[NuovoLab] Mano libera in fabbrica

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著者: Giovanna Caviglione
日付:  
To: forumgenova
題目: [NuovoLab] Mano libera in fabbrica

15 giugno 2010

Repubblica online - Affari & finanza

Economia

L'ANALISI

Mano libera in fabbrica

di CARLO CLERICETTI




                 "Ho fatto un sogno". Nessun imprenditore italiano ha
ripetuto la frase dello storico discorso di Martin Luther King sulla fine
della discriminazione razziale, ma si può star certi che la maggior parte
l'ha pensata. Ed è un sogno molto diverso da quello: il sogno di avere mano
libera in fabbrica, sull'organizzazione del lavoro come sulle retribuzioni,
senza avere il problema di subire scioperi come reazione. Il sogno di
ottenere tutto questo non più con l'aiuto della polizia o dell'esercito,
come si faceva nell'800, ma con la firma delle organizzazioni dei
lavoratori. Formalmente non con una imposizione, dunque, ma offrendo una
possibilità di scelta.


Certo, nel caso di Pomigliano l'alternativa è un po' asimmetrica: o si
accettano le condizioni poste dall'azienda o la fabbrica chiude. Chiedersi
se si proponga veramente una scelta sarebbe una domanda retorica. Ed è
altamente probabile che anche il referendum tra i lavoratori, se si farà,
scelga di mangiare quella minestra piuttosto che buttarsi dalla finestra.


Quella minestra, però, contiene ingredienti indigeribili. Non si tratta
della fine della concezione del sindacato come "antagonista", come chiosa il
candido segretario della Uil Luigi Angeletti. Tra quegli ingredienti c'è di
fatto l'addio al contratto nazionale (già derogabile in base all'accordo
sulle nuove relazioni sindacali, che la Cgil non ha firmato) e una rinuncia
al diritto di sciopero, che la Costituzione garantisce addirittura come
diritto individuale. C'è, in altre parole, tutto ciò che serve a far
diventare irrilevante il sindacato, a guidarlo verso un sicuro declino,
ancora una volta sul modello degli Stati Uniti, dove ormai meno del 10% dei
lavoratori è iscritto a un sindacato.

Sono in molti a ritenere che questo non sia un problema, ma un obiettivo
desiderabile. Ma a dire che sbagliano non è qualche sorpassata ideologia, ma
la stessa storia dello sviluppo. Se si allunga lo sguardo a tutta la
prospettiva dello sviluppo economico non si può non ammettere che è
cresciuto di pari passo con il miglioramento delle condizioni dei
lavoratori. E piuttosto che avanzare il dilemma dell'uovo e della gallina
bisognerebbe chiedersi se l'allargamento del benessere sociale non sia un
qualcosa che è appunto necessario al buon funzionamento dell'economia, se un
maggiore equilibrio nella distribuzione del reddito non sia una condizione
che permette una crescita equilibrata, magari con meno accelerazioni, ma
anche senza crisi drammatiche come quella degli anni '30 e come quella
tuttora in atto.

Fino agli anni '70 del secolo scorso il "mega-trend" è stato di una maggiore
diffusione del benessere, dagli anni '80 è invece iniziata una tendenza alla
polarizzazione che con la globalizzazione si è accentuata, perché non è la
prima volta, e non sarà l'ultima, che viene posta l'alternativa su cui si
deve decidere a Pomigliano. Ma dagli anni '80 le crisi  -  non solo
finanziarie  -  si sono succedute a ritmo sempre più accelerato, fino a
questa che ha coinvolto tutto il mondo. Per ognuna di queste crisi, presa
singolarmente, si possono trovare spiegazioni specifiche, ma, se appunto si
allunga lo sguardo, non è insensato chiedersi se non ci sia alla base uno
stesso problema di fondo.

Secondo la "teoria del caos" un qualsiasi avvenimento, per quanto
apparentemente insignificante, può provocare una serie di reazioni
concatenate che possono sfociare in eventi di livello planetario. Non c'è
bisogno che per il caso Pomigliano si paventi qualcosa del genere. Ma di
certo può essere un altro passo che magari fa bene all'impresa nel breve
periodo, ma male all'economia nel lungo termine.