Autore: xDxD.vs.xDxD Data: To: List on artistic activism and net culture, hackmeeting Oggetto: [Hackmeeting] architettura, innovazione e qualche sconfitta
Ho un problema.
Oggi siamo andati all'Acquario Romano, la sede dell'Ordine degli Architetti
di Roma, alla presentazione/lancio di CitiVision Mag, un freepress di
architettura molto bello, con un occhio particolarmente attento ai progetti
degli architetti più giovani e con il preciso e dichiarato intento di
tentare di alzare il livello della discussione sull'architettura
contemporanea a Roma, e di trasformarla in un dialogo più internazionale.
Se da un lato ammiro molto l'impostazione del progetto e l'atteggiamento con
cui gli organizzatori lo pianificano ed eseguono, dall'altro sono rimasto un
po' atterrito dalla lecture dell'invitato principale.
Non ho nulla contro di lui, ovviamente: esprime dei concetti interessanti,
seppur molto centrati sulla forma. E l'inizio della sua presentazione è
stato anche molto interessante, con le sue analisi sul linguaggio degli
spazi pubblici e privati.
E' solo che pian pianino, durante la conferenza, veniva insinuato nella
discussione un assunto che, per quel che penso e sento, non è per nulla
scontato. Piano piano, tra le descrizioni di un progetto e l'altro, emergeva
una tensione verso il futuro, verso l'innovazione, verso "l'opportunità" che
era incentrata su immaginari utopici e, a tratti, degni dei più sfarzosi
faraoni dell'antico Egitto.
Venivano presentati progetti grandiosi, con cantieri sterminati che duravano
5-6 anni, con centinaia di camion che trasportavano "robe" gigantesche. Era
inevitabile scivolare verso visioni di schiavi che tirano enormi blocchi di
pietra per costruire piramidi.
Questi grandi progetti, a New York, in Germania, a Valencia e in tanti altri
posti, venivano presentati candidamente come le dimensioni più avanzate
della ricerca contemporanea, come le utopie che, creando meraviglia,
liberando l'immaginazione e "usando anche la dimensione di gioco
dell'Architettura", potevano modellare gli immaginari, creare visioni sul
futuro e, quindi, opportunità.
Ma davanti agli occhi c'era una persona che presentava fiero delle immagini
di cantieri enormi, con centinaia di migliaia di pezzi di impalcatura tirati
su per costruire curve azzardate fatte di dozzine di strati di materiali
differenti, che contrattava tra istituzioni e corporation globali del
cemento, dell'acciaio, del legno per costruire cose enormi in grado di "far
fare una passeggiata suggestiva in cima alla città, di mangiare in un buon
ristorante con una vista incredibile, di creare delle zone coperte e di
ombra - presupposto fondamentale per la fruizione dello spazio pubblico -,
creando tre livelli di utilizzo e interpretazione del territorio". (cito a
memoria e in ordine sparso: mi scuserà l'architetto se sbaglio qalcosa, e si
senta pure libero di correggere, ovviamente)
E, oltre ogni "ministero dell'amore" di orwell, venivano anche decantate le
caratteristiche di ecologia e sostenibilità delle produzioni
architettoniche.
Ora: lo so. Le utopie *possono* essere utilizzate per creare immaginari, per
stimolare la fantasia, per abilitare la "fuga" che spesso permette di avere
nuove idee. La meraviglia, la suggestione, l'"eccezionale" serve. Perchè se
abito in un cubo di pietra e ne esco solo per andare a lavorare in un altro
cubo di pietra, muoio. E quindi le cose eccezionali hanno un loro uso:
possono essere utilizzare per riinventare la realtà, creando visioni e spazi
di espansione.
Ma proprio non riesco ad identificare queste cose faraoniche con una via
praticabile. Mi sembrano più oggetti del potere. Le suggestioni che mi fanno
venire in mente sono quelle che rigurdano come l'architetto, in quel
momento, si debba sentire una specie di semi-dio, con tutti quei camion,
quei materiali, quelle enormi travi d'acciaio che si innalzano al cielo,
proprio come le ha disegnate, o come le ha fatte disegnare ai suoi
collaboratori, comunicando loro la sua visione. Mi viene in mente quanto
costino questi oggetti. Quanto siano ogegtto di potere queste enormi cifre.
Quanto siano oggetto di contrattazione tra professionisti, istituzioni,
costruttori, politici, sindacati. E quanto siano belli nel disegno, ma di
come sia poi ben più misera la realtà, fatta di lavoratori in tuta arancione
e casco giallo, di stagisti che lavorano gratis, di poveracci con carta di
credito che provano a rimorchiare portando veline a mangiare aragosta in
cima ad un blob enorme a forma di fungo, e di come siamo cambiati poco nelle
nostre aspirazioni.
Ecco: superuomini, in grado di avere potere, che si esprime con questi
enormi "cosi".
Non che non siano belli o interessanti, ripeto. Sono interessanti come usano
il software, come usano i nuovi materiali, come riescano a rendere reali
cose che prima non c'erano e possibili cose che si immaginano dopo aver
visto il "coso".
Non mi sembra un "dibattito contemporaneo", questo. Non mi sembra, perchè ci
sono cose più fondamentali nel contemporaneo, cose che hanno più la
caratteristica di essere "nodi". E riguardano probabilmente maggiormente
l'ambiente, il lavoro, il debito, e l'identificazione di modelli che creino
un po' di sostenibilità e che, con tutta probabilità, non sono grandi come
quei "cosi", ma sono più piccoli, autonomi, mobili, "attorno" alla persona,
empatici e temporanei. Mentre invece queste utopie sono proprio il
contrario.
La cosa che mi colpisce di più, oltretutto, è collegata al linguaggio. Che,
come al solito, è "al contrario". Ma a questo siamo abituati, no?
"Innovazione" vuol dire mantenere lo stato delle cose, "futuro" vuol dire
passato, "sostenibilità ed ecologia" vuol dire fare un cantiere gigantesco
che dura 6 anni per produrre un mostro gigantesco con un pannellino solare
sopra, "dialogo" vuol dire avere amici nei posti giusti per poter
contrattare committenze ciclopiche, "cambiamento" vuol dire solo velocizzare
l'impresa diminuendo la burocrazia.
La cosa più violenta la subiscono, come al solito, gli studenti, cui vengono
inculcati questi immaginari, come simbolo del successo.
Salto in avanti: dall'altra parte, all'Opificio Telecom, c'era un incontro
sul "futuro di internet". Si parlava di App, le applicazioni per i
dispositivi mobili che stanno trasformando così rapidamente il mercato di
come si usa internet ed i suoi servizi.
Le App sono molto belle, divertenti, accessibili e usabili. Hanno delle
belle interfacce. Sono divertenti, emozionanti, eccetera, eccetera,
eccetera.
Ma hanno un enorme problema: eliminano la trasparenza dei protocolli di
internet, mettendo tutto in mano al service provider, sia dal punto di vista
di chi gestisce il marketplace delle applicazioni, sia da chi le
applicazioni le fa e commercializza.
Vuoi il servizio? Scaricati l'applicazione e fregatene di come funziona, di
come gestisco le informazioni, di come gestisco la sicurezza, di quanto ti
spio te e i tuoi amici. Non c'è standard. Se usi 10 app vuol dire che, in un
modo o nell'altro, hai firmato 10 contratti su come gestire i tuoi dati,
tutti differenti, tutti scritti in linguaggi che non capisci, tutti testi
che non leggerai mai. E poi: fine della libertà di navigazione e di uso
delle risorse di internet, fine degli standard e protocolli aperti: con le
app torna tutto in mano ai service provider. Altro che innovazione: torniamo
ai deliri di America Online.
Questo grande incontro è stato presentato nell'ambito dei programmi di
telecom italia sulle culture digitali. In dei luoghi quindi in cui si parla
di innovazione e di opportunità.
Se ci fate caso sia questo che quello prima son due problemi
"architettonici". Di tipo differente. Di due architetture che si
compenetrano, nella città, tra cemento e informazioni.
Proprio mentre Bernabè, da un lato, annuncia che la super-rete wireless
Telecom se la farà da sola, e deciderà da sola come/quando/cosa farà come
servizi, perchè "è sua responsabilità".
E mentre continua la buffonata (che però funziona: attenzione! anche se non
lo dovesse vincere, il progetto ha creato quel che doveva creare...) del
Nobel per la Pace ad Internet.
Proprio mentre continua il fiorire di iniziative di origine "corporate"
sull'imprenditorialità alla californiana, con tutti gli immaginari che ne
conseguono e senza le delicate alchimie che lì la stanno facendo funzionare
(per ora), con tutti gli incubatori di impresa che ne conseguono (qui).
Altra cosa in comune: tutte queste iniziative sono iper-frequentate. In
qualche modo stanno tutti "a caccia". Vogliono inventare la prossima
killer-app, il prossimo social network. Proprio come vogliono diventare i
prossimi archi-star.
Senza pensare, però, che quelli che raggiungono quei ruoli sono ben lontani
dall'utopia, ed agiscono non nel modo "ingenuo", puro ed accessibile che ci
mostrano con la "visione", ma con ben più rodate abilità contrattatorie, a
suon di bilanci, investimenti incrociati, accordi fatti al ristorante,
strette di mano, e compromessi.
Questo sfasamento del linguaggio concorre a creare la scomparsa della
rivolta, della reazione e, quindi, della reale innovazione e trasformazione.
In definitiva: cos'è l'innovazione, il cambiamento, la rivolta, la
trasformazione e la reinvenzione quando a definirne estetiche, modalità,
opportunità, ambizioni ed immaginari è un costruttore, una corporation o un
venture capitalist?