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Vittime visibili e invisibili della violenza sessuale.
Poesia-testimonianza di Alfred Breitman
Roma, 29 gennaio 2009. Le violenze sessuali sono delitti che appartengono
alla sfera più bassa e barbarica dell'essere umano. Al di là della
propaganda mediatica, che strumentalizza odiosamente le vittime delle
aggressioni sessuali per diffondere odio razziale, oltre il 90% di tali
crimini viene perpetrata all'interno delle pareti domestiche e colpisce
persone inermi. Le Istituzioni non hanno un reale interesse a combattere
questa piaga, perché rappresenta uno spauracchio da sbandierare di fronte
all'opinione pubblica quando serve loro consenso. Gli stupri colpiscono per
il 70% le donne, ma anche i maschi ne sono spesso vittime. Nelle carceri,
oltre il 50% dei giovani maschi sono oggetto di stupro e abusi sessuali,
dopo i quali contraggono spesso malattie gravi e gravissime. Paura e
vergogna impediscono loro di denunciarle o parlarne pubblicamente, una
volta scontata la pena. Negli Istituti di pena italiani non è mai stata
attuata alcuna misura per combattere le violenze sessuali su ragazzi e
uomini, come se tali eventi fossero ormai riconosciuti come "parte" della
pena. Le donne che vivono in condizioni di precarietà sono spesso oggetto
di stupro. Quando le forze dell'ordine arrestano i loro compagni o
genitori, le donne, anche giovanissime, restano senza alcuna protezione,
accampate all'aperto o in edifici dismessi, vittime predestinate dei
predatori sessuali, molto spesso italiani, a volte proprio coloro che
dovrebbero proteggere tutti i cittadini dal pericolo di abuso. La Canzone
di Irina è stata ispirata dalla testimonianza di una giovane madre,
conosciuta dal poeta durante uno sgombero a Milano, di fronte
all'insediamentio di via Triboniano.
La canzone di Irina
di Alfred Breitman
Irina non sentiva più niente,
la sua anima era uscita
attraverso i suoi occhi
sgorgando come acqua
da una doppia fontana.
Nel crepuscolo viola,
immaginava di salire in cielo,
bianca, leggera come una nuvola
e di tornare giù come fresca rugiada,
posandosi nei calici
aperti del convolvolo.
"I fiori sono così belli," sussurrò fra sé,
"più tardi ne raccoglierò un mazzetto".
Le baracche bruciavano
intorno a lei, crepitando.
Adesso ritornavano la paura e il dolore,
ma li scacciò come insetti molesti.
Udì, vicina, la voce del suo bambino,
rotta dal pianto, che ripeteva "mamma"
e rise nel suo cuore,
perché significava che era vivo.
Un uomo le piantava chiodi nel ventre.
Il suo fiato puzzava
di tabacco e cipolle.
Ma lei fuggiva ancora nel calice di un fiore
e sentiva profumo di vaniglia.
Un po' di vento le passò sul viso,
fresco come le acque dei ruscelli di Banat.
Adesso il suo bambino cantava sottovoce:
"Hai ghiceste ghiceste cine te iubeste
sa vad daca stii cine te doreste?".
Quando tutto finì, Irina chiuse gli occhi.
Aveva il cuore in tumulto e il respiro mozzo.
Sentiva male, ma la nausea
era più forte del dolore
e la vergogna era più forte di tutto.
"Infelice fra tutte le donne - disse a se stessa -
come potrà guardarti ancora in faccia,
tuo marito?".
L'odore acre del fumo pizzicava le narici,
mentre intorno si alzava un coro di gemiti.
Aprì gli occhi e incontrò quelli del suo bambino,
che erano pieni di lacrime.
Sorrise.
Si alzò.
Lo abbracciò
e stringendolo al seno, cominciò a cantare,
a bassa voce:
"Hai ghiceste ghiceste cine te iubeste
sa vad daca stii cine te doreste
hai ghiceste hai ghiceste
spune-mi cine te iubeste
si din dragoste iti daruieste".
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roberto.malini@???
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