontesi avevano
subdolamente fatte fare numerose critiche per la qualità del servizio, indicendo
una gara per una nuova concessione. Alla gara si presentarono numerosi concorrenti,
ed il 12 maggio 1862 venne firmato il nuovo contratto di appalto dell'illuminazione
a gas con la ditta Parent, Shaken and Co. La nuova Società venne costituita
il 18 ottobre dello stesso anno con il nome di “Compagnia Napoletana d'Illuminazione
e Scaldamento col Gaz”, che verso la fine dell'anno seguente inaugurò
un nuovo opificio nella zona dell'Arenaccia lungo il fiume Sebeto.
Il 18 maggio le collaborazioniste guardie nazionali di Ariano, incontrati
presso Sprinia i patrioti di Parisi, si rifiutarono di battersi e si diedero
alla fuga, ma ne furono catturate 14. A Catania vi fu un’insurrezione lo stesso
18 maggio, ma fu rapidamente repressa dalle truppe piemontesi che massacrarono
49 civili. Il giorno dopo Chiavone conquistò Fontechiari e Pescosolido, riunendosi
con i patrioti di Tamburini e Pastore. Con tutte queste forze tentano di assalire
anche Castel di Sangro, ma vennero respinti e costretti a rifugiarsi nel territorio
pontificio.
A Roma, intanto, erano avvenute le nozze tra Maria Annunziata, una delle prime
figlie di Ferdinando II, e l’arciduca Carlo Lodovico, fratello dell’imperatore
Francesco Giuseppe. Da questo matrimonio nacque l’erede al trono dell’Austria-Ungheria,
Francesco Ferdinando, che fu sempre uno strenuo nemico dell’Italia dei Savoia.
L’uccisione di Francesco Ferdinando a Serajevo nel 1914 fu la causa che fece
scoppiare la I guerra mondiale.
Il 29 maggio fu catturato e poi fucilato a Mola di Gaeta il conte rumeno Edwin
Kalchrenth, il famoso capo patriota “conte Edwino”, ex ufficiale della cavalleria
borbonica che operava unitamente a Chiavone nella Terra del Lavoro e negli
Abruzzi.
In giugno i patrioti non diedero tregua ai piemontesi. Il giorno 2, il 44°
fanteria fu attaccato al confine tra Abruzzi e Terra del Lavoro, perdendovi
cinque uomini. Il 7 giugno Chiavone invase Pescosolido, dove fece rifornimenti
per il suo raggruppamento. Ad Acqua Partuta, nel beneventano, il 14 giugno,
i patrioti uccisero 11 guardie nazionali e 4 carabinieri che li avevano assaliti.
Numerosi patrioti di Guardiagrele attaccarono Gamberale, ma furono respinti
da reparti del 42° fanteria.
Il giorno 15, la legione ungherese in un drammatico ed imprevisto scontro
distrusse nel bosco di Montemilone una banda partigiana di 27 uomini. Presso
Ginestra la banda Tortora in uno scontro con gli stessi ungheresi perse 13
uomini. Poi, il giorno dopo, alla masseria La Croce la 4ª compagnia del 33°
bersaglieri fu assalita da Crocco e da Coppa, subendo molte perdite, ma a
S. Marco in Lamis fu catturato il capo patriota Angelo Maria del Sambro e
quattro suoi compagni, tra cui il dottor Nicola Perifano, già chirurgo del
3° Dragoni napoletano, più volte decorato. Furono tutti immediatamente fucilati.
Numerosi furono gli scontri tra i piemontesi, particolarmente tra il 61° ed
il 62°, contro i patrioti che presidiavano i boschi di Monticchio, di Lagopesole
e di S. Cataldo. Il 17 giugno Chiavone, dopo essersi riunito con i patrioti
abruzzesi di Luca Pastore e di Nunzio Tamburini sull’altopiano delle Cinque
Miglia, invase Pietransieri e attaccò Castel di Sangro, dove però fu respinto.
Rientrato nel territorio pontificio, tuttavia, il Tristany il 28 giugno lo
fece arrestare e processare da un consiglio di guerra, che lo condannò a morte
per rapina e omicidio. La fucilazione di Chiavone volle essere anche un esempio
per far attenere i patrioti alle direttive impartite dal Comitato Borbonico.
Tutta la penisola sorrentina intanto veniva continuamente rastrellata da numerosi
reparti piemontesi, ma senza alcun esito. A Torre del Greco il 7° fanteria,
rinforzato da colonne mobili della guardia nazionale, riuscirono a circondare
sulle alture della cittadina il gruppo di combattimento di Pilone. Dopo un
furioso combattimento, il grosso dei patrioti di Pilone, riuscì a sganciarsi,
ma con numerose perdite e molti prigionieri, che il giorno dopo furono fucilati
dai piemontesi. Dopo qualche giorno Pilone attaccò temerariamente in località
Passanti una colonna di truppe piemontesi, liberando anche alcuni prigionieri
che stavano per essere fucilati.
Garibaldi, nel frattempo, che era comparso nuovamente in Sicilia il 20 maggio
per fomentare una rivolta diretta alla conquista di Roma, si recò Il 29 giugno
a Palermo, dov’erano in visita i principi Umberto e Amedeo. Il giorno dopo,
al Teatro “Garibaldi”, pronunciò uno sconclusionato discorso, affermando che
se fosse stato necessario avrebbe fatto un altro Vespro Siciliano. All’indomani
si recò alla Ficuzza per arruolare volontari da impiegare per la conquista
di Roma e di Venezia.
La Capitanata, il Gargano e la Terra di Bari erano in concreto nelle mani
dei patrioti. Lo stillicidio delle continue perdite subìte in luglio dai piemontesi
indusse il governo piemontese a sostituire il comandante della zona, generale
Seismit-Doda, con il generale massone Gustavo Mazé de la Roche. Costui, per
tagliare i rifornimenti ai gruppi patrioti, fece incendiare i pagliai, fece
murare le porte e finestre delle masserie e fece arrestare tutte le persone
che circolavano fuori degli abitati. La reazione dei patrioti fu immediata
con la rapida invasione di grossi paesi, come Torremaggiore, con la razzia
di molte mandrie, con l’incendio di masserie e con ripetuti attacchi, nei
pressi di S. Severo, ai cantieri della ferrovia Pescara-Foggia allora in costruzione.
Il 30 giugno 1862 il generale Tristany, per dare un esempio, fece fucilare
due capi patrioti, Antonio Teti e Giuseppe de Siati, che, quali armati per
la lotta di liberazione delle Due Sicilie, avevano commesso illegittimamente
alcuni furti durante azioni di guerriglia. Il Tristany aveva voluto, con quest'episodio,
improntare esclusivamente con carattere militare le azioni guerrigliere dirette
soprattutto contro le pattuglie piemontesi in perlustrazione nelle campagne.
Lo stesso giorno la banda dei patrioti comandata dai fratelli Ribera partì
da Malta e sbarcò a Pantelleria, allo scopo di liberare l’isola dai piemontesi
e per ripristinare il governo borbonico. Con l’aiuto di tutta la popolazione,
i patrioti compirono numerose azioni contro i traditori collaborazionisti
e le guardie nazionali che prevaricavano sulla gente.
Il 1° luglio il Re Francesco II protestò da Roma contro il riconoscimento
fatto dai vari Stati europei ai Savoia come re d’Italia.
Nei primi giorni di luglio, il famoso comandante patriota Giuseppe Tardio,
uno studente di Piaggine Soprano, che aveva organizzato il suo gruppo di combattimento
nell’ottobre del 1861 nella zona di Agropoli, dopo aver eliminate le guardie
nazionali che incontrava, invase con i suoi uomini prima Futani e poi Abatemarco,
Laurito, Foria, Licusati, Centola e Camerota. Nella sua avanzata gli si aggregarono
molte centinaia di patrioti, che in seguito dovettero tuttavia disperdersi
per i continui attacchi delle truppe piemontesi.
Il 6 luglio Garibaldi, in occasione di una rivista alla guardia nazionale
a Palermo, pronunziò davanti alle autorità un violento discorso contro Napoleone
III che riteneva responsabile del brigantaggio.
Altro scontro dei patrioti di Crocco avvenne il 14 luglio a Lacedonia con
i bersaglieri, che persero cinque uomini. Si ebbero nel mese ancora numerosi
scontri tra piemontesi e patrioti, che attaccavano all’improvviso ed improvvisamente
sparivano. Il 16 luglio un reparto del 17° bersaglieri, in un durissimo e
prolungato combattimento, uccise il comandante partigiano Malacarne (fratello
del famoso Sacchettiello) ed altri sei patrioti. Il 19 luglio molti patrioti
abruzzesi attaccarono presso Fossacesia il magazzino degli imprenditori ferroviari
Martinez, uccidendo alcuni tecnici, e invasero l’abitato che fu saccheggiato.
Ad Amalfi però la superiorità partigiana si manifestò in tutta la sua evidenza
quando il 22 luglio i partigiani occuparono la città, tenendola addirittura
per due giorni. Lo stesso giorno, tuttavia, la bestiale legione ungherese
uccise 12 patrioti a Tortora. Alla fine di luglio, sui monti del Matese, nelle
zone di Piedimonte d’Alife e di Cerreto Sannita, i gruppi di combattimento
patrioti di Cosimo Giordano, Padre Santo e De Lellis contrastarono ferocemente
e vittoriosamente i rastrellamenti effettuati dai reparti del 39° e 40° fanteria.
Il 26 luglio, dopo un lungo silenzio, i patrioti del sergente Romano invasero
Alberobello, dove, eliminate le guardie nazionali, si rifornirono di tutte
le loro armi e munizioni.
Agli inizi di agosto 1862 i gruppi patrioti del Pizzolungo e dello Scenna,
in numero di 200, invasero nel Vastese le cittadine di Villalfonsina, Carpineto,
Guilmi, Roio, Monteferrante, Colle di Mezzo, Pennadomo e Roccascalegna, dove
saccheggiarono le case dei collaborazionisti con i piemontesi e li trucidarono.
In Pantelleria la banda Ribera non riuscì in un tentativo di giustiziare il
sindaco, connivente dei piemontesi, ma inflisse numerose perdite ai reparti
piemontesi che li inseguivano. L’imprendibilità e le quasi sempre vittoriose
azioni dei patrioti di Ribera indussero i piemontesi ad inviare nell'isola
altra 500 soldati sotto il comando del feroce colonnello Eberhard, già sperimentato
in azioni di controguerriglia nel continente.
La continua opera di reclutamento e di propaganda di Garibaldi, finalizzata
a conquistare anche Roma, indusse Vittorio Emanuele ad emanare il 3 agosto
un proclama con cui, senza mai nominare il nizzardo, condannava la sua iniziativa.
Il 4 agosto il gruppo patriota di Abriola invase e saccheggiò le case di alcuni
traditori di Campomaggiore. Fra il 3 ed il 5 agosto, disgustati per l’ingrata
opera di repressione, gli usseri e la fanteria ungherese stanziati a Lavello,
Melfi e Venosa si misero in movimento per concentrarsi a Nocera, ma, bloccati
e disarmati dai piemontesi, furono imbarcati a Salerno il 13 agosto per ordine
di La Marmora, che li fece trasportare in piemonte. 150 ungheresi tuttavia
riuscirono a fuggire con lo scopo di raggiungere Garibaldi.
Sulle montagne tra Castro e Falvaterra, i patrioti, approfittando del marasma
causato da Garibaldi, si lanciarono in una cruenta offensiva e invasero i
comuni di Campomaggiore, nel potentino, e Flumeri, nell’avellinese. La cittadina
di Sturno fu occupata e tenuta fino al 7. Intensi combattimenti vi furono
per tutto il mese nell’Alta Irpinia: a Bisaccia, Guardia Lombardi, Monteleone,
Pescopagano, Avigliano, S. Sossio, Ariano, Genzano, Frigenti. Ogni piemontese
scovato era immediatamente fucilato.
Il 6 agosto Garibaldi si scontrò a S. Stefano di Bivona con le truppe piemontesi
e si ebbero alcuni morti da ambo le parti. A Fantina, in Sicilia, sette volontari
per Garibaldi della colonna Tasselli, dei quali cinque disertori piemontesi,
vennero catturati da un reparto del 47° fanteria, comandato dal maggiore De
Villata, e fucilati sul posto. Trentadue ufficiali della brigata “piemonte”,
che avevano dato le dimissioni nei pressi di Catania, furono arrestati e privati
del grado dal Consiglio di disciplina di Torino, per “mancanza contro l’onore”.
A Torino, fu varata una legge che disponeva una “spesa straordinaria” di lire
23.494.500 per l’acquisto e la fabbricazione di 676.000 fucili da destinarsi
alle guardie nazionali.
Verso la metà del mese vi fu un’evasione in massa dal carcere di Granatello
di Portici di detenuti politici, che andarono ad ingrossare le bande partigiane.
Nel frattempo, mentre il 13 agosto in Capitanata i patrioti avevano occupato
Zapponeta ed otto comuni del Vastese, Garibaldi scorrazzava per la Sicilia,
entrando in Catania il 18 agosto. La Marmora proclamò il 20 lo stato d’assedio
in tutta la Sicilia e dichiarò ribelle Garibaldi, che si accingeva a risalire
la penisola con il suo Corpo di Volontari.
Il 22 agosto al massone Bastogi fu concesso l’appalto per la costruzione delle
ferrovie nel sud dell’Italia, per cui fu costituita la società delle Strade
Ferrate Meridionali. Nel consiglio d'amministrazione della società facevano
parte ben 14 deputati piemontesi, che erano stati anche ricompensati con 675.000
lire per il loro “interessamento”. Vice presidente della società fu nominato
Bettino Ricasoli. Lo Stato accordò un sussidio a Bastogi di 20 milioni di
lire e lo sfruttamento per 90 anni dei 1.365 chilometri di ferrovia. Tra i
finanziatori vi erano la Cassa del Commercio di Torino, i fratelli ebrei massoni
Isaac e Emile Pereire di Parigi, e la società di Credito mobiliare spagnolo
(di cui Nino Bixio era consigliere di amministrazione). Tra i vari possessori
delle azioni della società figuravano molti massoni, tra cui il fratello di
Cavour, il marchese Gustavo, il Nigra, il Tecchio, il Bomprini, il Denina,
il Beltrami.
Dopo lo sbarco di Garibaldi, il 24 a Pietra Falcone, sulla spiaggia tra Melito
e Capo d’Armi, lo stato d’assedio fu esteso il 25 agosto a tutto il Mezzogiorno.
Approfittando dello stato d’assedio i piemontesi saccheggiarono moltissime
chiese, rubando ogni oggetto prezioso. Fu soppressa la libertà di stampa e
di riunione. Anche la posta fu censurata. Fu instaurata una feroce dittatura
militare. I principali comandanti patrioti di Terra d’Otranto, allora, si
riunirono nel bosco di Pianella, a nord di Taranto, per concordare l’unitarietà
del comando e la condotta delle operazioni, con lo stabilire le zone di competenza.
Il sergente Romano ebbe a disposizione oltre 300 uomini a cavallo, suddivisi
agli ordini dei luogotenenti Cosimo Mazzeo (Pizzichicchio), Giuseppe Nicola
La Veneziana, F.S. L’Abbate, Antonio Lo Caso (il capraro), Riccardo Colasuonno
(Ciucciariello), Francesco Monaco (ex sottufficiale borbonico) e Giuseppe
Valente (Nenna-Nenna, ex ufficiale garibaldino).
In quei giorni, tutta la Terra d’Otranto rimase sotto il totale controllo
dei patrioti.
Sull’Aspromonte il 29 agosto, a seguito di un brusco voltafaccia del governo
savoiardo (che fino allora l’aveva nascostamente appoggiato), vi fu uno scontro
tra le truppe piemontesi e gli avventurieri di Garibaldi, che fu intenzionalmente
ferito e fatto prigioniero. I piemontesi subito dopo gli scontri fucilarono
a Fantina, senza alcun processo, sette disertori piemontesi che erano con
Garibaldi, che a seguito della cattura fu rinchiuso per qualche tempo nel
forte di Verignano. Pochissimi popolani l’avevano seguito nell’avventura,
la maggior parte erano piemontesi disertori. Il Tribunale Militare degli invasori
piemontesi emise in seguito 109 condanne a morte, 19 ergastoli e 93 condanne
ai lavori forzati. Il Savoia, per questi fatti, concesse 76 medaglie al valore.
Il 31 agosto un reparto del 18° bersaglieri uccise tredici patrioti ad Apice,
in provincia di Benevento. I patrioti di Tristany ebbero uno scontro a fuoco
con gli zuavi pontifici nei pressi di Falvaterra e a Castronuovo.
Numerosi patrioti a cavallo attaccarono agli inizi di settembre reparti piemontesi
di stanza nell’Irpinia a Flumeri, a S. Sossio ed a Monteleone, alla masseria
Franza (Ariano) e nei boschi di S. Angelo dei Lombardi. Il 6 settembre i patrioti
riuscirono a disarmare la guardia nazionale di Colliano, in provincia di Campagna.
Notevole, il 7 settembre 1862, lo scontro alla masseria Canestrelle, nel Nolano,
di bersaglieri e cavalleggeri che attaccarono un gruppo di duecento patrioti,
che furono costretti a disperdersi, perdendo tuttavia 15 uomini. Dopo qualche
giorno, il giorno 11 settembre, i patrioti di Crocco e di Sacchetiello si
vendicarono alla masseria Monterosso di Rocchetta S. Antonio (Foggia) attaccando
un drappello di venti bersaglieri del 30° battaglione che furono tutti uccisi.
A Carbonara i patrioti di Sacchetiello massacrarono 25 bersaglieri del 20°
battaglione, comandati dal sottotenente Pizzi. Aliano e Serravalle furono
liberate dai patrioti che minacciarono di invadere anche Matera.
In Pantelleria, nel frattempo, i piemontesi, che avevano instaurato in tutta
l’isola una feroce legge marziale, riuscirono a convincere quasi quattrocento
isolani a collaborare con le truppe savoiarde. Formate tre colonne, il colonnello
Eberhard, governatore militare dell’isola, fece avanzare il 18 settembre le
truppe a raggiera per setacciare tutta l’isola. I patrioti erano nascosti
in una profonda caverna posta quasi sulla sommità della Montagna Grande a
848 metri si altezza, in una posizione imprendibile, ma traditi da un pecoraio
furono circondati e dopo una sparatoria, in cui morirono alcuni piemontesi,
furono costretti ad arrendersi a causa del fumo di zolfo acceso davanti alla
caverna che aveva reso l’aria irrespirabile. I patrioti ammanettati, laceri
e smunti, furono fatti sfilare nelle strade di Pantelleria al suono di un
tamburo e col tricolore spiegato, tra ali di gente commossa fino alle lagrime.
Tutte le spese dell’operazione, lire 637, furono a carico del comune. Furono
incarcerati a Trapani, ma alcuni, tra cui due fratelli Ribera, riuscirono
a evadere dalle carceri della Colombaia. Dei rimanenti 14, processati il 14
giugno 1867, 10 furono condannati a morte per impiccagione e gli altri ai
lavori forzati.
A Roma, in quei giorni, Francesco II si trasferì con tutta la sua corte nel
Palazzo Farnese, che era di proprietà dei Borbone, dopo averlo fatto ristrutturare,
poiché erano secoli che non era stato abitato.
Il 1° ottobre a Palermo furono accoltellati simultaneamente, in luoghi diversi,
tredici persone. Uno degli accoltellatori, inseguito e arrestato, confessò
che gli era stato ordinato da un “guardapiazza” (quello che oggi viene chiamato
mafioso) di colpire alla cieca e che erano stati pagati con danaro proveniente
dal principe Raimondo Trigona di Sant’Elia, senatore del regno, delegato da
Vittorio Emanuele II. Da successivi controlli fatti dal piemontese sostituto
procuratore del re Guido Giacosa, evidentemente all’oscuro delle criminali
intenzioni del governo piemontese, venne accertato che i moltissimi omicidi,
avvenuti anche prima e molti altri dopo, avevano il solo scopo di “sconvolgere
l’ordine” per poter permettere e giustificare la feroce repressione così da
eliminare impunemente la resistenza siciliana antipiemontese. L’indagine,
che portò a riconoscere la responsabilità di quei sanguinosi crimini al reggente
della questura palermitana, il bergamasco (ma messinese di nascita) Giovanni
Bolis, antico affiliato carbonaro con La Farina, fu, comunque, subito chiusa.
In quel mese di ottobre 1862 vi furono moltissime, alcune violente, manifestazioni
di quasi tutte le popolazioni delle Puglie e della Basilicata. I contadini
si rifiutarono di eseguire i lavori nei campi per protestare contro gli abusi
e le violenze dei soldati piemontesi. Alcuni contadini furono fucilati "per
dare l'esempio" dalle truppe piemontesi.
Un gruppo di patrioti di Romano, comandato da Valente, riunitisi nella masseria
S. Teresa, decisero di attaccare la guardia nazionale e i carabinieri di Cellino
e S. Pietro Vernotico, che li braccavano. Tre militari furono uccisi “perché
portavano il pizzo all’italiana” e nove, furono sfregiati con l’asportazione
di un lembo dell’orecchio, per essere così “pecore segnate”. I gruppi
di Tardio invasero i paesi di S. Marco La Bruna, Sacco e S. Rufo, dove sgominarono
le guardie nazionali e ne saccheggiarono le case.
Il 24 ottobre Tristany si scontrò sul confine pontificio con le truppe francesi
e subì la perdita di due ufficiali.
Nel mese di ottobre, essendosi fatta insostenibile la sistemazione dei prigionieri
di guerra e dei detenuti politici, con la deportazione degli abitanti d'interi
paesi, con le "galere" piene fino all'inverosimile, il governo piemontese
diede incarico al suo ambasciatore a Lisbona di sondare la disponibilità del
governo portoghese a cedere un'isola disabitata dell'Oceano Atlantico, al
fine di relegarvi l'ingombrante massa di decine di migliaia di persone da
eliminare definitivamente. Il tentativo diplomatico, tuttavia, non ebbe successo,
ma la notizia riportata il 31 ottobre dalla stampa francese suscitò una gran
ripugnanza nell'opinione pubblica.
VEDI PIU' AVANTI IL CAPITOLO
L'ISOLA PER DEPORTATI
Il maggiore piemontese Aichelburg con fanti e bersaglieri attaccò il 2 novembre
a Tremoleto i patrioti di Petrazzi, uccidendo 9 guerriglieri. Tutto il Sud
fu diviso in zone e sottozone con posti fissi di polizia e fu raddoppiato
il numero dei carabinieri. I guerriglieri di Romano subirono una pesante sconfitta
il 4 novembre presso la masseria Monaci. Per quest'avvenimento Romano divise
le sue bande in piccoli gruppi più manovrabili, seguendo la tattica di Crocco.
A S. Croce di Magliano duecento patrioti di Michele Caruso attaccarono il
5 novembre la 13ª compagnia del 36° fanteria, massacrando il comandante ex
garibaldino dei “mille”, capitano Rota, e ventitré piemontesi. Il giorno dopo,
inseguiti da un battaglione del 55° fanteria, gli stessi patrioti tesero loro
un agguato e uccisero un sergente e tre soldati, senza subire perdite. A Torre
di Montebello una compagnia di bersaglieri del 26° e cavalleggeri del “Lucca”
in un furibondo combattimento distrusse l’8 novembre l’intera banda di Pizzolungo.
Quelli che furono fatti prigionieri furono immediatamente fucilati.
Il 16 novembre, nonostante l’opposizione di La Marmora, fu revocato da Rattazzi
lo stato d’assedio nelle provincie meridionali, ma in realtà rimasero ancora
in vigore la soppressione ed il divieto di introdurre nel Mezzogiorno di tutta
la stampa non governativa e la sospensione delle libertà d'associazione e
di riunione. Addirittura furono intensificati gli arresti di semplici cittadini
solo per il fatto di essere “sospetti” patrioti borbonici. In Capitanata,
per ordine del generale Mazé de la Roche e del prefetto De Ferrari, furono
compilate liste d'assenti dal proprio domicilio e dei sospetti, furono istituiti
fogli di via senza dei quali nessuno poteva uscire dagli abitati, imposero
l’abbandono delle masserie e il divieto di portare generi alimentari nelle
campagne. Così nell’avellinese furono perquisite e saccheggiate le case degli
assenti, ai contadini fu ordinato di trasferirsi nei paesi con le masserizie,
il bestiame ed il raccolto. Divenne sistematico l’arresto dei parenti fino
al terzo grado dei patrioti. Le popolazioni, che già vivevano nel terrore
e nei soprusi dei piemontesi, vissero in quei lunghi mesi in modo veramente
tragico, anche perché ogni attività lavorativa fu in pratica soppressa e la
vita economica e sociale ne fu paralizzata.
Il 17 novembre, per reazione, vi furono in vari paesi molti attentati a esponenti
liberali da parte dei patrioti. A Grottaglie i patrioti di “Pizzichicchio”
s'impadronirono addirittura della cittadina, dove liberarono i detenuti dalle
carceri e eliminarono tutti i possidenti liberali, che erano stati particolarmente
oppressivi con i loro braccianti, devastandone e saccheggiandone le abitazioni.
Furono abbattuti gli stemmi sabaudi e ripristinati le insegne borboniche tra
le grida di esultanza di tutta la popolazione e financo del sindaco, che giorni
dopo fu arrestato dai piemontesi.
Il generale Franzini fece uccidere il 20 novembre alla masseria Lamia nove
patrioti delle bande di Petrozzi e Schiavone, catturati di sorpresa. L’indomani
a Rapolla, nei pressi di Ponte Aguzzo, uno squadrone cavalleggeri “Saluzzo”
attaccò un centinaio di patrioti di Crocco che perdette nove uomini. Altri
venti, tra feriti e catturati, furono subito fucilati. I patrioti di Romano,
in quel giorno, invasero le cittadine di Carovigno ed Erchie, disperdendone
la guardia nazionale e saccheggiando le abitazioni dei liberali conniventi
dei piemontesi.
Il giorno 27 furono sorpresi a Casacalenda in una chiesa due patrioti che,
dopo essere stati incarcerati a Larino, furono fucilati “per tentata fuga”
due giorni dopo.
Alla fine di novembre, morto il generale borbonico Statella, che da Roma ne
coordinava le azioni, nonostante gli appoggi forniti dal generale Bosco, il
gruppo di combattimento del colonnello Tristany si dissolse. Gli ufficiali
stranieri se ne tornarono ai loro paesi e i gregari si riversarono in altri
gruppi patrioti.
Il primo dicembre un reparto del 10° fanteria, per effetto di una delazione,
riuscì a sorprendere alla masseria Monaci, nei pressi d'Alberobello, alcuni
gruppi patrioti di Romano, di cui fucilarono 14 uomini, compreso il capo partigiano
La Veneziana.
Il giorno 11 dicembre i patrioti a cavallo di Michele Caruso assaltarono vittoriosamente
a Torremaggiore la 13ª compagnia del 55° fanteria, che tornava da Castelnuovo
Daunia, dove aveva compiuto operazioni di leva.
A Ururi i piemontesi con uno stratagemma arrestarono il sindaco, tutti i consiglieri
ed il prete come “sospetti” e li fecero incarcerare a Larino. A S. Croce di
Magliano, su segnalazione del sindaco massone De Matteis, furono inviate truppe
piemontesi a circondare le masserie Verticchio, De Matteis e Mirano, dove
sono sorpresi e fucilati quattro patrioti. Nella stessa zona il comandante
della guardia nazionale di S. Martino, il massone conte Bevilacqua, con cento
uomini e una compagnia di fanti piemontesi riuscirono a catturare in un bosco
circa 47 patrioti, che furono tutti fucilati a Larino.
Il 14 dicembre, a Napoli, nel carcere di S. Maria Apparente vi furono violenti
tumulti per le condizioni inumane in cui erano tenuti i prigionieri. Vivevano
in fetore insopportabile. Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti,
vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte,
senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perché aveva
profferito ingiurie contro i Savoia. Spesso le persone imprigionate non sapevano
nemmeno di cosa fossero accusati ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso
la ragione per cui erano imprigionati era solo per rubare loro il danaro che
possedevano. Molti non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni
venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica.
Questo era il
governo dei Savoia, “vera negazione di Dio”.
A Torino, per acquietare l’opinione pubblica, fu nominata il 15 dicembre una
Commissione d’inchiesta sul “brigantaggio”, dopo che vi erano state numerose
denunce contro le barbarie commesse dalle truppe piemontesi contro patrioti
che difendevano la libertà delle loro terre. Un deputato, Giuseppe Ferrari,
federalista convinto, aveva detto “...potete chiamarli
briganti, ma i padri di questi briganti hanno per due volte rimesso i Borbone
sul trono di Napoli... Ma in che consiste il brigantaggio ? nel fatto che
1.500 uomini tengono testa a un regno e ad un esercito. Ma sono semidei, dunque,
sono eroi ! ...Io mi ricordo che vi dissi che avendo visitato le province
meridionali avevo veduto una città di cinquemila abitanti distrutta, e da
chi ? dai briganti ? NO!” La città era Pontelandolfo.
Il 17 dicembre i bersaglieri del 29° battaglione riuscirono a sgominare i
patrioti dell’avvocato Giacomo Giorgi presso Palata, nel Molise, dove uccisero
5 patrioti, catturando anche una partigiana.
La banda di Carbone fu accerchiata il 20 dicembre da fanteria, cavalleria
e guardie nazionali nella masseria Boreano, nei pressi di Melfi. Furono tutti
uccisi appena catturati.
Il 21 dicembre cavalleggeri piemontesi sorpresero nella cascina Barcana, nei
pressi di Venosa, una ventina di patrioti che fecero morire atrocemente tra
le fiamme.
Il 23 dicembre, migliaia di cittadini di Napoli, inviarono una petizione al
Re Francesco II con la quale, nell’indicare le barbarie degli invasori piemontesi,
riaffermavano la fedeltà alla monarchia dei Borbone e la speranza di un prossimo
ritorno sul trono delle Due Sicilie.
Il giorno 29 lo squadrone cavalleggeri “Saluzzo”, stanziati a Gioia del Colle,
salvarono un drappello di guardie nazionali di Acquaviva che erano stati circondati
dai patrioti. In Capitanata, reparti dell’8°, del 36° e del 49° fanteria,
comandati dal colonnello Favero, attaccati il 31 dicembre 1862 da un consistente
numero di patrioti vennero sterminati con perdite superiori ai 150 morti.
L’anno 1862 si chiuse ....
...con una relazione alla Camera di Torino sulla situazione nell’ex Regno
delle Due Sicilie con i dati ufficiali di 15.665 fucilati, 1.740 imprigionati,
960 uccisi in combattimento. Gli scontri a fuoco di una certa consistenza
nell’anno furono 574. I meridionali emigrati all’estero furono circa 6.800
persone. Le forze piemontesi di occupazione risultarono costituite da 18 reggimenti
di fanteria, 51 “quarti” battaglioni di altri reggimenti, 22 battaglioni bersaglieri,
8 reggimenti di cavalleria, 4 reggimenti di artiglieria. Nei territori delle
Due Sicilie si contavano circa 400 bande di patrioti legittimisti, comandate
per la maggior parte da ex militari borbonici.
Il Piemonte, che era lo Stato più indebitato d’Europa, si salvò dalla bancarotta
disponendo alla fine dell'anno l’unificazione del “suo” debito pubblico con
gli abitanti dei territori conquistati. Furono venduti, con prezzi irrisori,
ai traditori liberali tutti i beni privati dei Borbone e gli stabilimenti
pubblici civili e militari delle Due Sicilie. Tutte le spese
per la “liberazione” e dei lavori pubblici (affidati alle speculazioni
delle imprese lombardo-piemontesi) furono addebitate
proprio alle regioni “liberate” (!!).
Anche l’arretrato sistema tributario piemontese fu applicato nel Napoletano
ed in Sicilia, che fino allora avevano avuto un sistema fiscale mite, razionale,
semplice e soprattutto efficace nell’imposizione e nella riscossione, indubbiamente
tra i migliori in Europa. Al Sud fu applicato un aumento di oltre il 32 per
cento delle imposte, mentre gli fu attribuito meno del 24 per cento della
ricchezza “italiana”.
Del resto era
l’avverarsi di ciò che pochi secoli prima aveva detto
Emanuele Filiberto di Savoia
(“L’Italia? E' un carciofo di cui i Savoia mangeranno una foglia alla volta”
);
Lo stato
sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di
carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro e d'argento
insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle "polizze notate"
alle quali però corrispondeva l'esatto controvalore in oro versato
nelle casse del Banco delle Due Sicilie.
Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della "convertibilità"
della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non
corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l'istituto bancario
emittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti
dello stato.
In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana
era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica
doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantità d'oro o d'argento
in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale).
A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco
delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare
dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta così
come previsto dall'ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi
avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero
potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (benché ai
due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno).
Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre passò nelle casse piemontesi.
Massimo
d'Azeglio, in una lettera al senatore Matteucci scriveva tra l'altro: "A
Napoli noi abbiamo cacciato il sovrano per ristabilire un governo fondato
sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra ciò non basti, sessanta
battaglioni...Abbiamo il suffragio universale? Io nulla so di suffragio;
ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di
là sono necessari. Ci dev'essere per forza qualche errore.... Bisogna cangiare
atti o principi..." (ed era filo-piemontese!)
Antonio
Pagano
_______________________________
RICEVIAMO
E PUBBLICHIAMO
Buongiorno
Ho letto gli articoli del sig. Antonio Pagano sull'occupazione piemontese del
meridione negli anni 1860.
Non avendo motivo di dubitare sulla veridicità dei dati riportati (e
tantomeno sulla buona fede del sig. Franco del cui sito sono e resterò
frequentatore), vorrei porgere delle domande, rivolte all'autore di tali articoli:
1) è vero che
la legge sabauda (Casati, '59) non risolse l'analfabetismo, che in piemonte
viaggiava intorno al 50%, ma perchè nel brillante stato borbonico si
toccò il 90%?
2) può dirsi efficiente
un sistema economico basato sul protezionismo? Chiedere ai governi della Sinistra
Storica e al fascismo
3) perchè il buon
siciliano Orlando, uno dei 30000 rifugiati politici che il piemonte ospitava,
i suoi cantieri non potè aprirli a casa sua?? E perchè la tremenda
dittatura piemontese permise a ben 2300 di entrare tra le file dell'amministrazione
entro il '57?
3) è vero che il buon
Ferdinando fu il primo a emanare una Costituzione nel '48 a cui si ispirò
sicuramente Carlo Alberto, ma perchè lo fece solo quando una rivoluzione
rischiava di portargli via la cadrega, mentre Calro Alberto fece esperienza
dei moti del '21 e una volta libero dal conservatore Carlo Felice, potè
crescere in senso liberare? e soprattutto perchè nel '49 la costituzione
borbonica era già carta straccia?
4) come complici dei piemontesi
cita spesso i lombardi (usciti da poco da una tremenda dittatura) come rapaci
imprenditori. Vorrei sapere dov'era la brillante e competitiva classe borghese-industriale
nata da un secolo di buon governo borbonico.
5) è vero che il piemonte
era lo stato più indebitato d'europa (avendo affrontato in 50 anni la
crisi della restaurazione e i moti rivoluzionari, due guerre d'indipendenza
e la guerra di Crimea) e che la leva obbligatoria e l'alta pressione fiscale
erano impopolari, ma perchè i lombardi e i toscani, seppur con mille
smorfie, pararono il colpo mentre la solida economia meridionale ci lasciò
quasi le penne (vorrei ricordare che, moti esclusi, era dal 1745 che i borboni
non combattevano una guerra: il tempo per fare due conti l'hanno avuto)?
6) La legge elettorale censitaria
non la si può certo chiamare rappresentativa nè in Piemonte nè
altrove, ma mi dica un po' che percentuale di popolazione portava alle urne
al Nord e che percentuale portava nel ricco Sud...
La lista potrebbe continuare
ma sarebbe inutile.
Credo sia ovvio che lo stato piemontese fu cieco, superficiale ed egoista, ma
è altrettanto ovvio che lo stato Borbonico più che un solido edificio
travolto da un uragano, non era altro che una capanna di frasche secche su cui
si appoggiò uno scatolone di piastrelle!
Concludendo, da piemontese anti-risorgimentale, invito chiunque a diffondere
questo sano "revisionismo", senza tuttavia scadere in ridicole e infondate
nostalgie borboniche.
Confido in una risposta ed eventuali dati che smentiscano le mie tesi sono molto
ben accetti
(la storia è una delle poche cose che devono essere certe e assolute,
aldilà di ogni battibecco personale!)
Luca da Torino
(Piemonte)
____________________________________________
Può rispondere
alle domande del sig. Luca il sig. Antonio Pagano
oppure chi la pensa come lui.
Franco
-------------------
riceviamo da ANTONIO PAGANO
Carissimo Franco,
Un lettore mi ha segnalato che un tale Luca, piemontese, voleva delle risposte
ad alcune sue domande. Poiché non non ne ero a conoscenza prima rispondo
ora.
Già altre volte ho avuto modo di dialogare sulle stesse cose con altri
piemontesi e ho visto che è del tutto defatigante spiegare alcune cose
perché alla fine non si arriva ad alcun charimento. Loro restano sulle
loro opinioni e chiedono sempre le stesse cose. Allora questa volta voglio
rispondere con un raccontino.
Un tale, mentre se ne sta buono nella sua casa, viene aggredito da alcuni,
rubato di quanto possiede e bastonato perché si è permesso di
difendersi. Gli aggressori poi, installatosi nella sua casa, lo rimproverano
per giunta perché se ne sta buttato a terra tutto sporco.
E' la stessa cosa che hanno fatto i piemontesi.
Le domande che loro fanno su chi era più bravo e buono non significano
nulla e, in fondo, a loro non interessano granché. Servono solo a deviare
il discorso dall'aggressione che il Sud ha dovuto subire.
Se quel Luca vuol sapere chi era il più bello e il più bravo
se lo vada a cercare negli Archivi di Stato, negli Archivi portuali (Genova
e Napoli), negli Archivi delle Banche, delle Camere di Commercio, nelle relazioni
fatte dagli Ambasciatori di Francia, di Svizzera, dell'Inghilterra, ecc. dove
troverà la verità, se è questa che vuole sapere e che
è quanto ho fatto io personalmente.
Con ogni considerazione e cordiali saluti,
Antonio Pagano
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TI AGGIUNGO
ANCHE QUEST'ALTRO MIO INTERVENTO
Uno dei progetti criminali
del risorgimento piemontese contro i Duosiciliani
LA DEPORTAZIONE
(dal numero 1, anno 2003,
della rivista Due Sicilie. Direttore Antonio Pagano)
"Se
ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un'implacabile frequenza,
se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l'opinione e i costumi in Italia
vi ripugnerebbero, i giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere
in ogni caso le circostanze attenuanti.
Bisogna
dunque pensare ad aggiungere alla pena di morte un'altra pena, quella della
deportazione, tantopiù che presso le impressionabili popolazioni del
Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce
più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti
dall'idea di andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno
col più grande stoicismo incontro al patibolo".
Le parole di cui sopra
sono del Ministro degli Esteri del Regno d’Italia, il milanese Emilio
Visconti Venosta, indirizzate al Ministro a Londra, il piemontese Carlo Cadorna,
in data 19 dicembre 1872 da Roma neonata capitale (Documenti
Diplomatici Italiani [d’ora in poi, con la sigla D.D.I.], 2a Serie,
Vol. IV, n. 235).
Esse danno un’idea
abbastanza luminosa del clima di terrore ancora imperante nelle Due Sicilie:
nonostante fossero trascorsi ben dodici anni dal cataclisma del 1860, le prigioni
erano zeppe di prigionieri politici, 11.635 nella sola città di Napoli,
mentre gli ultimi fuochi di resistenza andavano spegnendosi.
UN MANUTENGOLO MORALE
Il Visconti Venosta,
come gli altri personaggi che incontreremo nel corso del presente studio,
la cui ossatura sarà costituita principalmente da estesi documenti
diplomatici monotematici, era un esponente di spicco della Destra storica
"italiana", di quella Destra della quale il Croce ebbe a tessere,
forse in un momento di depressione intellettuale, nel 1927, il seguente elogio:
«…di rado un popolo ebbe a capo della
cosa pubblica un'eletta di uomini come quelli della vecchia Destra italiana,
da considerare a buon diritto esemplare per la purezza del loro amore di patria
che era amore della virtù, per la serietà e dignità del
loro abito di vita, per l'interezza del loro disinteresse, per il vigore dell'animo
e della mente, per la disciplina religiosa che s’erano data sin da giovani
e serbarono costante: il Ricasoli, il Lamarmora, il Lanza, il Sella, il Minghetti,
lo Spaventa e gli altri di loro minori ma da loro non discordi, componenti
un'aristocrazia spirituale, galantuomini e gentiluomini di piena lealtà.
Gli atti loro, le parole che ci hanno lasciate scritte, sono fonti perenni
di educazione morale e civile, e ci ammoniscono e ci confortano e ci fanno
a volte arrossire; sicché deve dirsi che, se cadde dalle loro mani
il fuggevole potere del governo, hanno pur conservato il duraturo potere di
governarci interiormente, che è di ogni vita bene spesa ed entrata
nel pantheon delle grandezze nazionali» (Benedetto
Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Adelphi, 1991, pag. 16),
cioè il panegirico di spietati fucilatori come, nel Reame, non se ne
erano visti prima se non in epoca giacobina francese.
AFFANNOSA RICERCA DI
UN ANGOLO DI TERRA
La lettera del Venosta
aggiunge particolari a particolari:
«…Ora,
in quest’ordine di idee, e intorno ai nostri progetti di colonia penitenziaria,
io La prego di avere sollecitamente una nuova conversazione con Lord Granville
[Ministro degli Esteri di Sua Maestà Britannica, ndr]. Ella fu incaricata,
or sono molti mesi, di chiedere al Governo inglese se per parte sua non vi
fossero state obbiezioni alla cessione all'Italia, per parte di un capo indipendente,
d'un territorio posto sulla costa Nord Est di Borneo. Questo capo indipendente
aveva degli impegni col governo dell’India; noi non volevamo quindi
procedere nelle pratiche senza prima prevenire il Governo inglese ed avere
la sua morale adesione. Finora non abbiamo ottenuto una risposta. Lord Granville
avrà dovuto certamente consultare i dipartimenti competenti ed anche
il Governo dell’India. Lo spazio di tempo trascorso però è
tale che abbiamo dovuto supporre che questo scambio di comunicazioni abbia
già avuto luogo, e che il loro risultato essendo sfavorevole, si abbia
preferito il silenzio ad una risposta negativa…In questo stato di cose,
io La prego di avere, colla maggiore sollecitudine possibile, una aperta e
leale spiegazione con Lord Granville e anche parmi opportuno che Ella interessi
in questo argomento il Signor Gladstone, il quale ha tante volte portato con
predilezione il suo pensiero sulle condizioni politiche e sociali dell'Italia
e ci ha, da tanti anni, abituati a contare sulla sua simpatia. Lo scopo che
perseguiamo non può che essere approvato, il sentimento che ci muove
è quello di un Governo che vuole adempiere ai suoi doveri.
I nostri rapporti coll'Inghilterra e la convinzione della solidarietà
di interessi che esiste fra i due Paesi ci consigliano di non agire se non
d'accordo con essa e colla sua morale adesione in quelle contrade dove la
politica inglese ha tanti e tanto potenti interessi. D'altronde non si può
supporre che noi abbiamo l’interesse di fare amministrativamente una
razzia di malviventi e di gettarli a caso su una spiaggia remota. Ella sa
che si tratta per noi di introdurre la deportazione nella scala penale dei
nostri codici e di regolare, col concorso del Parlamento, il piano di uno
stabilimento penitenziario di deportazione, ma regolare e dietro tutti i suggerimenti
della esperienza e della scienza.
Ma prima di tutto questo, bisogna che il Governo possa offrire la possibilità
di trovare un luogo non troppo lontano dalle grandi linee della navigazione,
in condizioni di clima compatibili coll’umanità e colle altre
condizioni richieste.
L'Inghilterra
ci potrebbe rendere senza alcun suo sacrificio, un vero servizio, dandoci
prova di buona volontà e prestandoci un certo concorso morale nel raggiungere
il nostro scopo.
La
prego dunque innanzi tutto di chiedere una risposta relativamente al territorio
nord-est di Borneo, risposta che, a quest'ora, non può a meno d'essere
pronta.
In
seguito La prego di accertarsi se noi possiamo contare su qualche buona disposizione
da parte del Governo inglese. è abbastanza nella natura degli ufficj
e delle autorità coloniali d'essere diffidenti alquanto ed esclusive.
Se quest'affare, dunque in ogni circostanza, sèguita le vie burocratiche,
si potrà attendersi sempre a difficoltà e ad ostacoli. Le ragioni,
per esempio, che consigliarono il rifiuto per l'isola di Socotra la quale
non pare che appartenga ora all'Inghilterra, non furono indicate nella lettera
particolare di Lord Granville, e forse se fossero state esaminate non sarebbero
parse sufficienti per motivare un definitivo rifiuto.
La prego, anche a nome del Presidente del Consiglio, di occuparsi colla maggiore
sollecitudine, e col maggiore interesse, di questo affare. è da molti
anni ormai che cerchiamo un angolo di terra, ma col desiderio e coll'intento
di non metterci attraverso delle vedute e degli interessi inglesi, anzi col
desiderio che lo scopo ci fosse agevolato dai consigli e dall'accordo morale
del Governo britannico. Oramai ci preme di uscire dai dubbii a questo riguardo
e di accertarci delle disposizioni reali che possiamo trovare».
ROMAGNOLI TRA I BRIGANTI
La stessa lettera ci
informa che il Visconti Venosta, alcuni giorni prima, aveva avuto un incontro
col Ministro d'Inghilterra Sir Bartle Frere, "una delle persone più
competenti nelle questioni della politica inglese nelle colonie indiane",
che si recava a Brindisi all’imbarco per Zanzibar in missione antischiavitù.
Con lui toccò l’argomento dei progetti del governo "italiano"
per la costituzione di una colonia penitenziaria, cioè un campo di
concentramento lontano dagli occhi di tutti in un territorio remoto della
Terra, in particolare nel Borneo.
Apprendiamo, con una
certa meraviglia, che anche la Romagna dava grattacapi politici di non poco
conto, se questi venivano equiparati a quelli che procurava l'ex Regno delle
Due Sicilie:
«Spiegai a
Sir B. Frere qual’era la nostra situazione. Noi non abbiamo alcuna volontà
né alcuna ragione di metterci ora a fare della politica coloniale.
Anche uno stabilimento di deportazione non sarà forse per l’Italia
un'istituzione permanente. Ma abbiamo in alcune parti d’Italia alcune
piaghe sociali triste retaggio del passato. Queste piaghe vogliamo guarirle
a qualunque costo - è per noi una questione di dovere e di onore nazionale.
Noi non vogliamo transigere con questi disordini e rassegnarci a fare menage
con essi. Abbiamo passato questi anni a fare grandi sforzi per metterci in
misura di far fronte ai nostri impegni finanziari; un sentimento analogo di
dovere ci impone di porre un termine alle condizioni anormali della Romagna,
del Napoletano, della Sicilia, di ristabilire colà una sicurezza pari
a quella delle altre parti di Italia e degli altri paesi civili d'Europa.
Questo dovere, i giornali inglesi ce lo fanno spesso sentire in un modo certo
più sincero che obbligante».
ATTERRITE QUESTE POPOLAZIONI
Le sottigliezze diplomatiche
del Venosta, le sue false argomentazioni, la sua finta innocenza, che servono
a coprire il suo ruolo odioso di invasore, che con tutto il suo governo aveva
inviluppato il Sud in un immenso grumo di sofferenza e di sangue, non devono
trarre in inganno.
Appena due anni prima
un alto ufficiale operante in Calabria in funzione antibrigantaggio dava ordini
lapidari: "Atterrite queste popolazioni",
terrore in nulla diverso da quello imposto, già negli anni 1808/1810
sempre in Calabria dall’accoppiata di criminali di guerra Charles Antoine
Manhès e Pietro Colletta, quest’ultimo lo storico esaltato nei
libri di scuola, colà inviati dall'ambizioso e folle "re"
Gioacchino Murat per reprimere le insorgenze antinapoleoniche. Importante
in proposito il carteggio tra il colonnello Milon, ex ufficiale dell'esercito
duosiciliano passato nelle file del governo di occupazione, e il generale
Sacchi di Pavia, carteggio raccolto con gran diligenza dal professor Eugenio
De Simone (Atterrite queste
popolazioni, Editoriale Progetto 2000, Cosenza, 1994).
Il piano di deportazione
del Venosta coincideva quasi alla lettera con quello che il generale Sacchi
di Pavia esplicitava al colonnello Milon in data Agosto 1868 da Catanzaro
(pag. 93 del carteggio), segno di perfetta intesa tra militari e governo :
«Esposi al
Ministero con dettagliata relazione l’opportunità e l'urgenza
di adottare provvedimenti pei numerosi arrestati per ragione di brigantaggio;
prevedendo difficile l'ottenere misure eccezionali che vogliono essere autorizzate
dal Parlamento insistetti nel reclamare un provvedimento di traslocazione
ad altre carceri di un buon numero di detenuti; si verrà così
a conseguire il risultato per noi importante di allontanarli dai loro luoghi
natii e così impressionare le popolazioni».
1862: QUI COMINCIA L'AVVENTURA…
Circa "l'angolo
di terra" in cui relegare la parte del popolo duosiciliano riottosa al
nuovo ordine e sopravvissuta alle fucilazioni, i documenti da noi raccolti
spaziano dal 1862 al 1873. Il più antico è un telegramma, il
n. 640, in francese!, del 17 novembre 1862, inviato dal Ministro piemontese
a Lisbona, Della Minerva, al Ministro degli Esteri, Durando:
«La
pubblicazione d’un dispaccio telegrafico da Parigi in data 6 dove a
seguito lettera da Torino si parla di negoziazioni tra l’Italia e il
Portogallo per cessione isola nell'Oceano, col fine di relegarvi briganti,
ha talmente commosso opinione pubblica e la stampa che il ministero ha già
fatto smentire tale notizia. Penso che per il momento sarebbe meglio sospendere
ogni tentativo se si vuol farne più tardi con successo» (La publication
d'une dépêche télégraphique de Paris du 6 où
d'après lettre de Turin on parle de négociations entre l'Italie
et le Portugal pour cession île dans l'Océan, afin d'y réléguer
coquins, a tellement ému opinion publique et la presse que le ministère
a déja fait démentir cette nouvelle. Je pense que pour le moment
il serait mieux suspendre toute démarche si l'on veut en faire plus
tard avec succès)».
(D.D.I., 1a Serie, Vol. III,
1862).
Guido Po, uno storico
di cose marinare, aggiunge, senza citarne la fonte, che il Ministero degli
Esteri aveva fatto richiesta al Portogallo anche per una località nel
Mozambico o nell’Angola (Il giovane Regno d'Italia alla ricerca di una
colonia oceanica, in Nuova Antologia, fasc. n. 1339, anno 1928, pp. 516/528,
affermazione riconfermata dallo stesso nella Rivista di Cultura Marinara,
gennaio-febbraio 1942, pp. 3/13), ma di tale affermazione non s’è
da noi trovato riscontro nei documenti diplomatici.
Quali considerazioni
avevano spinto il governo italiano a rivolgersi, nella ricerca di un angolo
di terra straniera a fini di deportazione, in primo luogo al Portogallo? La
risposta va individuata nel legame parentale instauratosi nel mese di luglio
di quell’anno 1862 in seguito all'avvenuto matrimonio tra la figlia
del Savoia II, Maria Pia, e Luigi I di Braganza, Re di quel Regno da appena
un anno. Il sire savoiardo e il suo entourage governativo volevano evidentemente
trarre profitto da quella alleanza dinastica per trasformarla in un’alleanza
di malaffare dai contorni abietti, malaffare che suscitò però
ripugnanza e indignazione nel popolo portoghese. L’accorto sovrano non
volle rendere il suo popolo e se stesso complici di un crimine che la storia
avrebbe giudicato severamente.
UNO SCIENZIATO PAZZO
AL GOVERNO
Il progetto di una colonia
di deportazione di Duosiciliani fu ripreso nel 1867 dall'allora Presidente
del Consiglio e Ministro degli Esteri, Luigi Federico Menabrea, savoiardo
di Chambery. Questi in data 30 novembre rivolgeva al Ministro a Londra, Emanuele
D'Azeglio, la seguente nota il cui contenuto doveva rimanere segreto:
«Vengo
a farvi carico di una comunicazione particolarmente delicata e segreta. Da
molto tempo il Governo cerca un luogo di deportazione per i condannati. Informazioni
recenti ci indicano come molto adatta a tale scopo una regione situata sulla
costa del Mar Rosso presso il paese dei Galla [Eritrea, ndr] in contiguità
dell’Abissinia e che attualmente, per la verità, non appartiene
ad alcun sovrano. Noi vorremmo occuparla; ma prima di intraprendere alcunché,
sarebbe essenziale essere certi che da parte dell'Inghilterra non ci sarebbe
opposizione. Vi prego dunque di sondare l’opinione di Lord Stanley [Ministro
degli Esteri britannico, ndr] su questo argomento. Fate valere questa ragione:
che il paese in questione da noi non viene occupato, lo sarà probabilmente
da parte della Francia che certamente si affretterebbe a piantarvi la sua
bandiera dopo l'apertura dell’istmo di Suez e potrebbe così creare
difficoltà all’Inghilterra. Del resto questo desiderio, da parte
nostra, non è affatto il risultato di una politica di conquista che
non è nelle nostre mire, ma un bisogno di sicurezza interna di cui
l’Italia non potrà gioire finché non ci sarà un
luogo remoto per trasportarvi i numerosi criminali che affollano le sue prigioni.
Noi contiamo sulla buona volontà che, a tutt’oggi, l'Inghilterra
ha dimostrato verso l'Italia perché essa, l'Inghilterra, non sia un
ostacolo ai nostri progetti» (D.D.I.,
1a Serie, Vol. IX, n. 631) (Je vais vous charger d'une communication
particulièrement délicate et secrète. Depuis longtemps
le Gouvernement cherche un lieu de déportation pour les condamnés.
Des renseignements récents indiquent comme très adaptée
à ce but une région située sur le bord de la Mer Rouge
près du pays des Gallas en contiguité de l'Abyssinie et qui,
actuellement n'appartient réellement à aucun souverain. Nous
voudrions l'occuper: mais avant de rien entreprendre, il serait essentiel
d'être assuré que de la part de l'Angleterre il n'y aurait pas
d'opposition. Je vous prie donc de sonder l'opinion de lord Stanley à
ce sujet. Faites valoir cette raison que le pays en question n'est pas occupé
par nous, et il le sera probablement par la France, qui certainement s'empresserait
d'y planter son drapeau après l'ouverture de l'isthme de Suez et pourrait
ainsi créer des embarras à l'Angleterre. Du reste ce désir
de notre part n'est point le rèsultat d'une politique de conquête
qui n'est nullement dans nos vues, mais un besoin de sécurité
intérieure dont l'Italie ne pourra jouir tant qu'elle n'aura pas un
lieu éloigné pour y transporter les nombreux criminels qui encombrent
ses prisons. Nous comptons sur le bon vouloir que l'Angleterre a toujours
démonstré envers l'Italie pour qu'elle ne soit pas un obstacle
à nos projets).
LA PRUDENZA INGLESE
Il Ministro a Londra
D’Azeglio, contrariamente alla storica burocratica lentezza tutta italica,
rispose con inusitata rapidità, due giorni dopo, 2 dicembre 1867 ore
16,50, con telegramma n. 875 (D.D.I., 1a Serie, Vol. IX, n. 643):
«Circa la deportazione,
Stanley non ha detto né sì né no, e non è sembrato
affatto troppo contrario. S’è riservato di dare una risposta;
ma egli desidera che il progetto sia differito, in ogni caso, a dopo la guerra
dell'Abissinia, altrimenti questo farebbe nascere delle complicazioni sollevando
i nativi contro gli europei. Gli ho detto di ricordarsi della Francia»
(Stanley n’a dit ni oui ni non quant à la déportation
et il n'a point paru trop contraire. Il s'est réservé de donner
réponse; mais il désire que le projet en tout cas soit differé
après la guerre de l'Abyssinie, sinon cela ferait naître des
complications en soulevant les naturels contre les européens. Je lui
ai dit de se souvenir de la France).
LA PATAGONIA ARGENTINA
Il Menabrea, uno dei
carnefici di Gaeta, prototipo degli scienziati criminali - esperto di balistica,
aveva diretto, nel 1860, i cannoni contro la fortezza e soprattutto contro
l'ospedale - non demorde dal progetto, decide di battere strade al di fuori
dell'influenza o presenza inglese. Dall’Africa orientale all'America
meridionale, obiettivo la Patagonia, estremo limite meridionale dell'aspro
cono argentino, un territorio all'apparenza terra di nessuno.
Circa un anno dopo infatti,
in data 16 settembre 1868, sempre da Firenze, affida un dispaccio riservato
(D.D.I., 1a Serie, Vol. X, n. 523) al Ministro Della Croce in partenza per
Buenos Aires, documento stilato stavolta in italiano, ché dopo 4 anni
di soggiorno in Toscana aveva cominciato a masticare un po' di dantesco idioma:
«Fra
gli interessi gravissimi ai quali il Governo del Re deve porgere ogni sua
cura, tiene un luogo distinto quello che si riferisce all'efficacia dei sistemi
punitivi onde migliorare la condizione morale del nostro paese. La S.V. non
ignora certamente in quali tristi condizioni queste versano in alcune parti
d'Italia, ed Ella ben conosce come più volte già il Governo
del Re abbia dato opera a ricercare se, col mezzo di stabilimenti penali in
lontane contrade e colla deportazione dei rei, non raggiungerebbesi quel miglioramento
che, nelle condizioni presenti, è pressoché impossibile ottenere
col sistema in vigore della reclusione e dei bagni.
In
tempi addietro furono fatti studi per fondare uno stabilimento di simil natura
nelle regioni dell'America del Sud e più particolarmente in quelle
bagnate dal Rio Negro che i geografi indicano come limite fra i territori
dell'Argentina e le regioni deserte della Patagonia. Quel progetto benché
sia rimasto allo stadio di semplice studio preparatorio, potrebbe forse utilmente
essere coltivato quando difficoltà d'indole politica non venissero
ad attraversarlo. Epperò il Governo del Re vorrebbe che la S.V., assunte
quelle informazioni che Le sarà agevole procurarsi al suo giungere
in Buenos Aires, subito si adoperasse a scandagliare le disposizioni del Governo
della Repubblica Argentina per ciò che potrebbe riguardare l'effettuazione
da parte nostra del progetto sovra indicato. Le terre che da noi si potrebbero
occupare a quest’effetto sarebbero scelte tra quelle interamente disabitate
e sulle quali non si estende la sovranità effettiva di alcun Stato.
Limitata allo scopo poc’anzi accennato, l'occupazione territoriale non
avrebbe in vista lo stabilimento di una vasta colonia destinata ad acquistare
una importanza politica: quindi è che come assolutamente prive di fondamento
si dovrebbero ritenere le apprensioni che da quel nostro progetto potrebbero
sorgere nelle repubbliche meridionali dell'America. Noi facciamo assegnamento
particolare sulla sagacità della S.V. per tutto ciò che può
agevolare il compimento di un disegno che, ove potesse attuarsi, riuscirebbe
di molto vantaggioso al nostro paese.
Ella
vorrà pertanto, appena avrà raccolto le necessarie indicazioni,
riferire al R..Governo il risultamento delle di Lei investigazioni».
RIFIUTO DELL’ARGENTINA
Giunto in Argentina,
il Ministro Della Croce, espletate le indagini di rito, in data 10 dicembre
1868 risponde con un lettera riservata, il cui contenuto non lascia dubbi
in proposito: il progetto era destinato a naufragare perché il Ministro
degli Esteri di quel paese aveva lasciato "chiaramente intendere"
che il suo Governo vantava "diritti chiari e incontestabili"
sul territorio patagonico e pertanto non avrebbe mai acconsentito allo stabilimento
di una colonia straniera di deportazione su una terra che esso considerava
sua a tutti gli effetti anche se sussisteva contesa col governo del Cile che
a sua volta accampava diritti di sovranità territoriale:
«Appena
giunto a Buenos Aires mi sono immediatamente occupato della quistione che
formava l'oggetto del dispaccio riservato dell'E.V. … Non ebbi difficoltà
a conoscere che la Repubblica Argentina ha preteso in ogni tempo e pretende
tuttora ad un assoluto diritto di neutralità sulle terre tutte di Patagonia
al di là e al di qua dello stretto di Magellano. Ho pure saputo che
alla foce del Rio Negro indicata da V.E. la sovranità di fatto della
Repubblica è incontestabile esistendo colà al luogo appunto
ove sorgeva l'antica missione del Carmen, un forte occupato da soldati argentini.
Dopo questi ragguagli poca speranza mi rimaneva che ai disegni del governo
Italiano potessero essere favorevoli gli animi di questi Governanti tanto
suscettivi per ciò che si riferisce ai veri o pretesi loro diritti
di sovranità. Non di meno ne parlai jeri al Ministro degli Affari Esteri.
Questi mi confermò quanto ebbi l'onore di esporre più sopra
aggiungendomi che i diritti della Confederazione sulla Patagonia e sullo stretto
di Magellano erano chiari e incontestabili, che il Governo Argentino aveva
è vero una quistione pendente a questo riguardo colla Repubblica del
Chili la quale aveva da varii anni fondato una colonia nello stretto summentovato,
ma che egli non dubitava menomamente che sottoposto il litigio a qualsiasi
arbitro la Repubblica Argentina ne uscirebbe vincitrice; che quanto al possesso
o dominio di fatto la Repubblica intendeva di estenderlo ogni giorno maggiormente
per respingere sempre più le tribù indiane e mettere un termine
alle loro incursioni, che a tale oggetto in questi giorni stessi si dovevano
occupare nuovi punti verso il Sud. Sulla proposta poi del Governo Italiano
che io gli feci in via di semplice e privata conversazione egli riservossi
di conferirne col Presidente ma mi lasciò chiaramente intendere che
il Governo Argentino non vi avrebbe aderito».
TERRORE NELLE CALABRIE
Intanto negli stessi
mesi il colonnello di Stato Maggiore Bernardino Milon ex alto ufficiale delle
Due Sicilie divenuto camerata del generale Presidente Menabrea, in perfetta
consonanza di intenti col governo "italiano" composto, come visto,
da uomini "virtuosi" secondo le oblique vedute del Croce, spargeva
terrore nelle Calabrie e ne riferiva al suo superiore generale Sacchi nei
termini seguenti: "il mio arrivo qui ha prodotto
terrore, e difatti ieri a notte in Sorbo quasi tutti gli abitanti dormirono
in campagna per tema di essere da me arrestati" (Eugenio
De Simone, ibidem, pag. 111), arresti a cui seguiva inesorabilmente,
per tentata fuga, la fucilazione. Merita di essere qui riprodotto un manifesto
terroristico di codesto colonnello, traditore del suo popolo:
COMANDO DELLA ZONA MILITARE
DELLE CALABRIE CITRA ED ULTRA 2a
"L'attuale
stagione permettendo di attuare altre misure per la totale distruzione del
brigantaggio, questo Comando determina quanto appresso:
1°
- Tutte le mandrie, di qualunque specie esse siano, dovranno essere al più
presto concentrate;
2°
- Tale concentramento dovrà essere per contrade;
3°
- I posti armati delle varie mandrie, della medesima contrada, saranno tutti
riuniti in punto centrale, intorno al quale sarà solo permesso di tenere
i pagliai;
4°
- Nelle ore del giorno le mandrie potranno liberamente pascolare entro il
terreno della rispettiva contrada, ed è severamente proibito ai Mandriani,
foresi o qualsiasi persona, che le custodiscono, di asportare seco, nelle
ore del pascolo, pane od altri generi di vittitazione, dovendo tali generi
essere custoditi presso il posto armato centrale, ove è solo permesso
di consumarli. I posti armati saranno direttamente responsabili di ogni contravvenzione
a tali disposizioni.
I
Signori comandanti degli scompartimenti, Distaccamenti, RR. Carabinieri e
Guardie Nazionali sorveglieranno per lo esatto adempimento delle suaccennate
determinazioni, e questo comando punirà con inflessibile rigore tutti
coloro che non vi si conformeranno strettamente.
Rossano,
30 Dicembre 1868.
Il
Luogotenente Colonnello Comandante B. MILON.
Erano gli stessi metodi
terroristici che, esattamente sessanta anni prima, aveva inaugurato il Gauleiter
di Napoleone, "re" Gioacchino Murat, nelle varie regioni del Reame,
in particolare in Calabria, per mezzo del Manhès, per domare i tenaci
insorgenti antifrancesi, già allora bollati come briganti (P. Colletta,
Storia del Reame di Napoli, 7, XXVII) sì da far esclamare al Colletta,
che gli teneva degnamente la mano: "Non vorrei
essere stato il generale Manhès, e non vorrei che il generale Manhès
non fosse stato nel regno negli anni 9 e 10".
Sicché fu, allora,
sacrosanta vendetta della Calabria la fucilazione del tiranno giacobino a
Pizzo, non volgare tradimento, come, con scarsa anima storica, vuole il magistrato
Pietro D'Amico nel suo recente libro apologetico "Il re Gioacchino
Murat" edito dalla casa editrice Monteleone di Vibo Valentia. Il
D'Amico, nel poscritto al libro, ha perfino l'audacia di invitare la cittadinanza
di Pizzo ad un atto di pubblica "resipiscenza", elevare cioè
un monumento al Murat, nella stessa piazza che lo vide, secondo codesto autore,
"martire ed eroe"! (La Gazzetta del Sud, 3.5. 2002, pag. 10)
TUNISIA: DEPORTIAMONE
DIECIMILA
Lo stesso mese di dicembre
1868, da Firenze, il generale Presidente e Ministro degli Esteri Menabrea,
sempre per il fine della costituzione di una colonia di deportazione in una
terra remota, invia un dispaccio circostanziato all'Agente e Console Generale
a Tunisi, Pinna. Viene concretizzato per la prima volta il numero di prigionieri
duosiciliani, altissimo, da deportare: almeno diecimila. Nessun "tirannico"
governo preunitario si era mai infangato in tal maniera:
«Il
governo del Re desidererebbe che la S.V. studiasse se vi sia modo di stabilire
sul territorio della Tunisia una colonia penitenziaria italiana.
Le
condizioni che sarebbero richieste per fondare uno stabilimento di tal fatta
sarebbero le seguenti:
1°
trovare un territorio nelle condizioni volute di salubrità, fertilità
ecc., il quale sia separato dalla costa abitata almeno di tanta estensione
di deserto, quanta è necessaria perché uno o più viandanti
non possano traversarla, se non organizzati in carovana.
Il
territorio dovrebbe essere capace di almeno diecimila coloni.
2°
ottenere dal Governo tunisino la Concessione per poter colonizzare quel territorio.
La proprietà del medesimo dovrebbe essere ceduta al Governo Italiano
mentre invece la sovranità rimarrebbe al Bey sufficiente alla tutela
delle autorità che il Governo del Re invierebbe per esercitarvi la
giurisdizione penale e civile sovra i suoi sudditi, ed ottenere inoltre che
il Bardo consenta al governo del Re la facoltà di applicare le leggi
penali del regno nella località sovrindicata.
3°
entrare col Governo Tunisino in accordi per tutto quanto riguarda le particolari
questioni riflettenti il transito dei coloni, la loro forzata dimora, i rapporti
dei coloni stessi cogl’abitanti della reggenza, lo stabilimento di un’autorità
tunisina nel territorio che si vorrebbe colonizzare ecc. Sembra che la presenza
di un’autorità tunisina, almeno da principio, allontanerebbe
il sospetto che in questo negoziato, che d’altronde vuol essere tenuto
segretissimo, si asconda una cessione formale di territorio all’Italia.
4°
ottenere dal Governo di Tunisi la facoltà di creare nella località
prescelta un corpo di guardie
Fatte
che Ella avrà le indagini necessarie, e prese le preliminari informazioni
sulle disposizioni che si incontrerebbero, la prego Signor Commendatore, di
volermi riferire l'esito delle pratiche ch'Ella avrà fatte» (D.D.I.,
1a Serie, Vol. X).
IL BEY NON CI STA
Evidentemente la risposta
del Bey era stata negativa, dato che il tema della deportazione "con
ineluttabile necessità" veniva ereditato da un altro Ministero,
quello del Lanza, in cui figurava come Ministro degli Esteri il Visconti Venosta,
le cui parole hanno formato l’inizio della presente esposizione.
Ma, ancora nel 1868,
10 agosto, in piena estate, prima che le mire del generale Presidente Menabrea
si volgessero verso la Tunisia, altra idea - inviare una nave in esplorazione
per il mondo - aveva preso corpo nella mente del diabolico savoiardo, ossessionato
da furore antibrigantesco. Si era ormai convinto che i governi stranieri non
avrebbero mai ceduto una fetta di territorio per quel fine abietto.
LO ZAMPINO DELLA MARINA
A tal fine si rivolge
al Ministro della Marina, August Antoine Riboty, originario di Puget-Théniers,
nel dipartimento di Nizza (Ufficio
Storico Marina Militare, lettera riservata, n. 457):
«Oggetto:
colonia penitenziaria. è gran tempo che il Governo del Re riflette
ai vantaggi che molti fra i rami della Pubblica Amministrazione, e segnatamente
quello della punitiva giustizia, risentirebbero dalla possessione di un territorio
oltremare, situato a ragguardevole distanza dalla madre patria, ove possa
aver sede sicura e salubre una colonia penitenziaria. Né andrà
molto che siffatto possesso diverrà pur anche un bisogno assoluto,
quando cioè fosse introdotto il nuovo codice penale italiano, di cui
già conoscesi il progetto, essendo in esso stabilita qual pena principale
la deportazione.
Gli
sforzi fatti insino ad ora per scegliere una località conveniente all'oggetto
indicato non riuscirono ad utile effetto. Il Ministero degli Affari Esteri
che si occupò principalmente di questa bisogna, pose, in più
d’una circostanza, lo sguardo sopra diversi punti dell'uno o dell'altro
emisfero, ma senza alcun frutto fin qui perché considerazioni politiche
od altre di varia natura posero ostacolo all’attuazione dei concetti
ideati prima d’ora a questo riguardo.
E’
però necessario che si ponga mano, quanto più presto sarà
possibile, al compimento di un tale disegno. A questo scopo il provvedimento
più vantaggioso ad essere prescelto, sarebbe quello di un viaggio di
speciale esplorazione, intrapreso da una nave della R. Marina, al cui comandante
fossero impartite particolari istruzioni riflettenti l'oggetto, compilate
di comune accordo fra i vari dicasteri più particolarmente interessati
in quell'argomento.
Il
sottoscritto crede suo debito di chiamare su questo punto tutta l’attenzione
del Ministero della Marina. Egli è persuaso di non aver d'uopo di ricorre
a più estese argomentazioni in proposito, per trasfondere in esso il
convincimento della necessità dell’indicata spedizione, e quindi
dei concerti per ottenere che in tempo prossimo possa tradursi efficacemente
in realtà. Starà quindi aspettando le comunicazioni che il Ministero
della Marina vorrà essere compiacente di fargli a tale riguardo, assicurandogli
dal canto suo tutto il concorso che possa essere in grado di prestargli».
LA REGIA MARINA NON HA
LA FLOTTA
Sennonché la Regia
"Italiana" Marina, dopo la sonora batosta portata a casa da Lissa
nel 1866, 20 di luglio, per merito del Persano, esisteva quasi solamente sulla
carta. Là infatti il fior fiore del naviglio da guerra era stato affondato
dall'Ammiraglio dell'Impero danubiano Wilhelm Tegetthoff che già due
anni prima aveva dimostrato la sua grande perizia strategica distruggendo
la flotta danese nel Kattegat.
Sfortuna per il Menabrea
volle che egli inviasse la sua nota al Riboty in ritardo rispetto alla partenza
di una nave, la pirocorvetta Principessa Clotilde, di 2182 tonnellate, a vela
e a vapore, lunga 66 m, dotata di 20 cannoni calibro 16, impostata da appena
due anni (1866) in un cantiere di Genova dopo un lavoro di ben 5 anni, essendo
stata impostata nel 1861, con quali soldi pagata non sappiamo o forse li sospettiamo.
Due giorni dopo l’invio della richiesta, al Menabrea perviene fulminea,
deludente, la risposta del Riboty (U.S.M.M.,
lett. n. 32300/2792). Egli è:
«oltremodo
dispiacente che le condizioni del bilancio della Marina gli vietino in modo
assoluto di destinare una nave appositamente per la spedizione di cui è
caso.
Come
è noto a codesto Ministero se gli avvenimenti ultimi del Giappone non
avessero influito a dar ordine alla Principessa Clotilde di recarsi direttamente
in quella contrada, al Comandante di tale R. Legno dovean darsi istruzioni
nel senso che ponesse ogni cura alla ricerca di un sito per stabilirvi una
colonia penitenziaria.
Se
pertanto codesto Ministero crede che fra qualche tempo la presenza della Principessa
Clotilde nelle acque del Giappone non sarà più necessaria alla
protezione degli interessi nazionali, lo scrivente nel far proseguire al detto
R. Legno il viaggio ch’era in progetto, sarà ben lieto di dargli
istruzioni nel senso che in seguito ad accordo fra i vari dicasteri sarà
stabilito per lo scopo che fanno oggetto della nota a cui si risponde».
Il dialogo tra i due
Ministeri continua. Il generale Presidente del Consiglio e Ministro degli
Esteri Menabrea, tenace fucilatore di Meridionali, con successiva lettera
avente sempre per oggetto una colonia penitenziaria (U.S.M.M.,
21 settembre 1868, prot. 490), preso atto delle condizioni del
risicato bilancio della Marina, non è in grado di fornire una previsione
circa il termine del viaggio di quella pirocorvetta nelle acque del Giappone
perché:
«...
la presenza di una forza navale italiana nell'Estremo Oriente, desiderata
vivamente anche in addietro, ed oggidì resasi indispensabile ed urgente,
può considerarsi siccome stabilmente necessaria anche per l’avvenire,
affinché il prestigio del vessillo nazionale ed il sicuro sviluppo
del nostro commercio con quelle regioni, possano rimanere inviolati.
In
vista di ciò ed in presenza dell’altro bisogno, pur rispettabile
ed urgente, di cui è parola, la R. Amministrazione non potrebbe certamente
esimersi dal fare in modo che si provegga ad entrambi quei fini senza reciproco
danno, e possibilmente senza troppo ritardo per quanto riflette il nuovo proposto
viaggio di esplorazione.
Al
sottoscritto parrebbe che la soluzione più semplice di questo oggetto,
possa trovarsi nel disporre in anticipazione una nave che vada a surrogare
a suo tempo al Giappone la Principessa Clotilde, alla quale sarà pur
necessario dare presto o tardi lo scambio, e nell’affidare in parte
alla nave medesima nel recarsi a quella volta, ed in parte alla Principessa
Clotilde nel ritornarsene, l’incarico di eseguire le ricerche che ora
interessa di condurre ad effetto.
Lo
scrivente saprà grado [sic] al Ministero della Marina di fargli conoscere
il proprio avviso a questo riguardo, indicandogli l'epoca in cui possa, nel
caso, effettuarsi il divisato progetto, affinché vengano presi in tempo
i necessari accordi circa l’importante missione di cui si tratta».
IL PARLAMENTO NON DEVE
SAPERE
Tre giorni, dopo 24 settembre,
perviene sollecita la risposta del Riboty (prot.
37410/3260): la pirocorvetta dovrà rimanere nelle acque
dell'estremo Oriente fin verso la fine del 1870 e per il 1869 "non
fu portata sul bilancio la spesa d’una nave che vada a surrogare la
medesima… dovendo per regola le navi stazionarie all’estero rimanere
assenti almeno 3 anni, come usasi da tutte le nazioni marittime…e qualora
si voglia eseguire [il viaggio di esplorazione] bisognerà chiedere
un fondo suppletivo per questa missione al Parlamento, ma adottando questa
proposta [il Ministero della Marina] prevede le difficoltà cui si avrebbero
ad affrontare se mai la delicata quistione venisse ventilata nella Camera,
che stima superfluo di enunciare a codesto Ministero".
La pulce messa nell'orecchio
dal Riboty circa la "delicata quistione" induce il Menabrea
a rifarsi vivo (U.S.M.M.,
7 ottobre 1868, lettera riservata prot. 529). Egli è:
«dolente…di
scorgere come le condizioni del proprio bilancio e le norme adottate riguardo
alle stazioni navali all'estero, gli impongano di rimandare sin verso la fine
dell'anno 1870 il provvedimento proposto per la ricerca di una località
adatta alla creazione tanto necessaria di una colonia penitenziaria italiana.
Lo scrivente ammette senza difficoltà che la richiesta di fondi speciali
al Parlamento per l'oggetto in discorso, presenterebbe gravi inconvenienti
e pertanto, nell’impossibilità, a quanto sembra, di trovare pel
momento un mezzo di esecuzione di quel progetto, deve suo malgrado limitarsi
a raccomandare vivamente al Ministero della Marina di tenersi presente il
progetto medesimo pel caso in cui si verifichi qualche straordinaria spedizione
di navi in epoca per avventura più vicina a quella della normale surrogazione
dell'uno o dell'altro dei regi legni stazionarii all'estero affinché
si possa, in termine fattibilmente poco lontano, provvedere all'urgente bisogno
di cui è parola».
SI RIPROVA NEL BORNEO
Dopo aver tentato a più
riprese, collezionando smacchi diplomatici, di ottenere un’isola portoghese
del Pacifico, o un lembo di Mozambico o di Angola, l’isola di Socotra
nell'Oceano Indiano, un angolo di costa dell’Eritrea sul Mar Rosso,
un fazzoletto di terra nella sperduta Patagonia, un po’ di sabbia del
deserto tunisino, l’occhio del Ministro degli Esteri si volge ancora
al Pacifico, per la precisione a un’isola dei Sette Mari: Borneo.
Gliene dà il destro
la notizia che la pirocorvetta "Principessa Clotilde" si
trova da quelle parti. Il 6 di gennaio 1869 quindi nuova iniziativa: il Menabrea,
sempre ossessionato da patologia antimeridionale, decide di scrivere direttamente
al comandante di quella nave, il capitano di fregata Carlo Alberto Racchia,
torinese, futuro Senatore del Regno d'Italia (1/11/1892) e Ministro Segretario
di Stato della Regia Marina (1892/1893), ma ne dà previa comunicazione
al Riboty (U.S.M.M., prot.
14, Reg. Giappone) nei termini seguenti:
«…L’importanza
dell'argomento segnatamente per ciò che concerne la possibilità
di formare uno stabilimento sulle coste di Borneo ha deciso il sottoscritto
di scrivere direttamente al Comandante della Piro-corvetta "Principessa
Clotilde" per avere dal medesimo una relazione ragguagliata delle condizioni
del paese dove si potrebbe impiantare quello stabilimento. Sin d’ora,
ed anche soltanto dietro le informazioni avute sembra che il R. governo dovrebbe
frapporre il minor indugio possibile ad inviare a Borneo un legno della R.
Marina per esaminare minutamente ogni cosa ed anche per entrare in trattative
positive e concrete per l’acquisto del territorio che ci è necessario
per lo stabilimento che è in animo del R. Governo di fondare.
Se
l’invio di altra nave dello Stato dovesse essere molto ritardato, converrebbe
forse che la "Principessa Clotilde" ricevesse istruzione di recarsi
di nuovo a Borneo allo scopo sopra indicato».
AUMENTA IL NUMERO DEI
PRIGIONIERI
E, senza frapporre indugio,
lo stesso giorno il Menabrea scrive al Comandante Racchia rivelando, in quelle
che sono per noi, pronipoti di eroici Briganti, le sante reliquie dei documenti,
il numero dei prigionieri da deportare, numero che stavolta sale incredibilmente
a quindicimila:
«Dal
Ministero della Marina mi vennero comunicate le osservazioni interessantissime
che Ella ha fatto al suo passaggio a Borneo.
Bramerei
che quelle osservazioni fossero da Lei completate ed esposte in una relazione
a questo Ministero circa la facilità che presenterebbe lo stabilimento
di una colonia penitenziaria sulle coste di quell'isola.
Il
rapporto che io Le domando dovrebbe contenere una descrizione della località
che si vorrebbe scegliere e ciò avuto riguardo tanto alle condizioni
geografiche ed idrografiche, alla situazione politica attuale del territorio,
alle sue condizioni economiche ed alle difficoltà che si dovrebbero
vincere per istabilirsi e mantenersi.
Lo
stabilimento che l’Italia vorrebbe fondare dovrebbe essere capace di
almeno dieci o quindicimila deportati e dovrebbe per la fertilità o
per altre produzioni naturali del paese fornire alla numerosa colonia i necessari
mezzi di sussistenza.
Anche
la quistione della salubrità del paese da scegliersi vuol essere tenuta
in conto acciocché la deportazione non divenga pena più grande
ed inumana pel condannato a causa di mortalità deplorevole nei funzionari
e nelle truppe destinate alla custodia dello stabilimento.
Gradisca,
Signor Comandante, i sensi della mia distinta considerazione».
E’ IL TURNO DELLE
ISOLE DELLA DANIMARCA
Un mese dopo, esattamente
il 23 febbraio 1869, con lettera "urgente e riservata" (U.S.M.M.,
n. 2 del Reg. Danimarca), il Presidente Menabrea ricontatta il
Ministro Riboty comunicandogli che fin dal 1848 la Danimarca aveva abbandonato
le isole Nicobare situate nell’Oceano Indiano a nord dell'Indonesia
di fronte alla penisola di Malacca. Come al solito anche qui si fece sentire
la longa manus della superpotenza mondiale, la Gran Bretagna, che, come il
Menabrea comunica al collega della Marina,
«malgrado
la dichiarazione di abbandono esitò di prendere possesso di quelle
isole e stimò prudente di farsene cedere regolarmente il possesso dal
Gabinetto di Copenaghen… [il quale] aderì a siffatto desiderio,
mediante una dichiarazione del 2 dicembre 1868, non senza osservare, però,
che codesta dichiarazione, fatta dopo una precedente dichiarazione d’abbandono,
non avrebbe potuto pregiudicare il diritto di terzi che nel frattempo si fossero
impossessati delle isole Nicobare come di res derelicta.
Nel
caso, dunque, che le esitazioni della Gran Bretagna si protraggano ancora,
e nel caso soprattutto, che quelle isole fossero giudicate di conveniente
e vantaggioso possesso, nulla osterebbe a che dal R. Governo di procedere
[sic!] alla occupazione.
Epperò
il sottoscritto prega l’Onorevole Collega della Marina di voler considerare
se alla Principessa Clotilde attualmente di Stazione al Giappone, si possa
commettere l’incarico di visitare, nel più breve termine possibile,
le isole Nicobare, e di riferire al R. Governo intorno alla convenienza o
meno di acquistarne col possesso il dominio».
LA CONFERMA CHE I PRIGIONIERI
SONO MIGLIAIA
Trascorso un altro mese,
con scambi epistolari di poco o nessun valore ai fini del presente scritto,
il Menabrea riscrive altra lettera al Ministro della Marina Riboty (U.S.M.M.,
19 marzo 1869, lett. n. 7 del Reg. Danimarca), lettera da cui
apprendiamo essere molte migliaia i detenuti politici rinchiusi nelle carceri
della penisola :
«…
L’epoca fissata per il viaggio della Piro-corvetta Principessa Clotilde
nei mari della Cina sembra a chi scrive molto lontana per un’esplorazione
come sarebbe quella delle isole Nicobar e delle coste di Borneo ad uno scopo
utile ed urgente quale sarebbe quello di trovare una località dove
stabilire una colonia penitenziaria per le molte migliaia di condannati che
popolano gli stabilimenti carcerari del regno. L'invio di una altra nave forse
sarebbe stato il partito migliore da adottarsi se i fondi stanziati in bilancio
per l’anno corrente lo avessero permesso…
Se
però il Ministero della Marina possedesse qualche suo uffiziale il
quale avesse già visitato i paraggi dove sono situate le isole Nicobar,
converrebbe forse lo interpellasse segretamente sulle vere condizioni di quelle
terre e sulla maggiore o minore probabilità di riuscita che potrebbe
avere uno stabilimento italiano che si volesse fondare in quella regione…»
INTERVENTO DELL’INGHILTERRA
Ma, quasi beffa a quel
lungo lavorio sotterraneo, di cui il sedicente parlamento costituzionale italiano
era tenuto pervicacemente all'oscuro, le informazioni, che quel Presidente
bramava, erano a portata di mano in un libro pubblicato dalla Imperiale Marina
Austriaca. Risponde infatti il Ministro della Marina con lettera riservata
(U.S.M.M., prot. n. 684 del
23 marzo 1869):
«Non v'ha alcun
uffiziale nel caso di poter fornire al R. Governo dati precisi sulle isole
Nicobar e meno ancora sull’opportunità di stabilirvi o non una
colonia penitenziaria. Cotesto Ministero potrà però rilevarne
notizie dettagliate dal 2° volume del viaggio intorno al Globo eseguito
dalla Fregata austriaca NOVARA negli anni 1857-58-59 a pag. 100 ove la descrizione
politica geografica in delle dette isole è degna di tutta fiducia,
per l’esattezza e l’imparzialità con cui è redatta».
L'obiettivo delle Nicobare
di lì a poco venne però a sfumare, perché nello stesso
anno 1869 l'Inghilterra, per l'importanzastrategica di quelle isole sullo
stretto di Malacca, procedette alla loro occupazione, mettendosi così
in grado di controllare tutto il traffico marittimo per la Cina, il Giappone,
l'Indonesia e l'Australia.
ANCHE IN AUSTRALIA
Intanto il comandante
della "Principessa Clotilde" si moveva con la sua fregata
lungo le coste asiatiche dal Giappone a Bangkok, per sottoscrivere trattati
diplomatici, tra cui uno con la Cina per "meglio regolare l'emigrazione
dei coolies", sulla quale emigrazione, in realtà tratta di
schiavi, tempo prima ci aveva fatto il suo bel gruzzoletto anche colui che
la retorica patriottarda ha trasformato in "eroe dei due mondi".
Ma con lettera riservata
(U.S.M.M., 28 settembre 1869,
prot. 44912/2476) il Ministro Riboty fa sapere al collega degli
Esteri che, adempiute il comandante Racchia le missioni assegnategli, avrebbe
potuto procedere all'esplorazione a Borneo e fino ad Est dell'Australia:
«…Qualora
l'esplorazione a Borneo e isole adiacenti al NE non dasse [sic] il risultato
che si ripromette, l’unica altra zona interessante da esplorarsi con
speranza di successo sarebbe quella all’Est dell'Australia…Urge
avere una risposta poiché si correrebbe il rischio, aspettando, di
far trascorrere nelle acque del Giappone alla "Principessa Clotilde"
una parte del prossimo inverno, stagione preziosissima per recarsi nelle regioni
tropicali ed eseguire la esplorazione di cui è stato incaricato il
comandante di quel R. Legno».
L’affacciarsi sul
Pacifico, dove già altri vantavano diritti di primogenitura, causava
però sospetti e scontri diplomatici. L’Oceano sconfinato era
appannaggio dell'Inghilterra, degli Stati Uniti, dell’Olanda, della
Spagna, della Francia: trovare qualche terra non ancora colonizzata idonea
alla deportazione risultava impresa alquanto difficile, se non impossibile.
Quelle potenze ravvisavano,
nell’intrusione del nuovo venuto, un fastidioso potenziale concorrente
nella spartizione del bottino coloniale, anche se si presentava, almeno in
linea di principio, in veste di agnello alieno da mire colonialiste. Conferma
infatti Sergio Angelini (Il
tentativo italiano per una colonia nel Borneo, 1870-1873, Rivista di Studi
Politici Internazionali, n. 4, ott./dic. 1966, p. 527): "In
realtà questo motivo della deportazione… non poteva essere considerato…
fine a se stesso ma invece, sull’esempio di altrui esperienze, avrebbe
dovuto significare il primo nucleo di una successiva più vasta espansione
coloniale". Cosa che si verificherà puntualmente nel
1884 con l'acquisto della baia di Assab in Eritrea da parte della società
di navigazione Rubattino, la stessa già in precedenza fornitrice della
nave Cagliari al Pisacane e di due navi al Garibaldi per lo sbarco a Marsala.
RIPUGNANZA INGLESE
Il padrone primario del
Pacifico restava in ogni caso l’Inghilterra, verso cui il governo italiano
si mostrava molto ossequente se non addirittura servile. Sull’affare
di Borneo, il Ministro Cadorna da Londra riferiva, dopo un incontro con Lord
Granville, al Ministro degli Esteri Visconti Venosta in data 3 gennaio 1872
(D.D.I., 2a Serie, Vol. III,
n. 282):
«…il
Governo Inglese, qualunque ne sia il motivo, non vede molto volontieri il
nostro progetto di occupare una terra nei grandi lontani mari per farvi uno
stabilimento di deportazione. Ma l’opposizione non fu finora per sua
parte aperta, sibbene indiretta, fatta caso per caso, senza ragionamenti e
motivi; soprattutto non fu mai ostensivamente basata sopra considerazioni
politiche…[da] questa lunga conversazione traspare una non celata riluttanza
al nostro progetto, appoggiata a ragioni insussistenti, e non applicabili
al caso, le quali (dette da Lord Granville uomo molto fino, e di molta intelligenza)
danno il diritto di credere, che i veri motivi di questa riluttanza non si
vogliono dire, e che non si vuole perché ragionevolmente non si può.
Ora tutto ciò mi conferma nella presunzione che le difficoltà
non sono nel caso particolare di Borneo, e che nol furono negli altri casi
consimili che l’hanno preceduto; ma che hanno base in una ragione politica
di carattere generale…».
Dal rapporto emerge infine
la parola (ripugnanza) che dà finalmente la misura della sporca, abietta,
operazione che quel Ministro "virtuoso" era intenzionato a portare
a compimento: “Se questo contegno di Lord
Granville non fosse stato già preceduto da molti fatti che indicano
la ripugnanza dell’intero Governo ai nostri progetti si potrebbe dubitare
se il contegno di Lord Granville in questa circostanza possa considerarsi
proveniente da un partito preso…”.
SOCOTRA NON SI TOCCA
Il 3 maggio 1872 giunge
intanto da Londra al Ministro Visconti Venosta la risposta negativa dell'Inghilterra
circa l'isola di Socotra di cui si è già detto (D.D.I.,
2a Serie, Vol. III, n. 496). Il governo inglese, in previsione
dell’apertura del canale di Suez, predisponeva i picchetti per il dominio
del Mar Rosso, dominio che sarà poi completo con l'acquisizione del
pacchetto di azioni del Canale di Suez ad opera del Ministro Disraeli.
Riferisce infatti il
Ministro Cadorna:
«… intorno
all’eventuale occupazione per parte nostra dell'Isola di Socotra…poiché
essa [la risposta] è sfavorevole è da sperarsi che non sia per
essere dello stesso tenore quella che sto ancora attendendo, e che ho già
più volte sollecitata relativa alla occupazione di una parte della
costa dell'Isola di Borneo. Veramente per quest’ultima non potrebbero
esservi gli ostacoli che hanno potuto ravvisarvi per Socotra la quale si trova
sulla nuova linea di navigazione tra l’Europa e i possedimenti inglesi
nelle Indie pel canale di Suez».
1872: LA RESISTENZA CONTINUA
Intanto dal dispaccio
1136/348 datato Londra 11 settembre 1872 inviato dall'incaricato d'affari
Maffei al Venosta apprendiamo "della recrudescenza
del brigantaggio nelle nostre provincie meridionali" (D.D.I.,
2a serie, Vol. IV, n. 117) su cui il Times aveva pubblicato
"un articolo di fondo in cui, sebbene si esprima
molta simpatia per il Governo Italiano, tuttavia non gli si risparmiano biasimi
per non agire con più energia per estirpare una piaga così grave”.
Questa notizia è da tenere nella dovuta considerazione,
perché dilata ancora di qualche anno il limite temporale di opposizione
dei Duosiciliani al governo unitario, normalmente fissato dai cattedratici
all'anno 1870.
Sullo stesso argomento
tornava il 10 aprile 1873 il Segretario Generale all'Interno, Cavallini, in
una nota al Venosta (D.D.I.,
2a Serie, Vol. IV, n. 453): “Da
qualche mese si diffondono voci con qualche insistenza nella Sicilia e nelle
Calabrie di prossimi movimenti insurrezionali”.
Nel 1873 il Cadorna ha
un ultimo incontro con Lord Granville. La lettera che ne riferisce gli esiti
(D.D.I., 2a Serie, vol. IV,
n. 271) è della massima importanza storica perché
demolisce l'artificiosa, interessata, suddivisione storiografica in voga che
vuole un brigantaggio politico fino al 1862/63 e un brigantaggio banditesco
da quegli anni al 1870.
Dalle parole di quel
Ministro piemontese a Lord Granville emerge in tutta la sua unicità
l'aspetto politico della resistenza duosiciliana, purtroppo acefala, all'invasore
nordista e ai suoi collaborazionisti, iniziata nel 1860. Ne riportiamo le
parti più significative:
«…
La criminalità in Italia è diversissima nelle sue varie parti.
Le parti in cui essa è poco soddisfacente son la Sicilia, il Napoletano,
ed alcune province delle Romagne. Sebbene in questi luoghi siamo immensamente
lontani dallo stato in cui i precedenti Governi ci lasciarono quelle province,
quando i Tristany, ed i Borjés capitanavano bande di 300, e più
briganti, pure è deplorabilmente vero, che lo stato della sicurezza
pubblica è lungi dall'esservi soddisfacente. Noi siamo deliberati di
metter fine a qualunque costo a questo stato anormale, e di fare a tale scopo
tutti i possibili sforzi. Per noi è questa non solo una questione delmassimo
interesse, politica, e quasi sociale, ma è questione di dovere, e di
onore…Quale può essere il rimedio? La pena della morte? No. I
gravi reati sono ancora frequenti. Il numero dei manutengoli che sono la vera
base, ed il quartiere generale dei briganti, e senza la cui distruzione è
impossibile la distruzione del brigantaggio, è assai grande. Piantare
il patibolo ad ogni passo, ad ogni momento è cosa altrettanto impossibile!…
Si dovrebbero fare delle carneficine… solo la deportazione, come pena,
può, in Italia, essere applicata largamente, ed efficacemente; essa
soltanto può reprimere la numerosa classe di manutengoli. I briganti…
avvezzi a mettere la vita in pericolo, resi più feroci dalla stessa
lor vita, salgono spesso il patibolo stoicamente, cinicamente (esempio tristissimo
per le popolazioni!). Invece la fantasia fervida, immaginosa di quelle popolazioni
rende ad essi ed alle loro famiglie terribile la pena della deportazione.
In Italia, e massime nel Mezzodì, ove è grande l'attaccamento
alla terra, ed al proprio sangue, il pensiero di non vedere più mai
il suolo natale, la moglie, i figli, di passare, e di finire la vita in lontano
ignoto paese, lontani da tutto, e da tutti, è pensiero che atterrisce.
Non v'ha più né speranza di grazia né di fuga, né
di ajuto esterno. La pena della deportazione è per noi una vera necessità…
Noi non abbiamo alcun pensiero di fare delle colonie; lo scopo che ci proponiamo
è abbastanza giustificato dalle circostanze, perché ci si possa
supporre una volontà che non abbiamo; vogliamo applicare un sistema
penale. Non vogliamo neppure fare delle colonie penali; ma sibbene degli stabilimenti
penali, un penitenziario lontano…l’effetto sui malfattori italiani,
e sulle loro famiglie, e massimo per la parte meridionale d'Italia, sarebbe
grandissimo».
Lord
Granville ascoltò il lungo monologo senza batter ciglio, poi esclamò:
“Non sarebbe egli meglio portare i malfattori
italiani del Sud a scontare la pena nel Nord dell'Italia…?”.
E il Cadorna: “Risposi,
che ciò già si faceva da molto tempo…».
vedi
IL LAGER PIEMONTESE (SABAUDO) DI FENESTRELLE >
ANCHE L’OLANDA
SI OPPONE
Anche per l’insediamento
nell'isola di Borneo il governo italiano conseguì dunque uno smacco
diplomatico. Al diniego inglese si era sommata anche la tenace opposizione
olandese, dato che l’Olanda ne possedeva quasi tutto il territorio,
ma ne attendeva il riconoscimento britannico proprio in quegli anni. Il governo
italiano però fin dal 1869, in previsione di altri smacchi diplomatici,
aveva deciso di seguire strade non ortodosse per conseguire l’obiettivo
deportazione: affidare a un privato il compito di ricercare una colonia nelle
isole intorno alla Nuova Guinea per deportarvi almeno ventimila prigionieri
(v. Guido Po).
Fu incaricato un certo
Giovanni Emilio Cerruti. Costui aveva firmato una convenzione col Sultano
delle isole Batchiane, a nord della grande isola di Ceram. Quel Sultano concedeva
il diritto di sovranità su alcune di quelle isole in cambio di un canone
annuo in gilders olandesi. Lo stesso risultato il Cerruti conseguiva col Rajah
delle isole Key e coi due Rajah delle Arù. Ma le ulteriori opposizioni
britannica e olandese consigliarono al governo italiano di desistere definitivamente
dall'impiantarsi da quelle parti.
Agli schizofrenici fucilatori
di Duosiciliani non rimaneva dunque che rimandare a tempi più favorevoli
(colonia di Eritrea) il compimento dei loro piani distruttivi della nazione
duosiciliana che, per sopravvivere alle fucilazioni sommarie, ai lutti, alla
pesantissima pressione fiscale, alle rapine, si era già incamminata
sulla strada dell’emigrazione, cioè dell'autodeportazione, risolvendo
così, senza rumore politico, il problema dello scienziato pazzo e dei
suoi "fratelli."
Antonio Pagano
Direttore della rivista Due Sicilie
numero 1, anno 2003, .
vedi
BRIGANTAGGIO:
LA GUERRA DEI POVERI >
vedi L'INSABBIAMENTO CULTURALE
DELLA "QUESTIONE MERIDIONALE" >
vedi I
BRIGANTI? VI DICO IO CHI SONO! >
vedi IL LAGER PIEMONTESE
(SABAUDO) DI FENESTRELLE >
From: impossibilepentirsi@???
To: m.ciancarella@???; info@???; m.marcucci@???; marisa.pareto@???; rsensi@???; mrseye@???; forumlucca@???; lucca@???; lucca@???; sensi99@???; alessiociacci@???; salahchfouka@???; gicavalli@???; giovanna.duranti@???; la.gurfata@???; lista123lm@???
Subject: unità d'Italia/ due note scritte da un anarchico lucano su cui riflettere e da approfondire: i lager sabaudi e fenestrelle
Date: Thu, 17 Mar 2011 11:44:13 +0100
http://cronologia.leonardo.it/storia/a1863b.htm
Dopo l' "invenzione"
del "contrassegno per marchiare gli ebrei con un panno sulla spalla"
(vedi
AMEDEO VIII DI SAVOIA) - quindi un precursore dello "antisemitismo"
hitleriano - nel 1863 un altro sabaudo inventava i "lager",
e le "vasche di calce" per scioglierci dentro i cadaveri dei
reclusi soccombenti borbonici.
1863 - cronologia
di un anno infame
la pulizia
etnica piemontese
I LAGER SABAUDI
IL TALLONE DI FERRO
DEI SAVOIA - Dopo la conquista del Sud, 5212 condanne a morte.
Prigionieri e ribelli puniti con decreti e una legge del 1863
MIGLIAIA DI SOLDATI BORBONICI
DEPORTATI NEI LAGER DEL NORD
di STEFANIA MAFFEO
Il "lager" di Fenestrelle. La ciclopica
sabauda cortina bastionata
Cinquemiladuecentododici
condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti.
Queste le cifre della repressione consumata all'indomani dell'Unità
d'Italia dai Savoia. La prima pulizia etnica della modernità occidentale
operata sulle popolazioni meridionali dettata dalla Legge Pica, promulgata
dal governo Minghetti del 15 agosto 1863 "…
per la repressione del brigantaggio nel Meridione"[1].
Questa legge istituiva, sotto l'egida savoiarda, tribunali di guerra per il
Sud ed i soldati ebbero carta bianca, le fucilazioni, anche di vecchi, donne
e bambini, divennero cosa ordinaria e non straordinaria. Un genocidio la cui
portata è mitigata solo dalla fuga e dall'emigrazione forzata, nell'inesorabile
comandamento di destino: "O briganti, o emigranti".
Lemkin, che ha definito il primo concetto di genocidio, sosteneva: "…
genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione…esso
intende designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere
i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali. Obiettivi di un piano
siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali,
della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della
vita economica dei gruppi nazionali e la distruzione della sicurezza personale,
della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite
degli individui…non a causa delle loro qualità individuali, ma
in quanto membri del gruppo nazionale".
Deportazioni, l'incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa cattolica,
profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie
di "briganti") costretti ai ferri carcerari.
Una pagina non ancora scritta è quella relativa alle carceri in cui
furono rinchiusi i soldati "vinti". Il governo piemontese dovette
affrontare il problema dei prigionieri, 1700 ufficiali dell'esercito borbonico
(su un giornale satirico dell'epoca era rappresentata la caricatura dell'esercito
borbonico: il soldato con la testa di leone, l'ufficiale con la testa d'asino,
il generale senza testa) e 24.000 soldati, senza contare quelli che ancora
resistevano nelle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto.
Ma il problema fu risolto con la boria del vincitore, non con la pietas che
sarebbe stata più utile, forse necessaria. Un primo tentativo di risolvere
il problema ci fu con il decreto del 20 dicembre 1860, anche se le prime deportazioni
dei soldati duosiciliani incominciarono già verso ottobre del 1860,
in quanto la resistenza duosiciliana era iniziata con episodi isolati e non
coordinati nell'agosto del 1860, dopo lo sbarco dei garibaldini e dalla stampa
fu presentata come espressione di criminalità comune. Il decreto chiamava
alle armi gli uomini che sarebbero stati di leva negli anni dal 1857 al 1860
nell'esercito delle Due Sicilie, ma si rivelò un fallimento. Si presentarono
solo 20.000 uomini sui previsti 72.000; gli altri si diedero alla macchia
e furono chiamati "briganti". (nel '43, dopo l'8 settembre, accadde
quasi la stessa cosa, ma dato che vinsero (gli anglo-americani) la lotta la
chiamarono di "resistenza" , e gli uomini "partigiani".
Ndr.)
A migliaia questi uomini furono concentrati dei depositi di Napoli o nelle
carceri, poi trasferiti con il decreto del 20 gennaio 1861, che istituì
"Depositi d'uffiziali d'ogni arma dello sciolto
esercito delle Due Sicilie".
La Marmora ordinò ai procuratori di "non
porre in libertà nessuno dei detenuti senza l'assenso dell'esercito".
Per la maggior parte furono stipati nelle navi peggio degli animali (anche
se molti percorsero a piedi l'intero tragitto) e fatti sbarcare a Genova,
da dove, attraversando laceri ed affamati la via Assarotti, venivano smistati
in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S. Maurizio Canavese,
Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di
Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altre località
del Nord.
Presso il Forte di Priamar fu relegato l'aiutante maggiore Giuseppe Santomartino,
che difendeva la fortezza di Civitella del Tronto. Alla caduta del baluardo
abruzzese, Santomartino fu processato dai (vincitori) Piemontesi e condannato
a morte. In seguito alle pressioni dei francesi la condanna fu commutata in
24 anni di carcere da scontare nel forte presso Savona. Poco dopo il suo arrivo,
una notte, fu trovato morto, lasciando moglie e cinque figli. Si disse che
aveva tentato di fuggire. Un esempio di morte sospetta su cui non fu mai aperta
un'inchiesta per accertare le vere cause del decesso.
In quei luoghi, veri e propri lager, ma istituiti per un trattamento di "correzione
ed idoneità al servizio", i prigionieri, appena coperti da cenci
di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po' di pane nero raffermo,
subendo dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisiche
e morali. Per oltre dieci anni, tutti quelli che venivano catturati, oltre
40.000, furono fatti deliberatamente morire a migliaia per fame, stenti, maltrattamenti
e malattie.
Quelli deportati a Fenestrelle [2], fortezza situata a quasi duemila metri
di altezza, sulle montagne piemontesi, sulla sinistra del Chisone, ufficiali,
sottufficiali e soldati (tutti quei militari borbonici che non vollero finire
il servizio militare obbligatorio nell'esercito sabaudo, tutti quelli che
si dichiararono apertamente fedeli al Re Francesco II, quelli che giurarono
aperta resistenza
ai piemontesi) subirono il trattamento più feroce.
Fenestrelle (nella foto di apertura) più che un forte, era un insieme
di forti, protetti da altissimi bastioni ed uniti da una scala, scavata nella
roccia, di 4000 gradini. Era una ciclopica cortina bastionata cui la naturale
asperità dei luoghi ed il rigore del clima conferivano un aspetto sinistro.
Faceva tanto spavento come la relegazione in Siberia. I detenuti tentarono
anche di organizzare una rivolta il 22 agosto del 1861 per impadronirsi della
fortezza, ma fu scoperta in tempo ed il tentativo ebbe come risultato l'inasprimento
delle pene con i più costretti con palle al piede da 16 chili, ceppi
e catene.
Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani
e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato
venne ucciso da una sentinella solo perché aveva proferito ingiurie
contro i Savoia. Vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con
il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati
a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi
solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei.
Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusati
ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per cui erano stati
catturati era proprio solo per rubare loro il danaro che possedevano. Molti
non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni venivano
processati e condannati senza alcuna spiegazione logica.
Pochissimi riuscirono a sopravvivere: la vita in quelle condizioni, anche
per le gelide temperature che dovevano sopportare senza alcun riparo, non
superava i tre mesi. E proprio a Fenestrelle furono vilmente imprigionati
la maggior parte di quei valorosi soldati che, in esecuzione degli accordi
intervenuti dopo la resa di Gaeta, dovevano invece essere lasciati liberi
alla fine delle ostilità.
Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero subire un trattamento infame
che incominciò subito dopo essere stati disarmati, venendo derubati
di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi.
La liberazione avveniva solo con la morte ed i corpi (non erano ancora in
uso i forni crematori) venivano disciolti nella calce viva collocata in una
grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva all'ingresso del Forte.
Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché
non restassero tracce dei misfatti compiuti. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle,
su un muro è ancora visibile l'iscrizione: "Ognuno vale non
in quanto è ma in quanto produce".
(ricorda molto la scritta dei lager nazisti "
Non era più gradevole il campo impiantato nelle "lande di
San Martino" presso Torino per la "rieducazione" dei militari
sbandati, rieducazione che procedeva con metodi di inaudita crudeltà.
Così, in questi luoghi terribili, i fratelli "liberati",
maceri, cenciosi, affamati, affaticati, venivano rieducati e tormentati dai
fratelli "liberatori".
Altre migliaia di "liberati" venivano confinati nelle isole, a Gorgonia,
Capraia, Giglio, all'Elba, Ponza, in Sardegna, nella Maremma malarica. Tutte
le atrocità che si susseguirono per anni sono documentate negli Atti
Parlamentari, nelle relazioni delle Commissioni d'Inchiesta sul Brigantaggio,
nei vari carteggi parlamentari dell'epoca e negli Archivi di Stato dei capoluoghi
dove si svolsero i fatti.
Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, sosteneva in Parlamento: "Ma
che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali,
tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro
Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre
inospitali terre del Piemonte…Sono essi trattati peggio che i galeotti.
Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà?
Perché abbia a torturare con la fame e con l'inerzia e la prigione
uomini nati in Italia come noi?".
Ma della mozione presentata non fu autorizzata la pubblicazione negli Atti
Parlamentari, vietandosene la discussione in aula [3]. Il generale Enrico
Della Rocca, che condusse l'assedio di Gaeta, nella sua autobiografia riporta
una lettera alla moglie, in cui dice: "Partiranno,
soldati ed ufficiali, per Napoli e Torino...", precisando,
a proposito della resa di Capua, "...le truppe
furono avviate a piedi a Napoli per essere trasportate in uno dei porti di
S.M. il Re di Sardegna. Erano
11.500 uomini"
[4].
Alfredo Comandini, deputato mazziniano dell'età giolittiana, che compilò
"L'Italia nei Cento Anni (1801-1900) del secolo XIX giorno per giorno
illustrata", riporta un'incisione del 1861, ripresa da "Mondo
Illustrato" di quell'anno, raffigurante dei soldati borbonici detenuti
nel campo di concentramento di S. Maurizio, una località sita a 25
chilometri da Torino. Egli annota che, nel settembre del 1861, quando il campo
fu visitato dai ministri Bastogi e Ricasoli, erano detenuti 3.000 soldati
delle Due Sicilie e nel mese successivo erano arrivati a 12.447 uomini.
Il 18 ottobre 1861 alcuni prigionieri militari e civili capitolati a Gaeta
e prigionieri a Ponza scrissero a Biagio Cognetti, direttore di "Stampa
Meridionale", per denunciare lo stato di detenzione in cui versavano,
in palese violazione della Capitolazione, che prevedeva il ritorno alle famiglie
dei prigionieri dopo 15 giorni dalla caduta di Messina e Civitella del Tronto
ed erano già trascorsi 8 mesi. Il 19 novembre 1861 il generale Manfredo
Fanti inviava un dispaccio al Conte di Cavour chiedendo di noleggiare all'estero
dei vapori per trasportare a Genova 40.000 prigionieri di guerra. Cavour così
scriveva al luogotenente Farini due giorni dopo: "Ho
pregato La Marmora di visitare lui stesso i prigionieri napoletani che sono
a Milano", ammettendo, in tal modo, l'esistenza di un altro
campo di prigionia situato nel capoluogo lombardo per ospitare soldati napoletani.
Questa la risposta del La Marmora: "…non
ti devo lasciar ignorare che i prigionieri napoletani dimostrano un pessimo
spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che
acconsentono a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di verminia…e
quel che è più dimostrano avversione a prendere da noi servizio.
Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andare a casa
perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà
a Francesco Secondo, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati,
e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano a servire, che
erano un branco di car…che avessimo trovato modo di metterli alla ragione".
Le atrocità commesse dai Piemontesi si volsero anche contro i magistrati,
i dipendenti pubblici e le classi colte, che resistettero passivamente con
l'astensione ai suffragi elettorali e la diffusione ad ogni livello della
stampa legittimista clandestina contro l'occupazione savoiarda. Particolarmente
eloquente è anche un brano tratto da Civiltà Cattolica:
"Per vincere la resistenza dei prigionieri
di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso
ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena
coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione
con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle
gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri
luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce,
come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri
schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie".
Ancora possiamo leggere dal diario del soldato borbonico Giuseppe Conforti,
nato a Catanzaro il 14.3.1836 (abbreviato per amor di sintesi): "Nella
mia uscita fu principio la guerra del 1860, dopo questa campagna che per aver
tradimenti si sono perduto tutto e noi altri povere soldati manggiando erba
dovettimo fuggire, aggiunti alla provincia della Basilicata sortí un
prete nemico di Dio e del mondo con una porzione di quei giudei e ci voleva
condicendo che meritavamo di essere uccisi per la federtà che avevamo
portato allo notro patrone. Ci hanno portato innanzi a un carnefice Piemontesa
condicendo perché aveva tardato tanto ad abbandonare quell'assassino
di Borbone. Io li sono risposto che non poteva giammai abbandonarlo perché
aveva giurato fedeltà a lui e lui mi à ditto che dovevo tornare
indietro asservire sotto la Bandiera d' Italia. Il terzo giorno sono scappato,
giunto a Girifarchio dove teneva mio fratello sacerdote vedendomi redutto
a quello misero stato e dicendo mal del mio Re io li risposi che il mio Re
no aveva colpa del nostri patimenti che sono stato le nostri soperiori traditori;
siamo fatto questioni e lo sono lasciato".
"Allo mio paese sono stato arrestato e dopo 7 mesi di scurre priggione
mi anno fatto partire per il Piemonte. Il 15 gennaio del 1862 ci anno portato
affare il giuramento, in quello stesso anno sono stato 3 volte all'ospidale
e in pregiona a pane e accua. Principio del 1863 fuggito da sotto le armi
di vittorio, il 24 sono giunto in Roma, il giorno 30 sono andato alludienza
del mio desiderato e amato dal Re', Francesco 2 e li ò raccontato tutti
i miei ragioni"[5].
Vittorio
Emanuele II, il re vittorioso...
...e Francesco II, il re vinto, nella fortezza di Gaeta
Un ulteriore passo
avanti nella studio di questa fase poco "chiara" del post unificazione
è stato fatto recentemente, quando un ricercatore trovò dei
documenti presso l'Archivio Storico del Ministero degli Esteri attestanti
che, nel 1869, il governo italiano voleva acquistare un'isola dall'Argentina
per relegarvi i soldati napoletani prigionieri, quindi dovevano essere ancora
tanti [6].
Questi uomini del Sud finirono i loro giorni in terra straniera ed ostile,
certamente con il commosso ricordo e la struggente nostalgia della Patria
lontana. Molti di loro erano poco più che ragazzi [7].
Era la politica della criminalizzazione del dissenso, il rifiuto di ammettere
l'esistenza di valori diversi dai propri, il rifiuto di negare ai "liberati"
di credere ancora nei valori in cui avevano creduto. I combattenti delle Due
Sicilie, i soldati dell'ex esercito borbonico ed i tanti civili detenuti nei
"lager dei Savoia", uomini in gran parte anonimi per la pallida
memoria che ne è giunta fino a noi, vissero un eroismo fatto di gesti
concreti, ed in molti casi ordinari, a cui non è estraneo chiunque
sia capace di adempiere fedelmente il proprio compito fino in fondo, sapendo
opporsi ai tentativi sovvertitori, con la libertà interiore di chi
non si lascia asservire dallo "spirito del tempo".
STEFANIA MAFFEO
NOTE
[1] Legge Pica:
" Art.1: Fino al 31 dicembre nelle province infestate dal brigantaggio,
e che tali saranno dichiarate con decreto reale, i componenti comitiva, o
banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche
strade o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici,
saranno giudicati dai tribunali militari;
Art.2: I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono
resistenza alla forza pubblica, saranno puniti con la fucilazione;
Art.3: Sarà accordata a coloro che si sono già costituiti, o
si costituiranno volontariamente nel termine di un mese dalla pubblicazione
della presente legge, la diminuzione da uno a tre gradi di pena;
Art.4: Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare, per un
tempo non maggiore di un anno, un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi,
alle persone sospette, secondo la designazione del Codice Penale, nonché
ai manutengoli e camorristi;
Art.5: In aumento dell'articolo 95 del bilancio approvato per 1863 è
aperto al Ministero dell'Interno il credito di un milione di lire per sopperire
alle spese di repressione del brigantaggio. (Fonte: Atti parlamentari. Camera
dei Deputati)
[2] Il luogo non era nuovo a situazioni del genere perché già
Napoleone se ne era servito per detenervi i prigionieri politici ed un illustre
napoletano, Don Vincenzo Baccher, il padre degli eroici fratelli realisti
fucilati dalla Repubblica Partenopea il 13 giugno del 1799, che vi aveva passato
9 anni, dal 1806 al 1815, tornando a Napoli alla venerabile età di
82 anni.
[3] Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento - legittimisti e briganti
tra i Borbone ed i Savoia, Guida Editore, Napoli, 2000.
[4] Questa informazione e tutte le seguenti sono state reperite nei saggi
"I campi di concentramento", di Francesco Maurizio Di Giovine, nella
rivista L'Alfiere, Napoli, novembre 1993, pag. 11 e "A proposito
del campo di concentramento di Fenestrelle", dello stesso autore,
pubblicato su L'Alfiere, dicembre 2002, pag. 8.
[5] Fulvio Izzo, I Lager dei Savoia, Controcorrente, Napoli 1999.
[6] S. Grilli, Cayenna all'italiana, Il Giornale, 22 marzo 1997.
[7] Sul sito www.duesicilie.org/Caduti.html
è possibile ritrovare i nomi, con data di nascita e provenienza di
alcuni martiri di Fenestrelle, nel periodo compreso tra il 1860 ed il 1865.
Erano poco più che ragazzi: il più giovane aveva 22 anni, il
più vecchio 32.
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(concessa solo a Cronologia)
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http://www.storiain.net
vedi
BRIGANTAGGIO:
LA GUERRA DEI POVERI >
vedi L'INSABBIAMENTO CULTURALE
DELLA "QUESTIONE MERIDIONALE" >
vedi I
BRIGANTI? VI DICO IO CHI SONO! >
From: impossibilepentirsi@???
To: m.ciancarella@???; info@???; m.marcucci@???; marisa.pareto@???; rsensi@???; mrseye@???; forumlucca@???; lucca@???; lucca@???; sensi99@???; alessiociacci@???; salahchfouka@???; gicavalli@???; giovanna.duranti@???; la.gurfata@???; lista123lm@???
Subject: unità d'Italia: due note scritte da un anarchico lucano su cui riflettere e da approfondire.....
Date: Thu, 17 Mar 2011 10:34:38 +0100
Perchè l'Italia sia davvero una e indivisibile come scritto nella Costituzione del 1948 e gli italiani si sentano uniti come popolo da nord a sud, dal continente alle isole, superando campanilismi e razzismi, evitando di rivivere un neomedioevalismo di neosignorie e neocomuni o di ripiombare in un'epoca neonazifascista dove la propria nazione e razza sia considerata superiore alle altre e dunque le altre nazioni e popoli si pensa di avere il diritto di annientare, ci deve anche essere la verità sulla storia d'Italia di questi 150 anni che è una sola e quasi mai/mai è quella "scritta dai vincitori" : ecco perchè porto alla vostra attenzione queste due note di questo anarchico lucano, comunque da verificare punto per punto sulla documentazione da cui sono prese queste notizie. In queste due note l'autore non cita le sue fonti e dunque indipendentemente da chi scrive, dalla sua cultura e convinzioni politiche i contenuti vanno verificati punto per punto con studio e ricerca, quando non si è a conoscenza come la sottoscritta dei fatti storici in esse denunciati, studio e ricerca che non ho potuto fare e dunque vi prego di prendere con cautela quanto scritto in queste 2 note che porto alla vostra attenzione e se l'argomento vi interessa, come interessa a me potrete di certo approfondire voi stessi come farò io appena ne avrò il tempo quanto scritto in queste 2 note. laura picchi
1861-2011: Il Genocidio dei Terronipubblicata da Nico Guevara brigante lucano il giorno mercoledì 16 marzo 2011 alle ore 8.04Non tutti sanno che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni. E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni “anti-terrorismo”, come i marines in Iraq.
Non tutti sanno che, nelle rappresaglie, si concessero libertà di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani, durante il conflitto etnico; o come i marocchini delle truppe francesi, in Ciociaria, nell’invasione, da Sud, per redimere l’Italia dal fascismo (ogni volta che viene liberato, il Mezzogiorno ci rimette qualcosa).
Non tutti sanno che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli d’Italia ebbero pure diritto di saccheggio delle città meridionali, come i Lanzichenecchi a Roma.
E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile.
In Parlamento, a Torino, un deputato ex garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al Sud a quelle di «Tamerlano, Gengis Khan e Attila».
Non
tutti sanno che si incarcerarono i meridionali senza accusa, senza
processo e senza condanna, come è accaduto con gl’islamici a Guantánamo. Lì qualche centinaio, terroristi per definizione, perché musulmani; da noi centinaia di migliaia, briganti per definizione, perché meridionali. E, se bambini, briganti precoci; se donne, brigantesse o mogli, figlie, di briganti; o consanguinei di briganti (sino al terzo grado di parentela); o persino solo paesani o sospetti tali. Tutto a norma di legge, si capisce, come in Sudafrica, con l’apartheid. Grazie alla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti, una legge simile, grazie a Nazi-Cossiga, servì oltre un secolo dopo per sterminare i nuovi Briganti.
Non tutti sanno che i briganti fossero guerriglieri per difendere il proprio paese invaso.
Non tutti sanno che il paesaggio del Sud divenne come quello del Kosovo, con fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi che bruciavano sulle colline e colonne di decine di migliaia di profughi in marcia.
Non tutti sanno che i primi campi di concentramento e sterminio in Europa li istituirono gli italiani del Nord, per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a migliaia, forse decine di migliaia (non si sa, perché li squagliavano nella calce).
Non tutti sanno che il ministero degli Esteri dell’Italia unita cercò per anni «una landa desolata», fra Patagonia, Borneo, per deportarvi i meridionali e annientarli lontano da occhi indiscreti.
Non tutti sanno che i fratelli d’Italia arrivati dal Nord svuotarono le ricche banche meridionali, regge, musei, case private (rubando persino le posate), per pagare i debiti del Piemonte e costituire immensi patrimoni privati.
Non tutti sanno che i Mille fossero quasi tutti avanzi di galera.
Non
tutti sanno che, a Italia così unificata, imposero una tassa aggiuntiva
ai meridionali, per pagare le spese della guerra di conquista del Sud,
fatta senza nemmeno dichiararla.
Non tutti sanno che l’occupazione del Regno delle Due Sicilie fosse stata decisa, progettata, protetta da Inghilterra e Francia, e parzialmente finanziata dalla massoneria (detto da Garibaldi, sino al gran maestro Armando Corona, nel 1988).
Non tutti sanno che il Regno delle Due Sicilie fosse, fino al momento dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati del mondo (terzo, dopo Inghilterra e Francia, prima di essere invaso).
Non tutti sanno che l’Italia unita facesse pagare più tasse a chi stentava e moriva di malaria nelle caverne dei Sassi di Matera, rispetto ai proprietari delle ville sul lago di Como.
Abbiamo sempre creduto ai libri di storia, alla leggenda di Garibaldi…la storia la scrive chi vince…
1861-2011:IL PRIMO LAGER AL MONDO, FENESTRELLE! Leggete questa storia,leggetela con attenzione e con una lacrima nel cuore.pubblicata da Nico Guevara Brigante Lucano il giorno giovedì 17 marzo 2011 alle ore 8.41Il primo campo di sterminio dell’era moderna era piemontese e vi morirono migliaia di soldati delle Due Sicilie.
All’entrata le parole: “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce”.
Gli storici continuano a voler ignorare una storia piena di dolore, disperazione e di morte
che da quasi 150 anni aspetta di essere scritta sui testi scolastici.
L’esempio piú emblematico di questa continua censura storica è il Lager
di Fenestrelle.
Ma facciamo un piccolo passo indietro, cosa ha
comportato l’Unità d’Italia? Le cifre ufficiali, anche se molto
sottovalutate, sono terrificanti: 5212 condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Una vera e propria repressione consumata all’indomani dell’Unità d’Italia dai Savoia e forse la si può definire come la prima pulizia etnica dell’epoca moderna, operata sulle popolazioni meridionali, dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti.
Se
queste argomentazioni ci indignano, niente può farci venire il ribrezzo
piú delle vicende che hanno coinvolto il forte di Fenestrelle dal 1860
al 1870.
In quel periodo si concretizzò il primo campo di sterminio della storia moderna, in esso trovarono la morte piú di 8.000 soldati del Regno delle Due Sicilie, ai quali va aggiunto un numero imprecisato di letterati, preti, briganti e miseri contadini.
Ma tutto ciò continua ad essere ignorato dalle menti illustri della storiografia “ufficiale” italiana e
dai letterati; addirittura sul sito dell’Amministrazione Provinciale la
fortezza viene presentata come “Monumento simbolo della Provincia di
Torino“ (con tanto di foto in notturna per decantarne implicitamente la
bellezza), mentre sul sito ufficiale del Forte, si invita alla
devoluzione del 5 per mille!
Sempre sul sito De Amicis scrive:
«Uno
dei piú straordinari edifizi che possa aver mai immaginato un pittore
di paesaggi fantastici: una sorta di gradinata titanica, come una
cascata enorme di muraglie a scaglioni, un ammasso gigantesco e triste
di costruzioni, che offriva non so che aspetto misto di sacro e di
barbarico, come una necropoli guerresca o una rocca mostruosa, innalzata
per arrestare un’invasione di popoli, o per contener col terrore
milioni di ribelli. Una cosa strana, grande, bella davvero. Era la
fortezza di Fenestrelle». Si chiude con «Guardiano immobile e supremo della nostra indipendenza e del nostro onore».
È la pura esaltazione dell’inferno! Ora immaginate se invece di Fenestrelle si parlasse di Auschwitz, e con in mente il nome del famoso lager nazista rileggete le parole di De Amicis appena sopra riportate!!
Noi popolo meridionale abbiamo l’obbligo morale di dire tutte
le verità sulla cieca e razzista politica di aggressione che i Savoia e
i Piemontesi hanno fatto nelle nostre meravigliose regioni!
Di seguito la vera storia, quella che non troverete mai nei testi scolastici dei vostri figli, leggetela con attenzione e con una lacrima nel cuore.
Fenestrelle, storia di un lager sconosciuto
“Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce”.
È
l’iscrizione che un visitatore legge oggi su un muro, entrando a
Fenestrelle, fortezza ubicata sulle montagne piemontesi dove, dal 1860
al 1870, furono deportati i migliaia di meridionali che si opposero
all’unità d’Italia e alla colonizzazione piemontese.
Gli
internati erano soprattutto poveri contadini ed ex soldati borbonici,
gli stessi che sarebbero morti di stenti e vessazioni perpetrati da chi
si reputava un liberatore!
Un insieme di forti protetti da
altissimi bastioni ed uniti da una scala di 4000 gradini scavata nella
roccia: ecco cos’era a quel tempo Fenestrelle, una gigantesca cortina
fortificata resa ancor piú spettrale dalla naturale asperità di quei
luoghi e dalla rigidità del clima.
Assassini, sacerdoti, giovani,
vecchi, miseri popolani e uomini di cultura privi di luce e coperte,
senza neanche un pagliericcio lottavano tra la vita e la morte in
condizioni disumane; perfino i vetri e gli infissi venivano smontati per
rieducare con il freddo i segregati.
Laceri
e poco nutriti passavano le giornate standosene appoggiati ai
muraglioni nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi di sole
invernali, e chissà che in quei momenti non ricordassero con nostalgia
il calore di climi piú mediterranei.
Pochissimi riuscirono a sopravvivere: le aspettative di vita in quelle condizioni non superavano i tre mesi e spesso i carcerati venivano uccisi anche solo per aver proferito ingiurie contro i Savoia.
Nessuna spiegazione logica dunque alla base della loro misera prigionia, molti non erano nemmeno registrati, da qui la difficoltà di conoscere oggi il numero preciso dei morti, processati e non.
E
proprio a Fenestrelle furono imprigionati la maggior parte di quei
soldati che, subito dopo la resa di Gaeta nel 1861, avrebbero dovuto
trovare la libertà. Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero,
invece, subire un trattamento infame: disarmati, derubati di tutto e
vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi, morirono di stenti.
Poi,
il 22 agosto del 1861 arriva il tentativo di rivolta: uno sforzo
inutile, sventato per tempo dai piemontesi e che ebbe come risultato
l’inasprimento delle pene tra cui la costrizione di portare al piede
palle da 16 chili, ceppi e catene.
L’unica liberazione possibile era dunque la morte,
delle piú atroci: i corpi venivano sciolti nella calce viva, collocata
in una grande vasca nel retro della chiesa all’ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti.
I NOSTRI MORTI
I
nostri morti, i quali per quasi un secolo e mezzo sono stati insultati e
poi dimenticati da ogni scuola ed istituzione del “nostro” Paese.
ED
OGGI TUTTI PRONTI A FESTEGGIARE CON LE BANDIERINE MACCHIATE DAL SANGUE
DI MIGLIAIA DI MERIDIONALI! TUTTI PRONTI A FESTEGGIARE, SENZA NEMMENO
SAPERE COSA REALMENTE SI FESTEGGIA, IGNARI, COME TANTI “BALILLA”.