[NuovoLab] Alberta Nelli: Le mie 4 giornate di Genova

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Autor: brunoa01
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Novos Tópicos: [NuovoLab] ARRIVEDERCI A TRIESTE!
Assunto: [NuovoLab] Alberta Nelli: Le mie 4 giornate di Genova
grazie al ponente social forum che aveva inserito questa testimonianza nella mostra fotografica sul G8 che, ormai da troppo tempo, giace inutilizzata, invio questa testimonianza di Alberta Nelli, carissima amica recentemtne scomparsa.


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Le mie Quattro Giornate di Genova

Sono una genovese emigrata ad Ivrea da 16 anni; a Genova sono nata ed ho vissuto per 27, qui ho partecipato alle lotte nonviolente contro la Mostra Navale Bellica: non ho potuto mancare alle manifestazioni contro il G8; in più sono alleata dell’Arca, movimento dei gandhiani d’occidente, fondato da Lanza Del Vasto, che è fra i promotori del digiuno di Boccadasse.

Arrivo martedì sera, ultimo giorno di traffico regolare dei treni, alle 10 alla stazione Brignole; attraverso un paesaggio lunare e deserto, allucinante.
Un capannello di persone mi invita a non avvicinarmi allo sportello (devo fare il biglietto per andare in Francia quando riapriranno le comunicazioni): un innocuo e maleodorante sacchetto con la spesa dimenticato da qualcuno ha innescate la sindrome bomba.
Esco sulla piazza e aspetto il bus che mi porterà alla casa dei miei genitori: auto-civetta cariche di uomini, autoblindo, macchine d’ordinanza di polizia e vari corpi militari sfrecciano in tutte le direzioni, a velocità sostenuta e senza nessuna considerazione per semafori e stop.
Nel frattempo, alla fermata arrivano coppie di giovani con lo zaino, parecchi stranieri; sull’autobus ce ne sono altri che chiedono informazioni, vanno allo stadio Carlini, che è proprio nel mio quartiere.

Mercoledì: giro incredulo il centro, pressoché tutti i negozi sono chiusi e sbarrati con assi di legno.
Risalgo Via S.Vincenzo, di recente ripavimentata e chiusa al traffico: è la desolazione totale.
Infine, ecco davanti a me il muro della vergogna, le cui immagini avevo già visto sui giornali ma che, così dal vivo, a chiudere come una barriera insensata la via in tutta la sua larghezza, mi provoca una dolorosa fitta al cuore e gli occhi mi si riempiono di lacrime:
“Cosa hanno fatto alla mia città, che non riconosco più, stravolta nei percorsi, svuotata dai suoi abitanti, occupata come una zona di guerra”.
I miei occhi lucidi incrociano quelli di un signore di una certa età che, altrettanto commosso, inizia a scambiare con me analoghe impressioni: è stato in Corso Italia, al Public Forum, mi dice che non ha paura di quei ragazzi che ha visto; poi, scopriamo conoscenze comuni perché lavora per una ditta di Ivrea.
Nel deserto, un’oasi di umanità.
Telefono a mia mamma per invitarla a scendere in centro e vedere con i suoi occhi; a braccetto per le strade mi dice che neanche in tempo di guerra ha mai visto tutti i negozi chiusi, prova a discutere con i carabinieri per attraversare Via XX settembre e offrirmi il gelato, la dissuado: la gelateria, tanto, sarà chiusa e poi il cielo è livido e plumbeo; lei torna a casa, io vado al Public Forum.

Giovedì: in mattinata partecipo alla sessione del Public Forum: molto applaudito Josè Bové, che dà appuntamento al movimento per il 10 novembre a Roma, dove si svolgerà l’assemblea della FAO, contemporaneamente al vertice del WTO, spostato dopo Seattle nel Qatar.
Ascolto con interesse la relazione di una ecuadoregna, che è impegnata nella difesa dei diritti degli indigeni, un inglese che parla delle azioni per contrastare lo strapotere della finanza internazionale e apprezzo molto la chiarezza e l’efficacia dell’esposizione di Vittorio Agnoletto che spiega il meccanismo perverso per cui le multinazionali farmaceutiche sperimentano con cinismo i farmaci nel Terzo Mondo e impongono i diritti intellettuali per 20 anni quando in sei mesi rientrano delle spese sostenute per la ricerca.
Al pomeriggio è prevista la manifestazione dei Migranti; ho diversi appuntamenti in previsione: il primo con mio cognato alla stazione di Genova Quarto.
Arrivo e trovo la piccola stazioncina presidiata da un plotone di polizia e carabinieri in tenuta antisommossa; dopo venti minuti il treno non si vede, chiedo informazioni, una ferroviera mi dice che la stazione per due ore sarà chiusa al traffico e che i treni si fermano a Nervi perché devono arrivare due treni speciali.
Chiedo perché non è stato annunciato con l’altoparlante, lei mi risponde che non può fare nulla, che comanda la polizia.
A quel punto esco sul binario e grido alla decina di persone sull’altro binario, in attesa della navetta per il Levante, che non arriverà nessun treno: almeno io posso farlo.
Mi ricongiungo con mio cognato e ci avviamo verso Piazza Sarzano; la gente è così tanta che in pratica è già un corteo quello che si reca al concentramento.
Conoscendo bene i luoghi propongo una scorciatoia, aggiriamo un plotone di militari armati di scudo e saliamo su per Carignano.
Lì trovo gli amici della Rete contro G8, alcuni dopo molti anni: è una festa, sventolano bandiere colorate, strutture di palloncini, fili da bucato che inalberano mutande e calzini, ci sono giocolieri, mucche vere e di cartapesta, pupazzi, magliette di ogni tipo.
Scendendo verso il lungomare un altro tuffo al cuore: la strada è fiancheggiata da container, un altro muro per proteggere dall’alto la Fiera del mare, quartier generale delle forze di polizia.
Ma appollaiati in alto alcuni manifestanti molto agili improvvisano scenette ridicole e sdrammatizzano quanti, invece, passando, percuotono le pareti di metallo.
Erano attese 15.000 persone, sono più di tre volte tanto, ma di migranti se ne vedono pochi; i genovesi dicono che sono stati intimoriti e dissuasi dal partecipare.
Imponente lo schieramento di polizia in apertura e chiusura del corteo.
In serata a cena da un amico che ha seguito dal di dentro i lavori del GSF vengo rassicurata sulle manifestazioni del giorno seguente: dopo i continui contatti e accordi con la Questura, l’indomani “sarà tutto un teatro”.
Mai previsione fu più sbagliata e ingenua fiducia nelle istituzioni più tradita.

Venerdì, ore 9: iniziano la veglia di preghiera e il digiuno, organizzati dalle Congregazioni missionarie, dalla campagna “Sdebitarsi-Drop the debt” e, appunto, dal Movimento dell’Arca, di cui faccio parte.
Sulla terrazza di fronte al mare, ai piedi della Chiesa di S.Antonio di Boccadasse le campane suonano; in successione, una suora polinesiana chiama alla preghiera soffiando in una conchiglia che produce un suono profondo, un giovane africano chiama alla preghiera versando acqua al suolo, in segno di inizio e purificazione, un gruppo di suore burundesi canta ritmando con il tamburo, due monaci buddisti della tradizione sino-coreana chiamano alla preghiera con una lenta cantilena, dopo essersi prostrati più volte al suono della ciotola percossa da un batacchio. Ci si sposta in chiesa, dove si ascolta una riflessione registrata di padre Zanotelli (a mio parere, eccessivamente lunga e un po’ surreale in quella situazione).
La chiesa è stracolma, i registi de “Il cinema italiano a Genova” riprendono ampiamente; sopra l’altare pende un grande disegno del Cristo campesino.
Poco prima di mezzogiorno, con gli amici presenti saliamo in Piazza Manin, la piazza tematica dove si sono dati appuntamento i gruppi nonviolenti, le associazioni ecologiste e per il commercio equo e solidale, gli scout e la Comunità Giovanni XXIII.
Ci uniamo al gruppo di affinità della Rete contro G8 per partecipare all’azione nonviolenta: si tratta di scendere in Piazza Portello e bloccare l’accesso carraio di Via Interiano alla zona rossa.
In Piazza Manin lasciamo i gruppi di affinità che hanno scelto un’azione più morbida: un sit-in davanti alle grate di Piazza Corvetto, dove non ci sono varchi.
Giunti in prossimità della piazza, ci fermiamo, i portavoce scendono a parlare con la polizia schierata; nel frattempo, accompagnati da una chitarra, cantiamo canzoni di libertà: “Freedom”, “We shall overcome”, ecc..
La coordinatrice dei portavoce comunica a tutti che la polizia è stata informata della nostra azione assolutamente nonviolenta e che c’è una parlamentare presente (Titti De Simone); così, in silenzio, scendiamo e ci sediamo per terra.
La polizia presidia il varco in tenuta antisommossa, altre camionette stanno sulla piazza; nel giro di poco tempo, però, il clima si distende, i poliziotti tolgono caschi e scudi, le camionette vanno e vengono, si canta, si gioca con un pallone-mappamondo su cui è scritto a pennarello “Non è in vendita”, talvolta un poliziotto allunga la mano o il manganello per rilanciare la palla e viene applaudito, alcuni passanti muniti di pass si uniscono al sit-in, prima di fendere la folla seduta per terra.
Il cambio della guardia tra i poliziotti avviene regolarmente, solo qualcuno strattona e calpesta.
Ogni tanto il fischietto chiama a raccolta il consiglio degli speakers; prima delle quattro arriva la notizia che le tute nere sono arrivate a Manin, i nonviolenti di ritorno da Corvetto li hanno fermati con un cordone di braccia alzate, ma la polizia è arrivata dietro di loro, ha sparato lacrimogeni, caricato i pacifisti e spaccato tutti i banchetti; i black si sono dispersi e stanno arrivando. La tensione sale, non si canta più; non succede niente per un po’, poi cominciano ad arrivare alla chetichella dalla parte dei vicoli ragazzi molto giovani con il casco a braccetto, in breve si sparge la voce “Arrivano”.
Anche loro scendono la stessa strada che abbiamo fatto noi. La polizia si schiera nella piazza alle nostre spalle, gli speakers chiedono a tutti di stare seduti, anche la dozzina di poliziotti di guardia al varco fende la gente seduta, lascia sguarnita la linea rossa e ci passa alle spalle; vengono sparati pochi lacrimogeni (due o tre, credo), ma verso la via: a noi ne arriva l’odore ma non l’effetto.
C’è uno scontro perché qualcuno grida che hanno rotto il naso a una ragazza e chiede la presenza di un parlamentare, ma tutto dura poco, noi siamo rimasti seduti e non vediamo. La piazza è di nuovo tranquilla; sono passate le cinque, continuano ad arrivare voci di scontri.
Decidiamo di ritornare a Boccadasse per non arrivare in ritardo all’appuntamento che ci siamo dati con gli altri per preparare la preghiera della sera: ogni gruppo promotore, infatti, organizza nell’arco delle 33 ore di digiuno momenti di preghiera strutturati.

Alla cronaca voglio aggiunger a questo punto un commento: a posteriori, credo che il successo dell’azione di Portello, la mancanza di repressione della polizia, non siano stati frutto del caso fortunato.
Con la polizia, dall’inizio, è stato costruito un dialogo, pur rimanendo decisi nell’obiettivo da raggiungere (bloccare il varco per cingere d’assedio poco più che simbolico la cittadella dei potenti).
I poliziotti si sono tolti le bardature da guerra perché sono stati riconosciuti come persone con cui parlare, non ci hanno usato violenza perché dopo quattro/sei ore di contatto pacifico non potevano più vederci come gente anonima da picchiare, disturbatori dell’ordine pubblico da reprimere, nemici da vincere.
In questo sta la forza vincente e convincente della nonviolenza.
Alle 17,15 del nostro gruppetto siamo rimasti in quattro, gli altri erano già rientrati.
Iniziamo a temere di trovar bruciata la macchina parcheggiata a Manin, perché sul nostro cammino vediamo i segni della devastazione e incontriamo gente mascherata, armata di spranghe e bastoni, che scorazza in Circonvallazione a monte; a pochi metri di distanza un plotone di polizia presidia la piazza, dove è rimasto uno sparuto gruppo di manifestanti.
Raggiungiamo la macchina; guida un frate francescano imponente di statura, con decisione passa a slalom tra i cassonetti rovesciati e incendiati e i gruppetti di black che stanno depredando un supermercato.
A un certo punto non possiamo proseguire in auto, parcheggiamo in luogo sicuro e continuiamo a piedi. Attraversiamo il corteo delle tute bianche, imponente, che riempie Corso Gastaldi; sentiamo che una voce al megafono invita a ritornare allo stadio Carlini.
Girato l’angolo ci troviamo di fronte la muraglia di un plotone di polizia che sbarra la strada; dietrofront, passiamo per le “creuse” di S.Martino: questo è il mio quartiere, conosco bene la strada.
Raccogliamo altri che vogliono raggiungere la zona di Corso Italia e dal telefonino di un giovane giornalista che si è accodato riceviamo la notizia del dimostrante morto in Piazza Alimonda.
Nei locali della chiesa incontrerò, poco dopo, la ragazza che gli ha prestato soccorso.
Non so come si chiama ma voglio ricordarla perché, con la giovane età, ha conservato una grande lucidità: negli scontri di Via Tolemaide ha medicato manifestanti e poliziotti, non c’era nessun servizio sanitario ufficiale; quando si è chinata sul ragazzo morto, nonostante la maglietta bianca con la croce rossa, si è presa pure una manganellata sulla schiena, “ma piano” ha detto.
Sono arrivati nel frattempo altri amici, ci ritroviamo per concordare bene lo schema della preghiera, provare la danza e i canti.
Entriamo in chiesa per partecipare alla preghiera della Giovanni XXIII, ma il programma, così come l’indomani, è saltato, alcuni gruppi organizzatori non arrivano e, allora, è la preghiera silenziosa, talvolta con l’organo in sottofondo.
Nel silenzio una signora prende la parola per dire del ragazzo morto: viene aspramente redarguita da alcuni frati organizzatori.
Il clima è pesante, a noi spetta riprendere il filo della preghiera parlata: non è facile ma facciamo appello alle nostre energie spirituali.
Tira un forte vento, è impossibile fare la preghiera all’aperto, come era previsto.
Ci raccogliamo allora in semicerchio intorno ai lumini all’interno, per la preghiera del fuoco.
La danza è molto partecipata, tanto che decidiamo di ripeterla in conclusione; si leggono due testi di Lanza Del Vasto e di Gandhi, intervallati da canti.
Nella preghiera libera possiamo sciogliere con le parole un po’ dell’angoscia della giornata, chiedere perdono per la violenza di chi l’ha subita e di chi l’ha compiuta, pregare per i poveri del mondo.

Sabato: arrivo verso le 9 a Boccadasse, per la strada incontriamo moltissima gente: il corteo parte lì vicino, ma 5 ore dopo, in teoria.
Partecipiamo alla preghiera in inglese, animata da Christian Aid: è colorata e allegra, molto intergenerazionale; un gruppo di ciclisti è arrivato in bicicletta da Londra, più di 1.000 Km.
È la mezza, intorno alla chiesa un mare di persone. Decidiamo di confermare la nostra presenza alla manifestazione; il gruppo organizzatore della preghiera-digiuno, invece, decide di no, ma alcuni gruppi e singoli entreranno nel corteo.
Noi cerchiamo al telefono un amico portavoce del GSF: ci consiglia di salire verso la testa del corteo che è già partito, vista l’impossibilità di contenere la massa di gente presente; intorno a noi bandiere rosse e di tutti i colori, ma anche tanti volti mascherati, bastoni, catene… raggiungiamo lo striscione di apertura “Voi G8, Noi 6.000.000.000”, davanti tre poliziotti in borghese e basta.
Ci inseriamo dietro le bandiere di Legambiente, procediamo a fianco di Attac francese che fa una specie di servizio d’ordine tenendosi per mano.
Qualcuno del GSF toglie bastoni di mano a ragazzini con la bandana, l’inquietudine si avverte.
In Corso Torino ci si siede per terra, subito c’è tensione, poi si riprende, incontriamo amici che si aggregano a noi; passato il sottopasso ferroviario, ci si rilassa, ma arrivano notizie di scontri; arriviamo al palco, le gente allunga canne di gomma per rinfrescarci, stende mutande in segno di appoggio alle ragioni dei manifestanti.
Riprendiamo la via delle colline per tornare a Boccadasse e costeggiamo di nuovo la battaglia: si vede fumo, si incontra gente spaurita in fuga, sappiamo da un amici di Ivrea che non ci ha potuto raggiungere, che il corteo è stato diviso in tre tronconi, il secondo è riuscito ad arrivare in fondo, passando per un’altra strada, il terzo è stato disperso e, verremo a sapere poi, anche massacrato.

Torniamo a Boccadasse in tempo per la celebrazione conclusiva: Ernesto Oliviero richiama i presenti al dovere di occuparsi dei giovani che non hanno speranze; suor Patrizia ringrazia tutti; padre Alberto chiude consegnando a ciascuno un omino di carta: festoni di omini di carta segnavano all’esterno lo spazio del silenzio (in pratica, il sagrato), hanno resistito al vento dei due giorni dandosi la mano e, dall’alto, hanno visto sfilare sotto i loro occhi un mondo di persone di tutti i colori.
Vivere nell’amicizia e guardare il mondo ad occhi ben aperti, questo è stato il messaggio di saluto e la consegna.
Così si è conclusa la preghiera e il digiuno che, a dire il vero, con la densità degli avvenimenti, le emozioni così forti, i chilometri macinati a piedi su strade – per mia fortuna – familiari, ben poco mi è pesato.

Domenica: triste risveglio, mio padre accende la TV e mi dà notizia del blitz alla sede del GSF; io sono in pena per gli amici che potrebbero essere là e tristemente capisco che l’inspiegabile atteggiamento della polizia aveva dietro un disegno, che lo stato di diritto è stato fatto a pezzi e sento ancor più vicini gli amici argentini che, da Buenos Aires, hanno partecipato al digiuno: anche loro si saranno sentiti così, come me oggi, negli anni della dittatura.


Alberta Nelli

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