[Forumlucca] CARTA : AGONIA DI UN GIORNALE - LEGGETE E FATE …

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Autore: Aldo Zanchetta
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To: sinistra per capannori staff, intergruppi, riflessionepolitica, forumvalleserchio, forumlucca, altravialucca
Oggetto: [Forumlucca] CARTA : AGONIA DI UN GIORNALE - LEGGETE E FATE LEGGERE - GRAZIE!
Cari amici e amiche



allego il testo dell'apertura dell'ultimo numero di Carta che sta andando
nelle edicole. Vi invito a comprarlo, perché è l'ultimo (salvo miracoli, che
talora accadono) e perché questo semplice atto è una boccata di ossigeno per
gli amici che da marzo resistono in redazione senza stipendio. Un gesto
semplice ma altamente significativo.



La volontà dei compagni di Carta è di non lasciare il campo e di cercare
altre strade per mantenere viva una voce non prezzolata in un campo
devastato come ormai è buona parte dell'informazione in Italia.



Come ho scritto poche settimane fa alla redazione, non tutto mi piaceva del
giornale, ma oggi mi sento impegnato a non far scomparire una delle ultime
voci veramente libere nel campo dell'informazione cartacea.



A novembre la redazione convocherà a Roma gli abbonati affezionati per
vedere se, come e attraverso quale affilatissimo crinale proseguire il
percorso.



Propongo di organizzare entro il 10 novembre una cena di solidarietà in
occasione della quale discutere le idee, i suggerimenti, le proposte su come
riconfigurare il periodico da portare a Roma a tale incontro.



Per la cena, in un luogo da definire a seconda del numero delle adesioni,
propongo un contributo di 15 euro e di qualcosa da condividere per non
affrontare costi che diminuiscano l'entrata. Chi è disponibile a essere
presente mi faccia sapere via mail entro il 31 ottobre (si possono anche
immaginare più cene, in luoghi diversi, per facilitare la partecipazione).



Aldo



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QUESTO CHE AVETE APPENA APERTO è l'ultimo numero di Carta ad andare in
edicola. Almeno per ora. Non avremmo voluto dirvelo così né dirvelo adesso.
Perché non avrebbe dovuto essere così, tantomeno ora. Come abbiamo scritto
la scorsa settimana, però, nella traversata del deserto che abbiamo
iniziato, non tutto dipende dall'ottimismo della nostra volontà.

Abbiamo resistito finora, faticosamente e grazie al vostro incoraggiamento,
perché speravamo che nella Legge di stabilità, quella che una volta con meno
ipocrisia si chiamava Finanziaria, potessero rientrare dalla porta i
finanziamenti all'editoria che Giulio «Mani di forbice» Tremonti ha fatto
uscire dalla finestra. I fondi non ci sono, anzi, quelli che ci sono, sono
drammaticamente inadeguati. Una beffa, oltre che un danno immediato e
concreto. I fondi che il governo ha deciso di lasciare all'editoria,
peraltro, non sono legati al diritto soggettivo che - come ormai sapete
perché lo abbiamo scritto tante volte - consentirebbe di scontare in banca l'anticipo
sui fondi e dunque avere la liquidità necessaria a rimettere in moto la
nostra cooperativa, che ha già fatto e continua a fare grossi sacrifici,
come aspettare lo stipendio da marzo.

Sappiamo che tanto il diritto quanto i fondi potrebbero tornare in ballo nel
famigerato «decreto milleproroghe» che il governo manderà alle camere in
dicembre. Doveva essere così anche l'anno scorso, e non è stato. Non
possiamo aspett

are dicembre, non abbiamo più soldi nemmeno per stampare. Per cui abbiamo
deciso di fare un gesto che, per noi, è drammatico: ritirarci dalle edicole.
È una decisione imposta ed è drammatica perché per noi l'edicola è sempre
stata un modo per segnalare, concretamente, la nostra sfida.

Siamo costretti ad annunciarvi che Carta dalla prossima settimana non sarà
in edicola. Non possiamo più stampare il giornale. Il governo non ha
ripristinato i fondi per l'editoria e questo non ci consente di programmare
la vita della cooperativa. Gli abbonati continueranno a ricevereil giornale.
È un passo necessario a inventare il futuro da al mercato editoriale,
distorto e concentrato quant'altri mai.

Ci ritiriamo dalle edicole, ma gli abbonati continueranno a ricevere un
settimanale almeno fino alla fine dell'anno.

Vogliamo farlo per lealtà nei loro confronti, anche se il settimanale non
sarà il Carta che avete conosciuto finora, e dobbiamo farlo per rientrare
nei parametri della legge sui finanziamenti all'editoria e puntare a
prendere anche il credito che abbiamo maturato nel corso del 2010. Sarebbe
irresponsabile se non lo facessimo, nonostante gli ulteriori sacrifici che
ciò comporterà. Messo al sicuro il credito del 2010, quel che accadrà nel
2011 è tutto da vedere. Al meglio, cade il governo e una nuova maggioranza
ripristina il diritto soggettivo, cioè ci restituisce l'ossigeno per un
minimo di programmazione aziendale e la lucidità per immaginare un progetto
editoriale adeguato al nuovo contesto sociale, politico e tecnologico.

Al peggio, la traversata del deserto durerà per un anno, fino a quando, a
fine 2011, sapremo quanti soldi dobbiamo incassare dal 2010. E saremo in
grado di articolare un nuovo progetto. Non staremo fermi, in questa
traversata. Per due motivi: abbiamo intenzione di ricostruire uno spazio di
comunicazione e politico a partire dal web.

Siamo consapevoli che il web, in Italia, e specialmente per l'informazione
indipendente, è molto indietro rispetto agli exploit statunitensi e agli
investimenti che alcuni grandi gruppi stanno facendo. Tuttavia, ci sembra
essenziale continuare a tenere vivo un esempio di comunicazione non
allineata al mercato e provare anzi a lanciare nuove sfide, all'altezza dei
tempi e della fame di una narrazione diversa da quella dominante, sia per i
temi sia per le forme, sganciate dal modello di informazione ereditato dall'epoca
precedente.

Questa fame per noi è tangibile. Lo si è visto anche a piazza San Giovanni,
il 16 ottobre, quando il nostro stand è stato affollato per molte ore dalle
domande dei lettori e dagli «in bocca al lupo». Lo si è visto nell'assemblea
alla Sapienza, il giorno dopo, quando ci siamo resi conto che il «disgelo»
tra movimenti e organizzazioni sociali di cui abbiamo parlato quasi un mese
fa sta effettivamente procedendo. Questo cammino ci porterà fino a Genova
nel luglio del 2011, dieci anni dopo le giornate in cui questo giornale ha
camminato pericolosamente insieme a centinaia di migliaia di persone. È il
secondo motivo per cui non staremo fermi, in mezzo al deserto.

C'è un'aria strana, in Italia, in queste ultime settimane. La politica
istituzionale agonizza come poche volte nella storia recente del paese; la
crisi sociale è diventata evidente anche a chi ha cercato in ogni modo di
negarla o di imbavagliarne le espressioni. Eppure la ricomposizione di una
qualche ipotesi di civiltà alternativa al berlusconismo in tutte le sue
forme, anche quelle «di sinistra», sembra ridursi, ancora una volta, a
sommatorie di partiti, ragionamenti astratti di alleanze parlamentari,
leader senza progetti e progetti senza leader. Questa è l'immagine che viene
fuori, se si rimanesse al racconto del paese che fanno i media «mainstream».
C'è molto di più, in realtà, da raccontare e da far emergere. E invece i
luoghi di comunicazione che hanno fatto di questo racconto la loro ragion d'essere
diventano sempre meno sicuri della propria esistenza. Vale per noi, come per
il manifesto, Liberazione e le decine di testate che saranno colpite
duramente dai tagli del governo.

La legge che aveva istituito il finanziamento pubblico per l'editoria
nasceva da una considerazione alta: il pluralismo dell'informazione e delle
idee è una cosa troppo seria per lasciarla al mercato. Il mercato, lo
sappiamo bene, è ben lontano dall'essere il luogo idealizzato dagli
economisti. Nella comunicazione, in Italia, oggi, è in corso una partita a
scacchi il cui risultato sarà, nel giro di un paio d'anni o poco più - salvo
novità eclatanti - riprorre l'oligopolio che esiste in tv anche nella carta
stampata [e possibilmente perfino sul web, almeno per i grandi numeri].

Questo discorso non trova asilo né sulle pagine né nelle trasmissioni di chi
si sente portatore unico del valore della libertà di espressione.

È facile disegnare i confini e i rischi di questo oligopolio. Basta
prendere, per esempio, gli editoriali della «grande» stampa il giorno dopo
il referendum a Pomigliano d'Arco. Nessuno tra i giornali che «fanno» l'opinione
pubblica ha scritto qualcosa a favore della Fiom e degli operai di
Pomigliano.

Le voci che li hanno difesi e hanno difeso il valore costituente di quella
resistenza al ricatto della Fiat erano tutte altrove, in quella stampa che
allo stato delle cose, rischia, nel giro di pochi mesi, di non essere più a
disposizione di chi volesse sentire un'idea diversa.

Né bastano, secondo noi, gli sfoghi di poche trasmissioni televisive che
cercano di fare uno sforzo di sincerità. La cornice del discorso non viene
messa in discussione e a confrontarsi sono sempre le stesse facce, gli
stessi nomi, le stesse idee. Da quasi vent'anni. Tutto quel che di nuovo
accade in Italia, dalle mobilitazioni dei migranti alle reti di consumi a
basso impatto ambientale, dalle lotte contro le grandi opere alle forme di
autorganizzazione del lavoro e della vita, rimane al di sotto del radar dell'informazione
bipartisan.

Sarà vieppiù così, se, passata questa fase di arsura, non troveremo il modo
di rilanciare un progetto di comunicazione capace di creare discorso e -
cosa forse più difficile - di darsi la possibilità economica di esistere.

C'è in questo un ritardo culturale in Italia. La stampa indipendente è
percepita come utile fin quando la grande stampa non si preoccupa od occupa
di un fenomeno. Facciamo i pesci pilota. Un ruolo per certi versi esaltante,
specialmente quando ci si addentra in acque sconosciute. Ed è bello
«mettersi a disposizione» di una storia, una lotta, un'esperienza che ha
voglia di raccontarsi ma non trova luoghi dove farlo. È bello come
giornalisti e come parte della società in movimento che, per noi, è il
migliore futuro possibile per questo paese malandato. Non c'è, però, nella
comunicazione, un investimento costante da parte delle società in movimento.
Certamente dipende anche dagli errori che abbiamo fatto in passato, da una
scarsa attenzione alle relazioni, dalla tendenza a essere, innanzi tutto con
noi stessi, rassicuranti.

Dipende anche, però, da una percezione diffusa: che, in qualche modo, la
stampa indipendente continuerà a esserci - in altre forme magari - o che,
data l'era digitale, non serva più avere dei «professionisti» del racconto.

Non è così, purtroppo. Anche la possibilità di comunicare senza subire i
ricatti degli inserzionisti pubblicitari, dei padroni o dei referenti
politici è un diritto da difendere e riconquistare ogni giorno, ogni
settimana. Perché l'esistenza non è garantita e la mancanza di quello spazio
si sentirà quando sarà più necessario, individualmente e collettivamente.
Dopo infinite discussioni, conteggi e riconteggi, proiezioni di costi e
riunioni infinite, non ci resta che fare i pesci- pilota ancora una volta.
Saremo i primi a uscire dalle edicole, a rendere visibile il silenzio, un
vuoto che sarà riempito dall'ennesimo calendario con la bellona del momento,
dall'ennesimo gadget che con l'informazione non c'entra nulla, dall'ennesima
eccezionale collezione di minerali o santini.

Abbiamo cercato e cercheremo ancora in futuro di creare un diverso tipo di
giornalismo. Un «congiornalismo» che fosse immerso nei fenomeni di cui
parla, rompendo la finzione della giusta distanza, necessaria a vedere,
misurare, giudicare, guidare. Abbiamo cercato di farlo perché un giornalismo
che ha abolito la distanza esiste già, in Italia, ed è quello embedded nei
meccanismi del potere. Ne ha mutuato abitudini, stili, idiosincrasie,
linguaggi, paure. È talmente vicino da confodersi con il potere su cui
dovrebbe vigilare in nome e per conto dei cittadini. Confusamente, questa
malattia degenerativa di gran parte dell'informazione italiana è percepita
da tutti noi, cittadini, lettori e spettatori prima di essere altro. Lo si
può vedere nel calo delle copie dei giornali, per esempio. O in quella
sensazione di straniamento che si prova quando si legge, si ascolta o si
vede un paese alieno a ciò che troviamo fuori

Bonifica utilizzando il codice IBAN [causale sostengo carta]

La campagna di sostegno a Carta continua. Graziea tutti i lettori che hanno
subito risposto al nostro appello con generositàe affetto. Come è stato in
tutti questi anni, il futuro della nostra impresa di comunicazione sociale
ha sensosolo se lo costruiamo insieme dal portone di casa.

Vogliamo ripartire da questo spaesamento, dalla percezione di un caos che
sembra avere in sé i semi di

un altro ordine. Come e quando ripartire cercheremo di capirlo assieme, tra
noi e con voi tutti, appena

sarà più chiaro cosa ci riserva il futuro. La certezza che abbiamo è che
lettori, occasionali e affezionati, e abbonati, amici e compagni di strada,
gli «in bocca al lupo» di piazza San Giovanni, sono il nostro «capitale» di
relazioni, idee, spunti, critiche, suggerimenti, visioni del presente e del
futuro. Spinti da un vento impetuoso, ci prepariamo al secondo passo nel
deserto. Lasceremo tracce.



Gianni Belloni, Marco Calabria, Gianluca Carmosino, Cinzia Cherubini, Sarah
Di Nella, Enzo Mangini, Matteo Micalella, Rosa Mordenti, Giuliano Santoro,
Gabriele Savona, Lorenzo Sansonetti, Antonella Tancredi