[NuovoLab] Intressante contributo

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Author: Giovanna Caviglione
Date:  
To: forumgenova@inventati.org
Subject: [NuovoLab] Intressante contributo
Da repubblica online Lucio Caracciolo chiama le cose con il loro nome.

Si spara e si uccide ogni giorno in quasi tutto l¹Afghanistan, controllato
per oltre due terzi dai ribelli, talebani e non solo. Ma per noi continua a
non essere una guerra. Forse nemmeno la tragedia che si è consumata ieri
presso Herat, dove nostri militari - in circostanze che vorremmo subito
chiarite - hanno ucciso per errore una bambina di tredici anni, basterà a
rompere il tabù che ci impedisce di dire a noi stessi cosa stiamo facendo in
terra afghana. La guerra, appunto. Una guerra che rischiamo di perdere,
insieme agli americani e agli altri alleati. Ma in cui abbiamo già perso la
faccia, non avendo il coraggio di chiamare guerra la guerra. E di spiegare
perché ne siamo parte, in vista di quali obiettivi. Proviamo a ricordarlo.

L¹Italia è in Afghanistan per gli Stati Uniti. Punto. Vogliamo dimostrare al
nostro maggiore alleato di essere un partner affidabile in un teatro in cui
gli americani si giocano la reputazione di potenza leader nel mondo. In
questa campagna si gioca, secondo l¹interpretazione corrente nelle
cancellerie occidentali, il destino stesso della Nato, che non reggerebbe
alla sconfitta. E senza Nato ci troveremmo in una terra di nessuno quanto a
sicurezza nazionale e rango internazionale. Per questo partecipiamo alla
missione atlantica Isaf, che originariamente poteva parere una missione di
pacificazione e stabilizzazione postbellica. Poco costosa e poco pericolosa.

Ma da parecchio tempo ­ quali che siano le intenzioni nostre e degli altri
partecipanti ­ questa missione atlantica è di fatto inglobata nella guerra
contro i talebani a guida angloamericana. Immaginare che si possa ritagliare
per noi stessi o per chiunque altro uno spazio illibato in tale carnaio,
significa giocare con la vita dei soldati nostri e alleati, oltre che con
quella dei civili afghani. Basti ricordare che lo scorso anno, su 2.200
afghani non combattenti uccisi, il 40% circa sono stati vittime delle forze
internazionali o di quelle di Kabul, da noi addestrate. Con ciò contribuendo
a screditare lo pseudo-governo Karzai, raro esempio di inefficienza e
corruzione, e favorendo il reclutamento di ribelli locali, come di
terroristi che un giorno potrebbero colpirci a casa nostra.

C¹è un rapporto diretto fra aumento delle vittime civili e avanzata
talibana. Una progressione evidente anche nel settore occidentale, in cui è
incardinato il grosso delle truppe italiane (2.350 uomini in tutto).

Negli ultimi mesi l¹importanza strategica della guerra contro i taliban è
cresciuta di molto. Obama ne ha fatto il fronte centrale dello sforzo
bellico americano. Associandovi il Pakistan, che una frontiera inesistente
divide dall¹Afghanistan. Ecco l¹²Afpak². Buco nero in cui convivono
jihadismo ascendente e pallidissimi poteri formali, bombe atomiche
(pakistane) e contenziosi territoriali irrisolti, forse irresolubili. Di
qui, secondo l¹intelligence Usa, potrebbe un giorno partire il segnale per
un altro 11 settembre. Stavolta con armi di distruzione di massa. Per
conseguenza, Obama sta spostando una quota del contingente Usa in Iraq verso
il fronte afghano-pakistano. Il rischio di cadere fra due sedie, perdendo
posizioni in Mesopotamia senza conquistarne nell¹Hindukush, è forte. Così
come la consapevolezza che una vittoria militare è impossibile.
E che qualche rabberciato, provvisorio compromesso con questo o quel
tagliagole ­ non certo l¹Afghanistan para-occidentale di cui si delirava un
tempo, né il Pakistan liberaldemocratico evocato dalla propaganda ­ è il
massimo cui possiamo aspirare.

Intanto gli americani chiedono a noi europei, italiani inclusi, più soldi e
più soldati per l¹Afghanistan. Ma quando Obama è venuto a dircelo, il mese
scorso, non ha ottenuto che vaghe promesse. Poco più di nulla. Se l¹²Afpak²
è davvero la prova della persistenza in vita dell¹alleanza occidentale,
siamo fritti.

Sul terreno, poi, l¹alleanza si è divisa in due tronconi, con relativi
sottogruppi. Quelli che combattono in prima linea senza limitazioni di
brutalità, a cominciare da americani, canadesi e britannici; e quelli che
cercano di non farlo, in ossequio all¹interpretazione più restrittiva della
missione Nato e di ogni sorta di caveat. Tra cui noi, o almeno la gran parte
del nostro contingente Isaf. Con ciò attirandoci qualche sarcasmo da parte
degli alleati angloamericani, i quali pensavamo di compiacere spingendoci
fin lì. E persino le recriminazioni di europei più disposti al rischio, come
i danesi. Insomma, noi fra due sedie ci siamo finiti da un pezzo. Per
eccesso di furbizia.

L¹Italia è un paese sovrano che può decidere se combattere o meno una
guerra, dopo averne discusso come si conviene in democrazia. Ma quando
mandiamo nostri soldati al fronte, spesso ci preoccupiamo più di come
travestire la missione che di definirne scopi e strumenti. Così ci capita di
attaccare un paese ­ la Jugoslavia ­ spacciando una campagna di
bombardamenti aerei come ³difesa integrata², oppure di trovarci coinvolti
nella guerra che gli Stati Uniti considerano decisiva senza trovare la forza
di comunicarlo a noi stessi.

Pare che a Herat, ieri, la pioggia fosse talmente fitta da ridurre al minimo
la visibilità. Ma all¹origine di quella tragedia non c¹era solo l¹oscurità
meteorologica. C¹era - e resta - anche la foschia che noi stessi abbiamo
sparso attorno ai nostri soldati, ai loro compiti e ai mezzi di cui
dovrebbero disporre per eseguirli. Se non disperderemo questa nebbia
strategica, continueremo a pagarne le conseguenze. E a farle pagare a chi
non vorremmo.    .