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Tárgy: [autorgstudbo] 25/2 “Bologna al bivio”, che fine ha fatto il welfare municipale?
“Bologna al bivio”, che fine ha fatto il welfare municipale?

Venerdì 25 febbraio'011 alle ore 21, a Vag 61 (via Paolo Fabbri 110),
prendendo spunto dalla presentazione del volume “Bologna al bivio. Una
città come le altre?” (a cura di Mauro Boarelli, Luca Lambertini e
Mimmo Perrotta), si terrà una serata di discussione e confronto sulla
crisi del “welfare municipale” nel nostro territorio.

Oltre agli autori del libro, parteciperanno:

- operatrici ed operatori della Rete Sold Out
- lavoratori e lavoratrici delle coop sociali bolognesi
- Maurizio Bergamaschi (docente di Sociologia presso la facoltà di
Scienze Politiche dell’Università di Bologna)

Vorremmo che l’incontro servisse per  approfondire lo stato dei
servizi in città dopo l’ondata di tagli che si è verificata, il ruolo
del pubblico, delle Asp e del cosidetto "privato sociale".
Verificheremo l’esistenza di nuove progettualità più consone ai nuovi
bisogni e alle problematiche emerse con la crisi.
Ci piacerebbe che questa discussione diventasse uno spazio pubblico di
ricerca e di intervento comune con i tanti operatori sociali che
spesso sono più ricattati e precari delle persone che assistono.
Lavoratori e lavoratici sociali che fanno lo stesso lavoro dei
dipendenti pubblici prendendo molto meno di stipendio. Lavoratori e
lavoratrici sociali senza voce, figure ibride tra socio e lavoratore,
senza contratto nazionale in quasi tutte le regioni. Lavoratori
sociali, spesso precari, con tempi di lavoro inimmaginabili.

* * * * * * * * * *

IL WELFARE SOTTO ATTACCO
Contributo di Vag61 al dibattito

La “crisi” di questi anni è stata anche crisi del welfare. C’è stata
una tendenza abbastanza spinta verso lo stato sociale minimo, nel
quale il salario indiretto dei precari e dei lavoratori, sotto forma
di diritti esigibili, è stato in più punti tagliato.
Oggi, poi, vediamo che i perni dello stato sociale (scuola, edilizia
pubblica, assistenza, sanità e previdenza), vengono demoliti a colpi
di piccone.
Tra le cause ci sono le politiche monetariste dei governi centrali
che, accettando i “patti di stabilità”, imposti a livello europeo sul
debito pubblico, sfornano a man bassa provvedimenti di austerità che
affamano (è proprio il caso di dirlo) i settori più deboli della
popolazione.
Ma di colpe ne hanno pure i politici locali che hanno cancellato nei
territori anche i più timidi segnali di politiche sociali.

C’è stato un progressivo smantellamento del sistema pubblico di
garanzie e di protezioni sociali, che è stato accompagnato da un
micidiale fritto misto, fatto di un degradato parapubblico (come le
cosidette ASP, le aziende di servizi alle persone che hanno preso il
posto delle ex Opere Pie) e di cattiva imprenditorialità (cooperative
e imprese sociali), a cui è stata affidata l’esternalizzazione dei
servizi sociali.

Prima di entrare nel merito dello “stato dell'arte” ci sembra
opportuno provare a portare all'attenzione alcune tendenze più
generali che sottotraccia lavorano verso una vera e propria
ridefinizione del ruolo e degli obbiettivi del welfare. Pur
all'interno di un quadro complesso ed eterogeneo, sia sul piano locale
che su quello nazionale, ci sembra sia possibile individuare alcune
linee di fondo che si sono consolidate a livello europeo a partire dal
Processo di Lussemburgo del '98 e che a cascata hanno innervato gli
indirizzi di politica sociale e del lavoro dei vari paesi membri. Un
processo che sembra ridefinire il nocciolo del rapporto tra lavoro,
welfare e cittadinanza, e di conseguenza incidere sulle modalità di
accesso alla proprietà sociale. Il welfare storico si articolava sulla
base della definizione e distinzione di alcuni beni comuni, l'accesso
ai quali era da considerarsi come patrimonio di base della
cittadinanza (salute, istruzione, garanzie dai rischi sociali etc etc
). L'accesso ai servizi pubblici deputati a produrre questi beni
comuni non registrava le caratteristiche della popolazione, ma
caratteristiche dei beni in questione: era la loro natura di beni
comuni e non la posizione dei destinatari  che ne giustificava
l'erogazione. Ora questa logica sembra sempre  più venir meno.

L'Unione europea, oltre ad aver agito sul piano del controllo dei
conti pubblici dei singoli stati membri ha contemporaneamente
dispiegato  una retorica sul welfare che reintroduce la responsabilità
individuale rispetto alla propria condizione di bisogno, producendo
così una moralizzazione del discorso  che soggettivizza le
problematiche e depoliticizza la questione della povertà così come
quella del lavoro. Sono i soggetti che devono dimostrasi "degni", dopo
aver affrontato un percorso, spesso deciso in modo unilaterale, di
veder riconosciuti i propri bisogni , che non a caso vengono
ridefiniti come “bisogni” (la cui definizione non si sa bene a chi
spetti ) e non come diritti da esigere. L'attenzione è posta
direttamente sui destinatari, di cui si dovrà misurare la volontà di
uscire dalla situazione di disagio, invece che sulle condizioni
sociali e i contesti di vita in cui sono immersi. I dispositivi di
workfare e le politiche attive ci parlano proprio di questo.  Un
esempio concreto e drammatico di questo cambio di prospettiva  sta in
alcune dichiarazioni in merito alla morte di David, dove è stato
evidente il tentativo di addossare la colpa ai genitori, ed in
particolare alla madre, in quanto, da una parte  povera e quindi
degenera, e dall'altra responsabile della morte perchè ha in passato
rifiutato l'aiuto dei servizi. Qui emerge l'altro problema, cioè che
tipo di bisogni vengono riconosciuti ai soggetti destinatari dei
servizi? In questo caso la possibilità di trovare risposta a quei
bisogni passava esclusivamente dall'accettazione di uno smembramento
del nucleo famigliare quando non addirittura dalla sottrazione dei
figli attraverso misure giudiziarie, in sostanza da una punizione.

Questi processi però non riguardano soltanto le politiche sociali ma
anche le politiche occupazionali e del lavoro, anche qui sempre più è
il singolo disoccupato che è responsabile della situazione di
disoccupazione, è la sua inadeguatezza alle richieste del mercato a
renderlo inoccupabile. Si enfatizza la responsabilità individuale
rispetto alla posizione personale occupata nel mercato del lavoro, e,
in questo modo, si produce uno scivolamento verso una gestione
microeconomica dell'offerta di lavoro. La disoccupazione passa
dell'essere un problema macroeconomico per assumere i contorni di una
lacuna personale, da affrontare mobilitando e aggiornando il proprio
“capitale umano”, attraverso corsi di formazione  e l'accettazione di
qualsiasi lavoro come contropartita per l'erogazione dei sussidi.

Infine un'ultima questione riguardo al processo di trasformazione
delle Asp e di privatizzazione dei servizi. L'aziendalizzazione e più
in generale i dispositivi di governace producono una riduzione della
visibilità pubblica riguardo le scelte che vengono fatte, gli
indirizzi e gli strumenti delle politiche. Questi processi decisionali
sono sempre più opachi, sottratti allo spazio pubblico, all'arena
politica, e quindi al conflitto. Quello che va rivendicato è anche,
banalmente, il diritto di voice.
In questo momento è necessario capire a fondo anche questo tipo di
dinamiche e di retoriche  per provare a contrastarle attraverso un
discorso che rimetta al centro la questione della giustizia sociale
come distribuzione di potere e non solo di beni e che eviti da una
parte la moralizzazione del cittadino e  dall'altra il trattarlo
esclusivamente come vittima bisognosa.

Alcuni dati sullo stato dell'arte:

LE ASP
Le Aziende Servizi Pubblici alle Persone (ASP) sono state istituite in
Emilia Romagna dalla Legge Regionale n.2 del 12 marzo 2003 (Norme per
la promozione della cittadinanza sociale e per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali), che ha trasformato
le IPAB (ex Opere Pie) in ASP, determinando l'avvio di un processo di
riforma, in senso aziendale, del sistema degli interventi sociali.
Le ASP, attuando un processo di aziendalizzazione, hanno il compito di
gestire i servizi che prima erano garantiti dale IPAB (soprattutto
residenze protette per anziani) ed assumere il ruolo di produzione ed
erogazione di eventuali ulteriori servizi socio-assistenziali e
socio-sanitari, nell’ambito e secondo le esigenze della pianificazione
locale, cosi come è definita dai Piani di zona (il cui ambito
territoriale coincide con quello del Distretto sanitario).
Le ASP possono caratterizzarsi anche come Azienda multiservizi
nell’ambito dello stesso settore di assistenza.
Per la città di Bologna, tutte le IPAB sono state accorpate in tre
ASP: la Giovanni XXIII che si occupa di anziani, la Irides che si
occupa di adolescenti ed handicap, la Poveri Vergognesi che, oltre
agli anziani (che gestiva in precedenza) si occupa di servizi per
l’immigrazione, disagio adulti, tossicodipendenze, gestione residenze
collettive (asili notturni, dormitori pubblici, centri di
accoglienza).
A ben vedere, servizi che prima erano in capo all’Assessorato alle
Politiche Sociali del Comune, che sono stati “appaltati” alle ASP
(attraverso contratti di servizio) che, a loro volta, in massima
parte. li subbappaltano alle coop sociali.
La presidenza e i consigli di amministrazione delle ASP avvengono per
nomina politica e, molto spesso, questi ruoli vengono coperti con
trombati ed “amici&compagni” da sistemare che non brillano certo per
capacità di gestione e di intrapresa.
Che le cause del disatro che si è prodotto nel welfare bolognese siano
derivanti in parte dai tagli governativi nazionali (e, a cascata, da
quelli locali) è acclarato, ma una buona parte delle ragioni sta anche
nella deleteria “riforma”  del trasferimento delle deleghe sociali ai
quartieri, voluta dalla Giunta Cofferati, e dalla gestione delle ASP:

IL “PRIVATO SOCIALE”
La monetarizzazione e la privatizzazione dei servizi sono andate
avanti in una logica mercatista. Attorno al tanto decantato principio
di sussidiarietà ha preso corpo la “svolta della grande alleanza”. Una
svolta basata sul dio mercato e sugli interessi economici, in cui le
Centrali Cooperative sono oramai indistinguibili dalla Compagnia delle
Opere.
Il rapporto tra enti pubblici e cooperative o aziende del cosiddetto
privato sociale, è ormai drogato dalle gare al massimo ribasso e dai
tempi lunghissimi dei pagamenti dei servizi già erogati. A pagarne le
conseguenze sono soprattutto gli operatori e le operatrici sociali,
persone che svolgono un ruolo fondamentale nell’assistenza alle fasce
più disagiate della popolazione: anziani, disabili, disagiati
psichici, tossicodipendenti, donne vittime di violenza, ragazzi
“difficili”, persone che abitano nelle strutture di accoglienza o nei
dormitori pubblici.
Al tempo stesso, i tagli al welfare vanno a colpire soprattutto quei
progetti rivolti al disagio sociale.

LE FONDAZIONI BANCARIE
Un altro aspetto che va assolutamente analizzato è il ruolo che
svolgono oggi le Fondazioni Bancarie, diventate veri e propri moderni
forzieri che condizionano le scelte dei governi dei territori.
Le fondazioni bancarie sono nate 20 anni fa come espediente tecnico
per privatizzare le banche pubbliche e le Casse di Risparmio e devono,
per legge, destinare le loro cospicue risorse e gli utili derivanti
dalla gestione del proprio patrimonio a iniziative culturali e ad
attività sociali del territorio. Si tratta di risorse che sono al di
fuori dei bilanci degli enti locali, ma che, rispetto ai tagli degli
ultimi anni, li condizionano fortemente.
Gli scopi istituzionali delle fondazioni sono: il perseguimento di
fini di utilità sociale (nei settori della ricerca scientifica,
dell’istruzione, dell’arte, della sanità, della conservazione e
valorizzazione dei beni culturali e ambientali, dell’assistenza alle
categorie sociali più deboli) e di promozione dello sviluppo
economico.
Oggi, le Fondazioni bancarie stanno giocando un ruolo sempre più
significativo nella nuova configurazione dello stato sociale,
contraddistinto dai mutati rapporti centro-periferia e
pubbico-privato, svolgendo funzioni che un tempo erano assegnate a
soggetti pubblici.
Sono diventate, quindi, dei centri rilevanti di potere e i partiti
sono in prima linea nelle nomine dei loro emissari nei consigli di
amministrazione, che si mischiano ai portavoce degli industriali e
delle grandi corporazioni commeciali.

I FONDI EUROPEI
Negli ultimi anni, oltre che nel settore della formazione, i fondi
europei hanno svolto un ruolo fondamentale per finanziare progetti a
indirizzo sociale. Se si va a leggere un bilancio di un Comune di
dimensioni medio-grandi si comprende quale sia la portata di questi
finanziamenti.
Nessuno disconosce l’importanza di questa che, gestita bene, sarebbe
un’opportunità, il fatto è che, concretamente, a prescindere dagli
intenti, ai soggetti che dovrebbero essere destinatari dei progetti,
molto spesso, non arrivano i benefici, perché tutto si ferma a uno
stadio precedente.
Nella realtà, i finanziamenti europei vengono utilizzati soprattutto
per foraggiare una pletora di personaggi che si aggirano attorno alle
stanze del potere politico. La captazione di queste somme di denaro
pubblico avviene attraverso la costituzione di un reticolo di società
organizzate secondo vere e proprie scatole cinesi, il più delle volte
miste pubblico-privato.
Chi lavora all’interno delle società che si aggiudicano i progetti
finanziati sono molto spesso persone indicate da coloro che, a monte,
governano e stabiliscono le condizioni per ottenere il finanziamento.
In diversi casi, si è scoperto che personaggi che, svolgendo ruoli
importanti nelle Regioni o in altre Istituzioni, avrebbero dovuto
avere il compito di controllare la realizzazione dei progetti,
partecipavano direttamente o indirettamente nelle società che dovevano
essere controllate.
Nelle società miste pubblico-privato, sono poi sempre più frequenti i
casi in cui, nella parte pubblica, si verifica una vera e propria
lottizzazione politica degli incarichi.
Questa modalità di gestione dei finanziamenti europei è ormai
sistemica, la casualità (ormai sempre più frequente) riguarda delle
vere e proprie truffe che vengono prepetrate ai danni dell’Unione
Europea, che si aggiungono a episodi di corruzione che sono ormai un
fenomeno congenito.

IL VOLONTARIATO COME TAPPABUCHI
Il cosiddetto terzo settore non ha più niente a che fare con il
volontariato e con la cittadinanza attiva. L’attuale “Forum del terzo
settore” rappresenta la congiunzione traversale tra la Compagnia delle
Opere, la Lega delle Cooperative e le Fondazioni bancarie.
Infine, c’è il ruolo marginale a cui è stato relegato il volontariato
(quello vero).
Le iniziative caritatevoli e filantropiche o di aiuto solidale sono
diventate sempre più fragili. Sempre più spesso sono relegate alla
funzione di tappare le falle di un sistema che fa acqua da tutte le
parti.
Per le persone (i tanto decantati utenti), tutto questo ha voluto dire
un decadimento della qualità dei servizi, che è andato avanti di pari
passo con l’aggravarsi delle condizioni lavorative e salariali dei
lavoratori del sociale.

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