L’ora del monetarismo schizofrenico

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Aihe: L’ora del monetarismo schizofrenico
“Non chiedere – recita un adagio – perché rischi di essere esaudito”.

Tutti abbiamo chiesto un’Europa più attiva, più somigliante a quel soggetto politico-economico continentale che è precondizione di ogni efficace iniziativa nei confronti della crisi.
E l’Europa, spinta dalla concreta minaccia della dissoluzione della sua moneta, ha finalmente agito: la costituzione di un fondo europeo (ancorché intestato ai governi nazionali) per evitare il default degli Stati membri, e soprattutto la decisione della Bce di acquistare titoli pubblici e quindi di “creare” moneta (ancorché mitigata da una improbabile clausola di “sterilizzazione”: per ogni cento euro immessi nel circuito monetario, altri cento dovrebbero esserne drenati) sono un vero e proprio mutamento della forma dell’intervento comunitario.
Ma, ahinoi, non della sua sostanza.
Anzi, a ben considerare le cose, quel che oggi accade rischia di peggiorare la situazione per il convergere di tre elementi: la persistente ideologia monetarista delle élite europee, l’interpretazione tedesca della natura dell’Unione e il nuovo possibile ruolo della destra.

La filosofia monetarista diviene tanto più cieca quanto più si autocontraddice.
Si può ridurre il debito pubblico tagliando le spese sociali, come ha fatto ogni paese monetarista fino alla crisi del 2008: questo può non piacere, ma ha una sua logica.
Ma aumentare il debito e contemporaneamente tagliare le spese, come vuol ora fare l’Europa, non si può, a meno di scegliere l’irresponsabilità come stile di governo.
E non si può sia perché per questa via non si intravvede l’ombra d’una ripresa economica, sia perché le dimensioni del debito pubblico sono e saranno tali da non poter essere affrontate, volendo agire solo sul fronte delle spese, se non con un azzeramento dei diritti sociali europei.
Eppure è proprio questa la via annunciata dalle classi dirigenti continentali: un monetarismo schizofrenico che aumenta il debito senza con questo finanziare un piano di riconversione ambientale e sociale della produzione, senza rilanciare la domanda e l’economia reale; un chiaro ed esplicito trasferimento di risorse dai ceti popolari al grande capitale finanziario.

Ma c’è di peggio: non ci attende solo una recrudescenza delle politiche antipopolari, ma anche un approfondimento della dipendenza dei poteri nazionali da quelli comunitari, dove il problema non sta nel carattere sovranazionale di questi ultimi, ma nel loro carattere oligarchico.
Da tempo era chiaro che la Germania avrebbe accettato di sostenere gli Stati che rischiano la bancarotta, e quindi di dare implicitamente vita a comuni scelte di bilancio, solo in cambio di significative modifiche delle istituzioni (e non solo delle politiche) degli altri Paesi, tali da condurre ad un controllo comunitario dei bilanci stessi.

Le recenti scelte interventiste comporteranno dunque assai presto, come contropartita, che i bilanci degli Stati, di fatto o di diritto, veranno vagliati prima dagli organi comunitari e solo dopo dai Parlamenti nazionali.
Il che significa che le scelte di bilancio saranno rese in prima istanza impermeabili alle pressioni dell’opinione pubblica, delle reti di movimento e delle lotte di classe perché queste continuano, nonostante i molti tentativi in senso opposto, ad avere una dimensione soprattutto nazionale.

Infine, si può ridacchiare o fare spallucce di fronte all’ennesima boutade sul Berlusconi che, come si fa tra vecchi amici, con una telefonata appiana i dissidi tra i leader europei e “trova la quadra”.
Ma l’ovvio fastidio nei confronti del provincialismo del Cavaliere non deve nascondere il fatto che nella nuova Europa interventista la destra è destinata a trovarsi molto più a suo agio della sinistra liberista.
Non solo perché ha la ventura di essere proprio adesso al governo di moltissimi Paesi europei.
Ma soprattutto perché l’ideologia dell’interventismo privatistico (ossia: protezione statale dell’arricchimento privato) tipica della destra attuale ed in particolare di quella italiana è più “protettiva” e realistica, più attrezzata (almeno retoricamente) alla gestione della crisi di quanto non lo siano lo stanco e ormai improbabile liberismo dei “socialisti” (!) europei e la colpevole afasia dei sindacati continentali.
E’ per questo che l’abituale distinzione tra una sinistra incondizionatamente europeista ed una destra tendenzialmente nazionalista è destinata probabilmente ad appannarsi, lasciando la sinistra liberista orfana del suo ultimo, pur ambiguo e traballante, punto di forza: ossia l’essere detentrice della “interpretazione autentica” del processo di unificazione europeo.

Insomma: la risposta reazionaria alla crisi, che consiste nel salvare con le risorse pubbliche quegli stessi capitali che sono responsabili dello sfacelo e poi nel far pagare il conto ai lavoratori, farà sentire sempre di più il suo peso in Europa ed in Italia, e la sinistra liberista sembra per ora completamente schierata con questa “soluzione”.
Una vera sinistra potrà rinascere solo se, riconducendo il liberismo al suo giusto e limitato ruolo di politica temporanea e settoriale, sarà capace di rifondare l’Europa camminando su sentieri decisamente diversi; di guardare al debito pubblico senza gli occhiali monetaristi, e dunque di considerarlo non solo come un costo; di finanziarlo attingendo anche a quella ricchezza privata che gli fa da contraltare; di proteggerlo dalla speculazione imponendo (e l’Unione europea può farlo) la limitazione, il controllo e la tassazione dei movimenti a breve termine del capitale finanziario. Senza una simile prospettiva, senza una chiara presa di posizione su questi punti, ogni inziativa politica a sinistra, ogni alleanza ed ogni coalizione, per qualunque scopo siano costruite, non potranno far altro che accettare i dettami del monetarismo schizofrenico, e quindi lavorare alacremente alla propria ennesima, sonora sconfitta.

www.liberazione.it 14.5.2010
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TAGLIAMO IL SISTEMA

Nelle prossime settimane si aprirà una potente campagna mediatica che, oltre a far scomparire le responsabilità della crisi, tenterà di ridurre la spesa pubblica assestando un altro colpo alle condizioni di vita dei lavoratori.
Se non vogliamo far vincere ancora "mano lesta", cioè il partito di coloro che nonostante il tragico fallimento del neoliberismo continuano a proporre le stesse ricette, dovremmo iniziare a fare proposte efficaci e immediatamente comprensibili.
Partendo, ad esempio, dalla grande opportunità offerta dalla vicenda della protezione civile.
Diego Anemone, un modesto e giovane uomo d'affari, aveva nel granaio così imponenti provviste economiche da potersi permettere di pagare un milione di euro per aiutare ad acquistare casa ad un solo ministro.
Stando alle anticipazioni giudiziarie, c'è una fila interminabile di uomini politici o alti dirigenti statali che non disdegnavano concreti favori da Anemone: ristrutturazioni di case, manutenzioni, fornitura di mobili.
Tutti soldi anticipati dall'imprenditore ma che rientravano nel suo portafogli con giganteschi interessi attraverso l'affidamento di opere pubbliche.
Ricchezze che venivano alimentate da una spesa pubblica senza controllo.
Dicono le indagini in corso che il solo Angelo Balducci pretendeva il 10% dell'importo dei lavori.
Mettiamoci gli altri soggetti tecnici, dai direttori dei lavori ai collaudatori amministrativi e tecnici e arriviamo a somme da capogiro.
La Corte dei Conti ha stimato in oltre 60 miliardi di euro l'ammontare dei soldi che vengono sottratti dalle casse dello Stato attraverso il sistema della corruzione.
Ad ogni cittadino italiano vengono sottratti mille euro all'anno, una impressionante tassa aggiuntiva occulta.
A metterci le mani nelle tasche non è soltanto la cricca. C'è il sistema delle grandi opere, a cominciare dal Ponte sullo Stretto che ha già fatto guadagnare ricche prebende ai soliti noti. C'è il buco nero dell'Anas.
C'è l'alta velocità ferroviaria, costata alle casse dello stato 51 miliardi di euro che sono andati ad ingrossare i bilanci di non più di venti grandi imprese nazionali.
Ma di questo, ovviamente, la severissima Confindustria non parla: preferisce accanirsi contro ogni spesa a favore dei lavoratori e non ha interesse a mutare questo indecente stato delle cose.
Uno dei centri vitali dello stato, quello della spesa per le opere pubbliche, è sequestrato da una struttura di potere di uomini politici, di tecnici compiacenti e di imprese che spesso controllano i grandi mezzi di informazione.
Tagliando questo sistema malavitoso un comune di duemila abitanti potrebbe avere un ritorno di 2 milioni all'anno. Una cifra utile a interrompere la spirale degli ultimi anni in cui i comuni per fare cassa sono stati istigati a vendere beni pubblici o a incrementare la realizzazione di nuovi inutili quartieri.
Con quei soldi si potrebbero mettere in sicurezza le scuole, curare i parchi, i beni culturali o lasciare aperti i pochi servizi sociali ancora esistenti.
Il comune di Roma avrebbe in dote quasi tre miliardi all'anno, molto di più dei 500 milioni stanziati dal governo con grandi squilli di tromba.
Mettere fine a un sistema perverso che fa affluire miliardi a pochi speculatori e ad un sistema politico marcio è un modo efficace per evitare un ulteriore taglio dello stato sociale.
Ma la sinistra è muta, incapace di incalzare su un terreno estremamente favorevole.
Per tornare ad essere credibili basterebbe chiedere che il controllo della spesa per le opere pubbliche e per la sanità sia affidato a galantuomini estranei alla politica e con il conseguente taglio di spesa evitare ogni altra macelleria sociale.

www.ilmanifesto.it

14.5.2010

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