ciao a tutte-i. il sito inGenere ha avviato un dibattito sulla prostituzione, a cui ho contribuito.
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ciao ciao
giulia
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prostituzione come lavoro
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La prostituzione come lavoro
di Giulia
Garofalo
La questione della prostituzione e del
lavoro sessuale provoca grandi passioni e conflitti in chi ha a cuore la giustizia sociale. Per chi non è disposto ad accettare semplificazioni
del tipo "la prostituzione è violenza", o "la prostituzione è un lavoro
come un altro", non è facile avere direzioni per orientarsi su cosa
pensare e perché. Il campo della prostituzione è caratterizzato da una
fortissima cristallizzazione di potere, si pensi per esempio al fatto
che, mentre qui si ragiona, chi vende sesso è per lo più esclusa-o da
ogni dibattito sull’industria in cui, bene o male, lavora, e vive una
vita da criminale o semi tale. In questa situazione, per produrre
conoscenza che sia diversa dagli stereotipi in circolazione, chi studia i fenomeni sociali ed economici deve necessariamente procedere con
cautela. Operazione questa un po’ noiosa per chi di noi è abituato ad
occuparsi di policies, e sicuramente faticosa, perché, come dice Daniela Danna nel suo contributo a questo dibattito, i nostri "investimenti" (materiali in senso
ampio) nella prostituzione sono spesso parecchio dolorosi, come donne,
ma anche, per alcune-i, come persone "etnicizzate", cioè subordinate
lungo una linea di appartenenza etnica, razziale, nazionale o religiosa, o come persone queer (gay, lesbiche, bisessuali, transgender).
Dunque, al di là della scelta o non scelta, della violenza o non
violenza individuali, delle condizioni di lavoro che, nonostante alcuni
insistano a dire il contrario, possono cambiare (e devono essere
cambiate!) di molto all’interno dell’industria del sesso (vedi, per
esempio, Bernstein 2009), che cosa si può dire sul sesso commerciale che sia specifico eppure generalizzabile? Sulla base della ricerca di PhD
che ho condotto fra il 2004 e il 2009 fra i movimenti di sex workers in
Europa(1) , si scopre che possono essere molto utili in questo senso le
domande che si pone chi vende sesso ed è persona politicizzata:
In che cosa il lavoro sessuale differisce, è meglio o peggio, del lavoro
che faccio in un supermercato, o in un ospedale? del lavoro domestico o
di cura che faccio per la mia famiglia? del sesso che faccio con i miei
amanti o con mio marito?
Perché le-i sex workers sono per lo più
donne, o queers, o persone etnicizzate, che servono uomini o persone più "bianche" o più etero di loro, e perché, quando così non è, non
sembrano essere stigmatizzate-i nello stesso modo?
Perché e quando
alcune-i sex workers si dicono orgogliose-i di ciò che fanno?
Perché
le-i sex workers sono così sistematicamente stigmatizzate-i nonostante
siano fra loro così diverse-i, in particolare per classe
socio-economica, luogo di lavoro, eccetera?
Le risposte esistenti all’interno dei gruppi autorganizzati di
sex workers sono varie, e spesso restano mal articolate dal punto di
vista teorico in mix fatti ad hoc e tendenzialmente piuttosto
neo-liberali, anche perché i riferimenti teorici che vengono in aiuto
scarseggiano. La difficoltà di combinare a livello teorico sesso e
lavoro rimane un grande ostacolo. Chi teorizza il sesso è per lo più
incapace di trattare di lavoro, si pensi a Judith Butler o Michel
Foucault, che per altro hanno sistematicamente ignorato il sesso
commerciale, e viceversa chi teorizza il lavoro non sa come teorizzare
il sesso, si pensi al soffocamento concettuale che provoca pensare al
sesso come un bene - o male - di consumo, come spesso si fa in economia. Un’importante eccezione rappresenta il lavoro di Paola Tabet (1989,
2004), antropologa femminista materialista che per prima ha pienamente
analizzato il sesso come uno dei lavori "delle donne", insieme al lavoro domestico, riproduttivo, di sostegno psicologico, e così via. Questo
non significa, è bene precisare, che il sesso possa, in certe
circostanze da indagare, non essere lavoro, o che il lavoro non possa
essere piacevole, o creativo, o resistente. Detto questo, le domande
poste dalle-dai sex workers attiviste-i sono a mio avviso un ottimo
fondamento da cui ripartire per uscire dalla confusione che la
prostituzione provoca, ed elaborare politiche di largo respiro.
Il fatto fondamentale, ci dicono le-gli attiviste-i, è che al
lavoro sessuale è associato uno stigma particolare: isolamento,
violenza, vergogna, perdita del permesso di soggiorno per chi ne ha
bisogno, impossibilità di farsi una famiglia, di avere il sostegno delle autorità, di avere una voce pubblica, di avere pensione o assicurazioni sanitarie, sono esperienze fin troppo frequenti per le-i sex workers.
Il punto è: come analizzare questa situazione? Come modificarla? Chi ne
trae vantaggio? Quello che le-gli attiviste-i ci dicono è che lo stigma
in realtà è legato proprio al potenziale di resistenza che esiste(rebbe) nelle pratiche di prostituzione (se non fossero stigmatizzate) rispetto ai conflitti sociali che si giocano intorno al lavoro contenuto nel
sesso (sex labour). Infatti, alcune-i dicono, il lavoro sessuale (sex
work), potenzialmente, può permettere alle "classi" che lo praticano,
cioè donne, queers, persone etnicizzate, di aumentare la propria
autonomia, economica, ma anche di movimento, di vita, rispetto alle
‘classi’ a cui sono subordinate, cioè gli uomini e le persone più
bianche e/o più etero (i “normali”). Chiarificanti possono essere in
questo senso queste citazioni di due attiviste-i:
Ovunque
andavo, ho sempre avuto la netta sensazione che ciò che i maschi
volevano in ogni caso era scoparti, quindi ho pensato perché non farsi
pagare invece che sentirsi molestata?
(Teresa, comunicazione
personale, Londra, 2007)
Come ragazzo marocchino arrivato in
Francia, sarei dovuto diventare un delinquente di strada. Lavorando come prostituto almeno evito di distruggermi, e in più faccio i soldi sugli
uomini francesi che si fanno i viaggi ch’io sia davvero un gangster!
(Adam, comunicazione personale, Bruxelles, 2005, trad. mia )
Da altre-i attiviste-i poi, il sesso commerciale è visto come una
pratica che, potenzialmente, può essere socialmente creativa e perciò,
ancora una volta, viene particolarmente stigmatizzata. Rispetto ad altri incontri con persone "normali", specialmente nel sesso non pagato, essa può diventare uno spazio di incontri diversi e interessanti. Forti in
questo senso sono le parole della famosa poetessa e prostituta svizzera
Grisélidis Réal:
La Prostituzione è un’ Arte, un Umanesimo e una Scienza. (…) Il
corpo umano abitato dall’anima è uno strumento musicale, la sessualità
il suo archetto. Con delicatezza e violenza, vibra, e raggiunge picchi
di voluttà ed estasi. La sola Prostituzione autentica è quella delle
grandi artiste tecniche e perfezioniste che praticano quest’artigianato
particolare con intelligenza, rispetto, immaginazione, cuore, esperienza e volontariamente, per una sorta di vocazione innata: vere
professioniste, coscienti del loro potere e dei loro limiti, che sanno
mettersi nella pelle dell’altro, scoprire che cosa si aspetta, la sua
angoscia, il suo desiderio, e come liberarlo da questi, senza provocare
danno né per loro stesse, né per lui.
(Réal, 2005b, 8, trad. mia )
Questi messaggi che le-gli attiviste-i ci mandano, è chiaro,
assumono il proprio senso data la realtà di subordinazione e dipendenza
delle donne, e più in generale degli "anormali", e dato il carico di
responsabilità sproporzionato che queste-i portano non solo nella sfera
del sesso ma anche più in generale nella sfera interattiva che è così
importante nella costituzione dell’identità, sia essa stigmatizzata o
normale. Cosa fondamentale, le-gli attiviste-i entrano nel merito di
come promuovere le pratiche di resistenza che effettivamente, e
nonostante il forte stigma, esistono nell’industria del sesso: per
esempio ci parlano dell’importanza di poter dire no a (exit) qualunque
pratica sessuale, a qualunque cliente, e di poter stabilire le "regole
del gioco". E chiedono che si pensi ad interventi legislativi,
culturali, politici, che rafforzino il potere relativo di chi lavora: la sicurezza, il controllo, la salute, la pensione, la mobilità, la
creatività, invece di ridurlo come si fa con tutte le forme di
criminalizzazione, sia essa delle-i migranti, dei clienti, o
dell’industria tutta (vedi il "Manifesto delle-i sex workers in
Europa"(2) e la "Dichiarazione dei diritti delle-dei sex workers in
Europa" ). Infine ci impongono di chiederci chi, anche fra le donne,
tragga vantaggio, e che vantaggio miope sia, dal fatto che le-i sex
workers vedano diminuire il proprio potere relativo.
Note
(1) ‘The Political Economy of Sex Work in Europe’, University of East London, School of Social Sciences (Novembre 2009). La ricerca si è
basata, tra l’altro, su anni di osservazione partecipante come attivista dell’International Union of Sex Workers, di x:talk (2004-2008), dell’International Committee on the
Rights of Sex Workers in Europe (2003-2007), di cui facevano e
fanno parte, in Italia, anche il Comitato per i diritti civili delle prostitute e il MIT (Movimento Identità
Transessuale)
(2) Scritti in inglese, e tradotti in molte lingue, si trovano su www.sexworkeurope.org.
Bibliografia
Bernstein, Elizabeth: 2009, 'Temporaneamente tua. Intimità,
autencità e commercio del sesso' Odoya, Bologna
Pheterson, Gail (ed.): 1989, 'A Vindication of the Rights of
Whores: The International Movements for Prostitutes’ Rights, Seal,
Seattle
1996, 'The Prostitution Prism', Amsterdam University Press, Amsterdam
Réal, Grisélidis: 2005, 'Carnet de bal d’une courtisane',
Editions Verticales/Le Seuil, Paris
Tabet, Paola: 1989, ‘I denti della prostituta. Scambio,
negoziazione, scelta nei rapporti sessuo-economici’, in DWF,
n.10/11
2004, 'La Grande Beffa. Sessualità delle donne e scambio
sessuo-economico', Rubbettino, Soveria Mannelli
Il dibattito su inGenere.it:
Daniela Danna "Il tappeto svedese sulla prostituzione"
Chiara Valentini "Punire il cliente. La strada svedese"
Maria Rosa Cutrufelli "Com'è cambiato il mercato delle donne"
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