Guantanamo Libia.
Il nuovo gendarme delle frontiere italiane
Tratto dal sito: Fortresseurope.blogspot.com
<http://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/guantanamo-libia-il-nuovo-gendarme.html>
La porta di ferro è chiusa a doppia mandata. Dalla piccola feritoia si
affacciano i volti di due ragazzi africani e un di egiziano. L'odore
acre che esce dalla cella mi brucia le narici. Chiedo ai tre di
spostarsi. La vista si apre su due stanze di tre metri per quattro.
Incrocio gli sguardi di una trentina di persone. Ammassati uno
sull'altro. A terra vedo degli stuoini e qualche lercio materassino in
gommapiuma. Sui muri qualcuno ha scritto Guantanamo. Ma non siamo nella
base americana. Siamo a Zlitan, in Libia. E i detenuti non sono presunti
terroristi, ma immigrati arrestati a sud di Lampedusa e lasciati marcire
in carceri fatiscenti finanziate in parte dall'Italia e dall'Unione europea.
I prigionieri si accalcano contro la porta della cella. Non ricevono
visite da mesi. Alcuni alzano la voce: "Aiutateci!". Un ragazzo allunga
la mano oltre quelli della prima fila e mi porge un pezzettino di
cartone. C'è scritto sopra un numero di telefono, a penna. Il prefisso è
quello del Gambia. Lo metto in tasca prima che la polizia se ne accorga.
Il ragazzo si chiama Outhman. Mi chiede di dire a sua madre che è ancora
vivo. È in carcere da cinque mesi. Fabrice invece non esce da questa
cella da nove mesi. Entrambi sono stati arrestati durante le retate nei
quartieri degli immigrati a Tripoli. Da anni la polizia libica è
impegnata in simili operazioni. Da quando nel 2003 l'Italia siglò con
Gheddafi un accordo di collaborazione per il contrasto
dell'immigrazione, e spedì oltremare motovedette, fuoristrada e sacchi
da morto, insieme ai soldi necessari a pagare voli di rimpatrio e tre
campi di detenzione. Da allora decine di migliaia di immigrati e
rifugiati ogni anno sono arrestati dalla polizia libica e detenuti nei
circa 20 centri fatiscenti sparsi per il paese, in attesa del rimpatrio.
Insieme a un collega tedesco, siamo i primi giornalisti autorizzati a
visitare questi centri.
"La gente soffre! Il cibo è pessimo, l'acqua è sporca. Ci sono donne
malate e altre incinte". Gift ha 29 anni. Viene dalla Nigeria. Indossa
ancora il vestito che aveva quando l'arrestarono tre mesi fa, ormai
ridotto a uno straccio sporco e consumato. Stava passeggiando con il
marito. Non avevano documenti e furono arrestati. Non lo vede da allora,
lui nel frattempo è stato rimpatriato. Dice di avere lasciato i due
figli a Tripoli. Di loro non ha più notizie. Viveva in Libia da tre
anni. Lavorava come parrucchiera e non aveva nessuna intenzione di
attraversare il Canale di Sicilia. Come molti degli immigrati detenuti
dai nuovi gendarmi della frontiera italiana.
All'Europa invece aveva pensato Y.. C'aveva pensato e come. Disertore
dell'esercito eritreo, per chiedere asilo politico, si era imbarcato due
mesi fa per Lampedusa. Ma è stato fermato in mare. Dai libici. Da quel
giorno è rinchiuso a Zlitan. Anche lui senza nessuna convalida dello
stato d'arresto. Prima di farlo entrare nello studio del direttore, un
poliziotto gli sussurra qualcosa all'orecchio. Lui fa cenno di sì col
capo. Quando gli chiediamo delle condizioni del centro, risponde
"Everything is good". Va tutto bene. È spaventato a morte. Sa che ogni
risposta sbagliata gli può costare un pestaggio. Il direttore del campo,
Ahmed Salim, sorride compiaciuto delle risposte e ci assicura che non
sarà deportato. Nel giro di qualche settimana sarà trasferito al centro
di detenzione di Misratah, 210 km a est di Tripoli, dove sono
concentrati i prigionieri di nazionalità eritrea.
Nella provincia esistono altri tre centri di detenzione per stranieri, a
Khums, Garabulli e Bin Ulid. Ma sono strutture più piccole e i detenuti
vengono poi tradotti nel campo di Zlitan, che può rinchiudere fino a 325
persone, in attesa del loro rimpatrio. Ma quanti sono i centri di
detenzione in tutta la Libia? Sulla base delle testimonianze raccolte in
questi anni, ne abbiamo contati 28, perlopiù concentrati sulla costa. Ne
esistono di tre tipi. Ci sono dei veri e propri centri di raccolta, come
quelli di Sebha, Zlitan, Zawiyah, Kufrah e Misratah, dove vengono
concentrati i migranti e i rifugiati arrestati durante le retate o alla
frontiera. Poi ci sono strutture più piccole, come quelle di Qatrun,
Brak, Shati, Ghat, Khums... dove gli stranieri sono detenuti per un
breve periodo prima di essere inviati nei centri di raccolta. E poi ci
sono le prigioni: Jadida, Fellah, Twaisha, Ain Zarah... Prigioni comuni,
nelle quali intere sezioni sono dedicate alla detenzione degli stranieri
senza documenti. Anche nelle prigioni, le condizioni di detenzione sono
pessime. Scabbia, parassiti e infezioni sono il minimo che ci si possa
prendere. Molte donne sono colpite da infezioni vaginali. E non mancano
i decessi, dovuti perlopiù all'assenza di assistenza sanitaria o a
ricoveri ospedalieri troppo tardivi. Il nome più ricorrente nei racconti
dei migranti è quello del carcere di Fellah, a Tripoli, che però è stato
recentemente demolito per far spazio a un grande cantiere edilizio, in
linea con il restyling di tutta la città. La sua funzione è stata
sostituita dal Twaisha, un'altra prigione vicino all'aeroporto.
Koubros è riuscito a scappare da Twaisha poche settimane fa. È un
rifugiato eritreo di 27 anni. Viveva in Sudan, ma dopo che un amico
eritreo è stato rimpatriato da Khartoum, non si è più sentito al sicuro
e ha pensato all'Europa. Da Twaisha è uscito sulle stampelle. Non poteva
pagare la cifra che gli aveva chiesto un poliziotto ubriaco. Allora
l'hanno portato fuori dalla cella e preso a manganellate. È uscito
grazie a una colletta tra i prigionieri eritrei. Per corrompere una
delle guardie carcerarie sono bastati 300 dollari. Lo incontro davanti
alla chiesa di San Francesco, a Tripoli. Come ogni venerdì, una
cinquantina di migranti africani aspetta l'apertura dello sportello
sociale della Caritas. Tadrous è uno di loro. È stato rilasciato lo
scorso sei ottobre dal carcere di Surman. È uno dei pochi ad essere
stato giudicato da una corte. La sua storia mi interessa. Era il giugno
del 2008. Si erano imbarcati da Zuwarah, in 90. Ma dopo poche ore
decisero di invertire la rotta, perché il mare era in tempesta. E
tornarono indietro. Appena toccata terra furono arrestati e portati
nella prigione di Surman. Il giudice li condannò a 5 mesi di carcere per
emigrazione illegale. Finiti i quali è stato rilasciato. Gli chiedo se
gli fu dato un avvocato d'ufficio. Sorride scuotendo la testa. La
risposta è negativa.
Niente di strano, sostiene l'avvocato Abdussalam Edgaimish. La legge
libica non prevede il gratuito patrocinio per reati passibili di pene
inferiori a tre anni. Edgaimish è il direttore dell'ordine degli
avvocati di Tripoli. Ci riceve nel suo studio in via primo settembre. Ci
spiega che tutte le pratiche di arresto e detenzione sono svolte come
procedure amministrative, senza nessuna convalida del giudice. Senza
nessuna base legale dunque, ma solo sull'onda dell'emergenza. Anche in
Libia una persona non potrebbe essere privata della libertà senza un
mandato d'arresto. Ma questa è la teoria. La pratica invece è quella
delle retate casa per casa nei sobborghi di Tripoli.
"I migranti sono vittime di una cospirazione tra le due rive del
Mediterraneo. L'Europa vede soltanto un problema di sicurezza, nessuno
vuole parlare dei loro diritti". Anche Jumaa Atigha è un avvocato di
Tripoli. Nella parete del suo ufficio è appesa una Laurea in Diritto
penale dell'Università La Sapienza, di Roma, conferita nel 1983. Dal
1999 ha presieduto l'Organizzazione per i diritti umani della Fondazione
guidata dal primogenito di Gheddafi, Saif al Islam. Lo scorso anno si è
dimesso. Dal 2003 ha condotto una campagna che ha portato alla
liberazione di 1.000 prigionieri politici. Ci descrive un paese in
rapido cambiamento, ma ancora lontano da una situazione ideale sul
fronte delle libertà individuali e politiche. In Libia non c'è nessuna
legge sull'asilo, ci conferma, ma in compenso una commissione si sta
occupando di scrivere un nuova legge sull'immigrazione.
Atigha conosce personalmente le condizioni di detenzione in Libia. Dal
1991 al 1998 è stato incarcerato, senza processo, come prigioniero
politico. Ci dice che la tortura è comunemente praticata dalla polizia
libica. "Dal 2003 abbiamo fatto una campagna contro la tortura nelle
carceri. Abbiamo organizzato conferenze, visitato le prigioni, fatto dei
corsi agli ufficiali di polizia. La mancanza di consapevolezza fa sì che
la polizia pratichi la tortura pensando così di servire la giustizia".
Mustafa O. Attir la pensa allo stesso modo. Insegna sociologia
all'Università El Fatah di Tripoli. "Non è un problema di razzismo. I
libici sono gentili con gli stranieri. È un problema di polizia". Attir
sa quello che dice. È entrato nelle carceri libiche come ricercatore nel
1972, nel 1984 e nel 1986. Gli agenti di polizia non hanno istruzione -
sostiene -, e sono educati al concetto di punizione.
Le sue parole mi fanno ripensare ai parrucchieri ghanesi nella medina,
ai sarti chadiani, ai negozianti sudanesi, ai camerieri egiziani, alle
donne delle pulizie marocchine e agli spazzini africani che armati di
scope di bambù ogni notte ripuliscono le vie dei mercati della capitale.
Mentre gli eritrei si nascondono nei sobborghi di Gurji e Krimia,
migliaia di immigrati africani vivono e lavorano, in condizioni di
sfruttamento, ma con relativa tranquillità. Sicuramente per sudanesi e
chadiani è tutto più facile. Parlano arabo e sono musulmani. La loro
presenza in Libia è decennale e quindi tollerata. Lo stesso per egiziani
e marocchini. Al contrario eritrei ed etiopi sono qui esclusivamente per
il passaggio in Europa. Spesso non parlano arabo. Spesso sono cristiani.
E i loro nonni combattevano contro i libici a fianco delle truppe
coloniali italiane. E poi si sa che hanno spesso in tasca i soldi per la
traversata. Per cui diventano facile mira di piccoli delinquenti e
poliziotti corrotti. Per i nigeriani, e più in generale i sub-sahariani
anglofoni, è ancora diverso. Che siano diretti in Europa oppure no, il
loro destino in Libia si scontra sistematicamente contro il pregiudizio
che si è venuto a creare contro i nigeriani, sulla scia di qualche fatto
di cronaca nera. Sono accusati di portare droga, alcol e prostituzione,
di essere autori di rapine e omicidi, e di diffondere il virus dell'Hiv.
Il professor Attir, nel 2007, ha organizzato tre seminari sul tema
dell'immigrazione nei paesi arabi. In Libia è uno dei massimi esperti.
Ed è pronto a smentire la cifre che circolano in Europa. "Due milioni di
immigrati in Libia pronti a partire per l'Italia? Non è vero". In realtà
non esistono statistiche di nessun tipo. Ma solo stime. Che però --
secondo Attir -- non sono attendibili. Basta dare un occhio in giro. La
popolazione libica è di cinque milioni e mezzo di persone. Gli stranieri
non possono ragionevolmente essere più di un milione, compresi gli
immigrati arabi egiziani, tunisini, algerini e marocchini. La maggior
parte di loro non ha mai pensato all'Europa. E la Libia ha bisogno di
loro, perché è un paese sottopopolato e perché i libici non vogliono più
fare lavori pesanti e mal retribuiti. Attir è consapevole delle
pressioni che l'Europa sta facendo sulla Libia perché sigilli le sue
frontiere. Ma sa che "non c'è modo per farlo".
La Libia ha circa 1.800 km di costa, in buona parte disabitati. Il
colonnello Khaled Musa, capo delle pattuglie anti immigrazione a
Zuwarah, non sa che farsene delle sei motovedette promesse dall'Italia.
Potrebbero servire a pattugliare meglio il tratto di mare tra la
frontiera tunisina, Ras Jdayr, e Sabratah, ammette. Ma sono solo 100 km.
Il 6% della costa libica. E le partenze si sono già spostate sul
litorale a est di Tripoli, tra Khums e Zlitan, a più di 200 km da
Zuwarah. Il dipartimento anti immigrazione di Zuwarah è nato nel 2005.
Il numero di migranti arrestati è sceso da 5.963 nel 2005 a soli 1.132
nel 2007. Per il capo del dipartimento investigazioni, Sala el Ahrali, i
dati indicano il successo delle misure repressive. Molti degli
organizzatori dei viaggi sono stati arrestati, questo sarebbe il motivo
per cui le partenze si sono ridotte. E la costa è più controllata. Ogni
dieci chilometri è installata una tenda, in mezzo alla spiaggia. Serve
da appoggio ai fuoristrada della polizia, che da due anni pattugliano la
litoranea, appoggiati da quattro motovedette della marina. Il tratto di
costa attualmente pattugliato è di una cinquantina di chilometri. Parte
da Farwah, a una decina di chilometri dalla frontiera tunisina, e
finisce 15 km a est di Zuwarah, a Mellitah, nei pressi dell'imponente
impianto di trattamento del gas di proprietà dell'Eni e della libica
National Oil Company.
E proprio da Mellitah parte il Greenstream, il gasdotto sottomarino più
lungo del Mediterraneo. Collega la Libia a Gela, in Sicilia. Ironia
della sorte, corre lungo la stessa rotta che porta i migranti a
Lampedusa. Come dire che mentre sulla superficie del mare l'Europa
dispiega le sue forze militari per bloccare il transito degli esseri
umani, otto miliardi di metri cubi di gas ogni anno scorrono silenziosi
nei 520 km di condotta posata sui fondali di quello stesso mare, in
mezzo alle ossa delle migliaia di uomini e donne morti nella traversata
del Canale di Sicilia. Un'immagine che sintetizza perfettamente le
relazioni degli ultimi cinque anni tra Roma e Tripoli, condotte
all'insegna dello slogan "più petrolio e meno immigrati"
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Le pulci sognano di comprarsi un cane,
e i nessuno di smarrire la miseria:
sognano un giorno magico
che piova d'improvviso la fortuna,
che la fortuna piova a catinelle.
Ma la fortuna non piove mai,
né ieri, né oggi, né domani,
nemmeno a goccioline,
per tanto che la invochino i nessuno,
o gli pruda la mano sinistra,
o scendano il letto col piede destro,
o comincino l'anno nuovo rinnovando la scopa.
I nulla: figlio di nulla , padroni di nulla.
I nessuno: i niente, gli annientati, i senza fiato,
morti di vita, fottuti, fottutissimi.
Quelli che ci sono senza essere.
Che non parlano lingue, ma dialetti.
Che non professano religioni, ma superstizioni.
Che non fanno arte, ma artigianato.
Che non fanno cultura, ma un folklore.
Che non sono esseri umani, ma espedienti umani.
Braccia senza volto.
Numeri senza nome,
che non figurano nella storia universale,
ma nella cronaca nera della stampa locale.
I nessuno,
che costano meno della pallottola che li uccide.
Eduardo Galeano
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