Re: [inquieto] L’ (auto)destruction, c’est de la création

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Autore: ca_favale_mlist
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To: ca_favale_mlist
Oggetto: Re: [inquieto] L’ (auto)destruction, c’est de la création
bah. il testo non era semplice e la traduzione è da riguardare anche
nella punteggiatura.
ciao ciao
A.

L' (auto)distruzione, è la creazione


La sera del 6/12 non si potrà dimenticare tanto facilmente. E questo non
perchè l'assassinio di Alexis è un fatto fuori dal comune, incredibile.

La violenza dello stato può ben provare ad organizzarsi in versioni
dominatrici di volta in volta più produttive, ma alla fine essa dovrà
costantemente tornare sui propri passi, verso una forma di violenza
dispendiosa, conservando nella sua struttura un (extra) stato che non è
in grado d'imporre l'ordine secondo i nuovi dettami della disciplina
modernizzata, fondata sulla sorveglianza e sul controllo dei corpi. In
alcuni casi esso opta per l'eliminazione dei corpi che disobbediscono,
pagando poi il prezzo politico che consegue da questa scelta.

Ogni volta che uno sbirro grida: “Ehi, tu!”, il soggetto al quale
s'indirizza quest'ordine e che gira il proprio corpo verso la direzione
del potere, verso il richiamo dello sbirro, , è per definizione
innocente, se esso però risponde alla voce che lo chiama esso produce
potere. Il soggetto che non è stato reso abbastanza docile e
disobbedisce, costituisce un caso dove il potere perde il suo
significato e diviene qualche cosa d'altro, una violazione che si deve
regolare (uno sgarro), anche se questo momento di disobbedienza si
svolge a bassa voce, anche se questa persona non ha lanciato una
bottiglia in fiamme verso la macchina degli sbirri ma una bottiglia di
plastica.

Quando l'orgoglio maschile dello sbirro-fascista viene offeso, esso si
può sentire anche in diritto di uccidere per proteggere, questa la sua
pretesa e la sua giustificazione, i suoi figli e la propria famiglia. In
altre parole, l'ordine morale e la dominazione maschile (la forma più
caratteristica di violenza simbolica e materiale instaurata dal regime
sessuale) hanno reso l'assassinio di Alexis possibile, ne sono stati la
molla, essi hanno prodotto la loro 'verità' e voilà, esso ha avuto luogo.

Con l'assassinio, arrivati al limite tragico d'una morte che dà un senso
a vite dalla flebile esistenza, ha avuto anche luogo la rivolta, questo
incredibile, imprevisto rovesciamento dei ritmi sociali, questa rottura
del tempo e dello spazio abituali, che destruttura le strutture
esistenti, che rende meno definito il confine tra ciò che esiste già e
quello che non c'è ancora.

Un momento di gioia e di gioco, di paura, di passione e di rabbia, di
confusione e di coscienza, dinamico e carico di promesse. Un momento
che, tuttavia, dovrà scegliere se aver timore di se stesso, e quindi
tenersi aggrappato a quegli automatismi che lo hanno creato, oppure
ripudiare senza posa sé stesso per arrivare a trasformarsi
continuamente, per non correre il rischio di approdare, alla fine, nel
determinismo delle rivolte soffocate nella normalità, delle rivolte che
si sono difese, e che alla fine sono diventate esse stesse un altro tipo
di potere.

Ma la rivolta come è potuta diventare possibile? Quale diritto gli
insorti si sono rivendicati, proprio in questo momento, in questo punto,
per questo corpo assassinato? Come è stato socializzato questo simbolo?
Alexis era 'il nostro Alexis', non era qualcun'altro, non era uno
straniero, non era un rifugiato. Degli studenti di 15 anni si saranno
identificati con lui, delle madri avranno avuto paura, piangendo questo
corpo, di piangere il proprio figlio, le voci di regime lo vorrebbero
santificare come un eroe nazionale. Il corpo del ragazzo aveva un
significato, la sua vita doveva ancora essere vissuta, l'interruzione di
questa vita è stato un attacco contro la sfera sociale ed è per questo
che il lutto per Alexis è possibile, anzi imperativo.

Quel proiettile ha perforato la comunità nella quale le rivoltose e i
rivoltosi hanno smesso di identificarsi, come non ci si identificava più
Alexis, ma molti tra noi hanno il privilegio di farne parte dato che gli
altri ci riconoscono come tali. La storia di Alexis sarà riscritta
partendo dalla sua fine: era un bravo ragazzo, hanno detto. La rivolta,
che non si poteva prevedere, è stata resa possibile le spaccature che si
sono create all'interno di una società che decide quali corpi hanno
un'importanza in seno alla rete sociale di relazioni di potere. La
rivolta,, questo inno alla non-normalità, è un prodotto della normalità,
essa è la vendetta per i 'nostri propri' corpi che sono stati soppressi,
per il nostro proprio corpo sociale. Questa pallottola non ha colpito
solo Alexis, ma la società intera. È stata una ferita per ogni borghese
democratico che si augura che lo stato e le sue istituzioni perseguano
la sicurezza dei cittadini, la propria sicurezza. È stata una
dichiarazione di guerra da parte dello stato nei confronti della
società. Il contratto è stato rotto, non ci sono più le basi per il
consenso. L'atto politico e morale della reistenza è divenuto possibile,
comprensibile, giusto, visibile dal momento che essa è competenza di
criteri e di termini della classe simbolica dominante che trattiene il
tessuto sociale.

Questo punto di partenza non annulla il fatto che la rivolta sia nel suo
pieno diritto d'essere. D'altronde il linguaggio del il potere, che
attribuisce un nome, una forma e un senso a tutte le cose, stabilisce e
delimita anche i campi dei significati da dove si sono attinte le
categorie sociali al fine di regolamentare le relazioni sociali
gerarchizzate. Questo potere, scegliendo bene le parole, ha ostracizzato
alcune categorie di quella comunità, le 'persone travisate'. Esso ha
cercato così di relegarli in un margine per mostrare fin dove fosse il
limite concesso della disobbedienza. Resistete, sembrava voler dire, ma
non in questo modo, perchè così è pericoloso, noi li abbiamo avvisati.
Quello che la legittimazione sociale che si è riscontrata all'inizio di
questo percorso ci dice chiaramente, a nostro parere, è che sia che ci
si trovi dentro il potere, sia che si tratti di creazioni proprie, si è
comunque dentro di lui e contro di lui, si è quello che si fa per
cambiare l'esistente, perchè questa congiuntura storica può essere
plasmata dai contenuti che noi scegliamo di metterci e non dai
significati che avrebbero potuto investirla e dei quela essa saprebbe
facilmente liberarsi in una notte.

Ed essa non può attraversare intatta il limite tra la sottomissione e
l'azione autonoma, perchè se la rivolta deve mobilitare la sua
mascolinità per lottare contro gli sbirri, nello stesso tempo la deve
contestare. Perchè è esattamente il potere con il quale lotta contro gli
sbirri. E questa ambivalenza di sentimenti al cuore della nostra
soggettività, quasta dicotomia o ci farà vacillare, compromettendoci,
oppure saremo noi a farla vacillare. Nella scelta sta la nostra statura
morale che si svolge al margine del rumore della rivolta, con noi e
attorno a noi, durante le serate tranquille in cui ci si domanda: “cosa
sta accadendo adesso?” “Cos'è che non ha funzionato al punto che adesso
si sente solo silenzio?”

Niente esiste senza il senso che gli si attribuisce. Le strategie di
resistenza possono diventare delle strategie di potere, il caos può
ristrutturare le relazioni di potere, se mentre si lotta contro il mondo
non si lotta anche con la stessa convinzione contro le nostre
personalità, che a questo mondo non sono estranee perchè in esso si sono
formate, in seno alla rete di legami morali e politici dove ha luogo il
nostro essere complici, se si costruisce un macho che diventa folle e
ingarbugliato dalle 'emozioni', se ci si fossilizza in posizioni che
rischiano di diventare una nuova forma di potere.

Donne in rivolta





ca_favale_mlist@??? ha scritto:
> ancora testi in inglese e francese...
>
> L’ (auto)destruction, c’est de la création….
>
> Le soir du 6/ 12 ne sera pas facilement oublié. Pas parce que
> l’assassinat d’Alexis était incroyable. La violence de l’état a beau
> essayer de s’organiser en des versions dominatrices plus productives,
> elle rétrogradera constamment aux débuts d’une forme de violence
> dispendieuse, en conservant dans sa structure un (extra) état qui ne
> discipline pas aux ordres de la discipline modernisée, de la
> surveillance et du contrôle des corps, or, il choisit l’extermination du
> corps désobéissant en payant le prix politique qui ressort de ce choix.
> Lorsque le flic crie : « eh, toi ! », le sujet auquel s’adresse ce
> commandement et qui tourne son corps vers la direction du pouvoir, vers
> l’appel du flic, est par définition innocent, puisqu’ il répond à la
> voix qui l’appelle en tant que produit du pouvoir. Le sujet qui ne
> discipline pas mais désobéit à cet appel, même si ce moment de
> désobéissance se déroule à voix basse, même si cette personne n’a pas
> lancé une bouteille en feu vers la voiture des flics mais une bouteille
> plastique, constitue un cas où le pouvoir perd sa signification et
> devient quelque chose d’autre, une violation qui doit se régler. Quand
> l’honneur masculin du flic- fasciste est vexé, il peut même tuer pour
> protéger, comme lui-même va prétendre, ses enfants et sa famille.
> L’ordre moral et la dominance masculine, en d’autres mots, la forme la
> plus caractéristique de violence symbolique et matérielle instaurée par
> le régime sexué, ont rendu l’assassinat d’Alexis possible, ils l’ont
> encadré, ils ont produit sa ‘vérité’ et voilà, il a eu lieu.
> Avec l’assassinat, à la limite tragique d’une mort qui donne du sens aux
> vies qui existent sous son ombre, il a eu aussi lieu la révolte, cet
> incroyable, imprévu bouleversement des rythmes sociaux, du temps et de
> l’espace brisés, des structures enfin déstructurées, de la borne entre
> celui-ci qui existe et celui-là qui viendra. Un moment de joie et de
> jeu, de peur, de passion et de rage, de confusion et de conscience, un
> moment douloureux, dynamique et fort prometteur. Un moment, pourtant,
> qui, soit il aura crainte de soi-même et maintiendra les automatismes
> qui l’ont créé soit il répudiera sans cesse soi-même afin de se
> transformer pendant tout instant qui passe, afin de ne pas aboutir au
> déterminisme des révoltes étouffées dans la normalité, des révoltes qui
> en se défendant, elles ont fini par devenir un autre type de pouvoir.
> Mais comment la révolte, a-t-elle devenue possible ? Quel droit des
> insurgés a été justifié à ce moment-là, à ce point-là, pour ce corps
> assassiné ? Comment a ce symbole été sociologisé ? Alexis était ‘notre
> Alexis’, il n’était pas quelqu’un d’autre, il n’était pas étranger, il
> n’était pas réfugié. Des élèves de 15 ans seront identifié(e)s à lui,
> des mères auront peur qu’a travers ce corps elles ne pleurent leur
> propre enfant, des vois du régime le nationaliseront en tant que héros,
> le corps du garçon avait du sens, sa vie devait être vécue, son
> interruption était une attaque contre la sphère sociale et c’est pour
> cela que le deuil pour Alexis est possible, voire impératif. Cette balle
> a percé la communauté à laquelle les révoltés et les révoltées ne
> s’identifient pas, comme ne le faisait Alexis non plus, mais nombreux et
> nombreuses entre nous ont le privilège d’en faire part puisque les
> autres nous reconnaissent en tant que tels. Le récit pour Alexis sera
> réécrit dès la fin, il était un bon garçon, ont-ils dit. La révolte,
> qu’on ne pourrait pas prévoir, s’est rendue possible à travers les
> ruptures de la société qui décide quels corps ont de l’importance au
> sein du réseau social de relations de pouvoir. La révolte, cet hymne à
> la non- normalité, est un produit de la normalité, elle est la vengeance
> pour ‘notre propre’ corps qui a été supprimé, pour notre propre corps
> social. Cette balle a percé la société entière. C’était une blessure
> pour tout bourgeois démocrate qui souhaite que l’état et ses
> institutions reflètent sa propre sécurité. C’était une déclaration de
> guerre de la part de l’état contre la société. Le contrat a été rompu,
> il n’y pas de consentement. L’acte politique et moral de la résistance
> est devenu possible, compréhensible, juste, visible du moment qu’elle
> est du ressort des critères et des termes de la classe symbolique
> dominante qui retient le tissu social.
> Ce point de départ n’annule pas le fait que la révolte est dans son
> droit. D’ailleurs, le Discours souverain, le pouvoir qui attribue un
> nom, une forme et un sens à toute chose, le champ des sens dominants où
> se sont puisées les catégories sociales afin de réglementer les
> relations sociales hiérarchisées, a ostracisé les ‘gens à cagoule’ de
> cette communauté, ils sont restreints aux limites dangereux de ses
> lisières pour pouvoir montrer le début et la fin de la désobéissance.
> Résister, mais pas ainsi, car il y du danger, nous disent-ils. Ce que la
> légitimation sociale qu’on a rencontrée aux débuts de cette marche a à
> nous dire, c’est que même si on se trouve dans le pouvoir, même si on
> est ses propres créations, on est dans lui et contre lui, on est ce
> qu’on fait pour changer ce qu’on est, pour que cette conjoncture
> historique obtienne nos propres contenus et pas les significations qui
> pourraient l’investir et dont elle ne saurait se débarrasser en une
> nuit. Et elle ne peut pas traverser intacte la limite entre la
> soumission et l’action autonome car si le révolté doit mobiliser sa
> masculinité pour lutter contre le flic, en même temps il doit la
> contester. Car c’est exactement le pouvoir avec lequel il lutte contre
> le flic. Et cette ambivalence de sentiment au cœur de notre
> subjectivité, cette dichotomie qui nous ébranle ou qui devrait nous
> ébranler, elle constitue notre grandeur morale qui se déroule en marge
> du bruit de la révolte, chez nous et autour de nous, pendant les soirées
> tranquilles qu’on se demande « Qu’est-ce qui se passe maintenant ?’,
> ‘Qu’est-ce qui n’a pas marché et on n’entend que du silence ?’.
> Rien n’existe sans le sens qu’on lui attribue. Les stratégies de
> résistance peuvent devenir des stratégies de pouvoir, le chaos va
> restructurer les relations de pouvoir, si en luttant contre le monde on
> ne lutte pas également contre nos personnalités qu’on a construites au
> sein de ce monde, au sein du réseau des liaisons morales et politiques
> ou notre accomplissement a lieu, si on construit un homme macho qui
> devient fou et embrouillé par ‘l’émotion’, si on se fige dans des
> positions qui s’épaississent en des points de pouvoir.
>
> Filles à la révolte.
>
> english translation
>
>
> (Self) destruction is creation
>
>
> Friday, December 19, 2008 (collective translation of a leaflet
> circulated in the occupied Athens School of Economics and elsewhere,
> written by the “girls in revolt”)
>
> We won’t forget the night of December 6th that easily. Not because the
> assassination of Alexis was incomprehensible. State violence, as much as
> it might try to construct itself into more productive formations of
> sovereignty, will endlessly return to dear and archetypal forms of
> violence. It will always retain within its structure a state disobeying
> the modernist command for discipline, surveillance and control of the
> body - opting, rather, for the extermination of the disobedient body and
> chosing to pay the political cost coming with this decision.
>
> When the cop shouts “hey, you”, the subject to which this command is
> directed and which turns its body in the direction of authority (in the
> direction of the call of the cop) is innocent by default since it
> responds to the voice reproaching it as a product of authority. The
> moment when the subject disobeys this call and defies it, no matter how
> low-key this moment of disobedience might be (even if it didn’t throw a
> molotov to the cop car but a water bottle) is a moment when authority
> loses its meaning and becomes something else: a breach that must be
> repaired. When the manly honour of the fascist-cop is insulted he may
> even kill in order to protect (as he himself will claim) his kids and
> his family. Moral order and male sovereignty - or else the most typical
> form of symbolic and material violence - made possible the assassination
> of Alexis; they proped the murder, produced its “truth” and made it a
> reality.
>
> Along with this, at the tragic limit of a death that gives meaning to
> lives shaped by its shade, revolt became a reality: this
> incomprehensible, unpredictable convulsion of social rhythms, of the
> broken time/space, of the structures structured no more, of the border
> between what is and what is to come.
>
> A moment of joy and play, of fear, passion and rage, of confusion and
> some consciousness that is grievous, dynamic and full of promises. A
> moment which, regardless, will either frighten itself and preserve the
> automations that created it or will deny itself constantly in order to
> become at each moment something different to what it was before: all in
> order to avoid ending up at the causalıty of revolts suffocated ın
> normalıty, revolts becoming another form of authority whilst defending
> themselves.
>
> How did this revolt become possible? What right of the insurgents was
> vindicated, at what moment, for what murdered body? How was this symbol
> socialised? Alexis was “our Alexis”, he was no “other”, no foreigner, no
> migrant. High school students could identify with him; mothers feared
> losing their own child; establishment voices would turn him into a
> national hero. The body of the 15-year old mattered, his life was worth
> living, its ending was an assault against the public sphere - and for
> this reason mourning Alex was possible and nearly necessary. This sphere
> turned against a community us who revolted don’t identify with, exactly
> like Alexis did not identify. This is a community, regardless, in which
> many of us many have the priviledge to belong since the others recognise
> us as their own. The story of Alexis will be writen from its end. He was
> a good kid, they said. The revolt, which we would have been unable to
> predict, became possible through the cracks of authority itself: an
> authority deciding what bodies matter in the social network of relations
> of power. The revolt, this hymn to social non-regularity, is a product
> of regularity… It is the revolt for “our own” body that was
> exterminated, for our own social body. The bullet was shot against the
> society as a whole. It was a wound on every bourgeiois democrat who
> wants their own security to be reflected upon the state and its organs.
> The bullet was a declaration of war against society. The social contract
> was breached - there is no consensus. The moral and political act of
> resistance became possible, understandable, just, visible at the moment
> when it came under the terms and conditions of justice of the dominant
> symbolic order encompassing the social fabric.
>
> This starting point does not cancel the righteousness of the uprising.
> Because the dominant Speech, the authority that gives name, shape and
> meaning to things, the range of dominant ideas from which the concept of
> social segmentation derives so as to control the hierarchical social
> relations have all already excluded the “hooded youths” from this
> community. They have cornered them at the community’s dangerous
> borderline in order to set the limits of disobedience.
>
> They tell us to resist but not in this fashion, they say, because it is
> dangerous. What the social legitimation we came across at the beginning
> of all this has got to tell us is that even if we are tangled in the web
> of authority, even if we are its creations, we are inside and against
> it; we are what we do in order to change who we are. We want this
> historical moment to adopt the content we have set ourselves and not the
> meanings from which it can escape overnight.
>
> It is not possible for this authority to bloodlessly cross the boundary
> between obedience and autonomous action, since if the rebels need to
> muster up their masculinity in order to fight the cop, they need to
> question it at the same time because it constitutes the authority they
> use to fight the cop. And this ambivalence lies at the heart of our
> subjectivity, it is a contradiction that tears us apart and forms the
> moral splendour that takes place in the margins of the rebellion,
> outside and inside us, on the quiet nights when we wonder what is going
> on now, what has gone wrong, and we can only hear silence.
>
> Nothing exists without the meaning assigned to it. Resistance strategies
> can turn into strategies of authority: Chaos will recreate a hierarchy
> in social relationships unless we fight with ourselves while fighting
> the world, some selves that we formed as part of this world: we have
> grown within the moral and political limits this world sets, within the
> moral-political ties in which the self comes into being… It will
> recreate itself into a hierarchy, should we not bring off male macho
> behaviour that goes berzerk and gets carried away by emotion, should we
> adopt positions that densify in positions of authority.
>
> girls in revolt
>
>
>
>
> _______________________________________________
> Ca_Favale_mlist mailing list
> Ca_Favale_mlist@???
> https://www.autistici.org/mailman/listinfo/ca_favale_mlist
>