/Dato il riemergere del caso battisti in questi giorni vi giro questa 
FAQ(presa dal sito
www.carmillaonline.com)
indipendentemente dal soggetto in questione e considerando la perenne 
distorsione dei
media , mi sembra un buon modo per diffondere ancorchè in maniera sintetica
informazioni che nel quotidiano non trapelano.
salutoni
/
/Perché Cesare Battisti fu arrestato, nel 1979?/
Fu arrestato nell’ambito delle retate che colpirono il Collettivo 
Autonomo della Barona (un quartiere di Milano), dopo che, il 16 febbraio 
1979, venne ucciso il gioielliere Luigi Pietro Torregiani.
/Perché il gioielliere Torregiani fu assassinato?/
Perché, il 22 gennaio 1979, assieme a un conoscente anche lui armato, 
aveva ucciso Orazio Daidone: uno dei due rapinatori che avevano preso 
d’assalto il ristorante Il Transatlantico in cui cenava in folta 
compagnia. Un cliente, Vincenzo Consoli, morì nella sparatoria, un altro 
rimase ferito. Chi uccise Torregiani intendeva colpire quanti, in quel 
periodo, tendevano a “farsi giustizia da soli”.
/Cesare Battisti partecipò all’assalto al Transatlantico?/
No. Nessuno ha mai asserito questo. Si trattò di un episodio di 
delinquenza comune.
/Cesare Battisti partecipò all’uccisione di Torregiani?/
No. Anche questa circostanza – affermata in un primo tempo – venne poi 
totalmente esclusa. Altrimenti sarebbe stato impossibile coinvolgerlo, 
come poi avvenne, nell’uccisione del macellaio Lino Sabbadin, avvenuta 
in provincia di Udine lo stesso 16 febbraio 1979, quasi alla stessa ora.
/Eppure è stato fatto capire che Cesare Battisti abbia ferito uno dei 
figli adottivi di Torregiani, Alberto, rimasto poi paraplegico./
E’ assodato che Alberto Torregiani fu ferito per errore dal padre, nello 
scontro a fuoco con gli attentatori.
/Perché dunque Cesare Battisti viene collegato all’omicidio Torregiani?/
Perché, per sua stessa ammissione, faceva parte del gruppo che rivendicò 
l’attentato, i Proletari Armati per il Comunismo. Lo stesso gruppo che 
rivendicò l’attentato Sabbadin.
/Cos’erano i Proletari Armati per il Comunismo (PAC)?/
Uno dei molti gruppi armati scaturiti, verso la fine degli anni ’70, dal 
movimento detto dell’Autonomia Operaia, e dediti a quella che chiamavano 
“illegalità diffusa”: dagli “espropri” (banche, supermercati) alle 
rappresaglie contro le aziende che organizzavano lavoro nero, fino, più 
raramente, a ferimenti e omicidi.
/I PAC somigliavano alle Brigate Rosse?/
No. Come tutti i gruppi autonomi non puntavano né alla costruzione di un 
nuovo partito comunista, né a un rovesciamento immediato del potere. 
Cercavano piuttosto di assumere il controllo del territorio, spostandovi 
i rapporti di forza a favore delle classi subalterne, e in particolare 
delle loro componenti giovanili. Questo progetto, comunque lo si 
giudichi (certamente non ha funzionato), non collimava con quello delle BR.
/Il magistrato Spataro, tra i PM del processo Torregiani, ha detto di 
recente che gli aderenti ai PAC non superavano la trentina./
Ha cattiva memoria. Gli indagati per appartenenza ai PAC furono almeno 
60. La componente maggiore era rappresentata da giovani operai. 
Seguivano disoccupati e insegnanti. Gli studenti erano tre soltanto.
/30 o 60 fa poca differenza./
Ne fa, invece. Cambiano le probabilità di partecipazione alle scelte 
generali dell’organizzazione, e anche alle azioni da questa progettate. 
Teniamo presente che, se le rapine attribuite ai PAC sono decine, gli 
omicidi sono quattro. La partecipazione diretta a uno di questi diviene 
molto meno probabile, se si raddoppia il numero degli effettivi.
/Cesare Battisti era il capo dei PAC, o uno dei capi?/
No. Questa è una pura invenzione giornalistica, creata negli ultimi 
mesi. Né gli atti del processo, né altri elementi inducono a 
considerarlo uno dei capi. Del resto, non aveva un passato tale da 
permettergli di ricoprire un ruolo del genere. Era un militante tra i tanti.
/In sede processuale Battisti fu però giudicato tra gli “organizzatori” 
dell’omicidio Torregiani/.
In via deduttiva. Avrebbe partecipato a riunioni in cui si era discusso 
del possibile attentato, senza esprimere parere contrario. Solo con 
l’entrata in scena del pentito Mutti – dopo che Battisti, condannato a 
dodici anni e mezzo, era evaso dal carcere e fuggito in Messico – 
l’accusa si precisò, ma ancora una volta per via deduttiva. Poiché 
Battisti era accusato da Mutti di avere svolto ruoli di copertura 
nell’omicidio Sabbadin, e poiché gli attentati Torregiani e Sabbadin 
erano chiaramente ispirati a una stessa strategia (colpire i negozianti 
che uccidevano i rapinatori), ecco che Battisti doveva essere per forza 
di cose tra gli “organizzatori” dell’agguato a Torregiani, pur senza 
avervi partecipato di persona.
/Eppure, di tutti i crimini attribuiti a Battisti, quello cui si dà più 
rilievo è proprio il caso Torregiani/.
Forse si prestava più degli altri a un uso “spettacolare” (si veda 
l’impiego ricorrente di Alberto Torregiani, non sempre pronto, per 
motivi anche comprensibili, a rivelare chi lo ferì). O forse – viste 
certe proposte recenti del ministro Castelli, in tema di autodifesa da 
parte dei negozianti – era l’episodio meglio capace di fare vibrare 
certe corde nell’elettorato di riferimento.
/Comunque, chi difende Battisti ha spesso giocato la carta della 
“simultaneità” tra il delitto Torregiani e quello Sabbadin, mentre 
Battisti è stato accusato di avere “organizzato” il primo ed “eseguito” 
il secondo./
Ciò si deve all’ambiguità stessa della prima richiesta di estradizione 
di Battisti (1991), alle informazioni contraddittorie fornite dai 
giornali (numero e qualità dei delitti variavano da testata a testata), 
al silenzio di chi sapeva. Non dimentichiamo che Armando Spataro ha 
cominciato a fornire dettagli – per meglio dire, un certo numero di 
dettagli – solo quando ha visto che la campagna a favore di Cesare 
Battisti rischiava di rimettere in discussione il modo in cui lui e gli 
altri magistrati coinvolti (Corrado Carnevali, Pietro Forno, ecc.) 
avevano condotto istruttoria e processo. Non dimentichiamo nemmeno che 
il governo italiano ha ritenuto di sottoporre ai magistrati francesi, 
alla vigilia della seduta che doveva decidere della nuova domanda di 
estradizione di Cesare Battisti, 800 pagine di documenti. E’ facile 
arguire che giudicava lacunosa la documentazione prodotta fino a quel 
momento. A maggior ragione, essa presentava lacune per chi intendeva 
impedire che Battisti fosse estradato.
/In tutti i casi, quello a Cesare Battisti e agli altri accusati del 
delitto Torregiani fu un processo regolare./
No, non lo fu, e dimostrarlo è piuttosto semplice.
/Perché il processo Torregiani, poi allargato all’intera vicenda dei 
PAC, non fu regolare?/
Precisiamo: non fu regolare se non nel quadro delle distorsioni della 
legalità introdotte dalla cosiddetta “emergenza”. Sotto il profilo del 
diritto generale, il processo fu viziato da almeno tre elementi: il 
ricorso alla tortura per estorcere confessioni in fase istruttoria, 
l’uso di testimoni minorenni o con turbe mentali, la moltiplicazione dei 
capi d’accusa in base alle dichiarazioni di un pentito di incerta 
attendibilità. Più altri elementi minori.
/I magistrati torturarono gli arrestati?/
No. Fu la polizia a torturarli. Vi furono ben tredici denunce: otto 
provenienti da imputati, cinque da loro parenti. Non un fatto inedito, 
ma certo fino a quel momento insolito, in un’istruttoria di quel tipo. I 
magistrati si limitarono a ricevere le denunce, per poi archiviarle.
/Forse le archiviarono perché non si era trattato di vere torture, ma di 
semplici pressioni un po’ forti sugli imputati./
Uno dei casi denunciati più di frequente fu quello dell’obbligo di 
ingurgitare acqua versata nella gola dell’interrogato, a tutta 
pressione, tramite un tubo, mentre un agente lo colpiva a ginocchiate 
nello stomaco. Tutti denunciarono poi di essere stati fatti spogliare, 
avvolti in coperte perché non rimanessero segni e poi percossi a pugni o 
con bastoni. Talora legati a un tavolo o a una panca.
/Se i magistrati non diedero seguito alle denunce, forse fu perché non 
c’erano prove che tutto ciò fosse realmente accaduto./
Infatti il sostituto procuratore Alfonso Marra, incaricato di riferire 
al giudice istruttore Maurizio Grigo, dopo avere derubricato i reati 
commessi dagli agenti della Digos da “lesioni” a “percosse” per assenza 
di segni permanenti sul corpo (in Italia non esisteva il reato di 
tortura, e non esiste nemmeno ora, grazie al ministro Castelli e al suo 
partito), concludeva che la stessa imputazione di percosse non poteva 
avere seguito, visto che gli agenti, unici testimoni, non confermavano. 
Dal canto proprio il PM Corrado Carnevali, titolare del processo 
Torregiani, insinuò che le denunce di torture fossero un sistema 
adottato dagli accusati per delegittimare l’intera inchiesta.
/Nulla ci dice che il PM Carnevali avesse torto./
Almeno un episodio non collima con la sua tesi. Il 25 febbraio 1979 
l’imputato Sisinio Bitti denunciò al sostituto procuratore Armando 
Spataro le torture subite e ritrattò le confessioni rese durante 
l’interrogatorio. Tra l’altro, raccontò che un poliziotto, nel 
percuoterlo con un bastone, lo aveva incitato a denunciare un certo 
Angelo; al che lui aveva denunciato l’unico Angelo che conosceva, tale 
Angelo Franco. La ritrattazione di Bitti non fu creduta, e Angelo 
Franco, un operaio, fu arrestato quale partecipante all’attentato 
Torregiani. Solo che pochi giorni dopo lo si dovette rilasciare: non 
poteva in alcun modo avere preso parte all’agguato. Dunque la 
ritrattazione di Bitti era sincera, e dunque, con ogni probabilità, 
anche le violenze con cui la falsa confessione gli era stata estorta.
/Anche ammesso il ricorso alle sevizie in fase istruttoria, ciò non 
assolve Cesare Battisti./
No, però dà l’idea del tipo di processo in cui fu implicato. Definirlo 
“regolare” è a dir poco discutibile. Tra i testi a carico di alcuni 
imputati figurarono anche una ragazzina di quindici anni, Rita Vitrani, 
indotta a deporre contro lo zio; finché le contraddizioni e le ingenuità 
in cui incorse non fecero capire che era psicolabile (“ai limiti 
dell’imbecillità”, dichiararono i periti). Figurò anche un altro teste, 
Walter Andreatta, che presto cadde in stato confusionale e fu definito 
“squilibrato” e vittima di crisi depressive gravi dagli stessi periti 
del tribunale.
/Pur ammettendo il quadro precario dell’inchiesta, c’è da considerare 
che Cesare Battisti rinunciò a difendersi. Quasi un’ammissione di 
colpevolezza, anche se, prima di tacere, si proclamò innocente./
Può sembrare così oggi, ma non allora. Anzi, è vero il contrario. A quel 
tempo, i militanti dei gruppi armati catturati si proclamavano 
prigionieri politici, e rinunciavano alla difesa perché non 
riconoscevano la “giustizia borghese”. Battisti vi rinunciò perché disse 
di dubitare dell’equità del processo.
/Tralasciate violenze e testimonianze poco attendibili in fase 
istruttoria, il processo fu però condotto a conclusione con equità./
Non proprio. Accusati minori furono colpiti con pene spropositate. Il 
già citato Bitti, riconosciuto innocente di ogni delitto, fu ugualmente 
condannato a tre anni e mezzo di prigione per essere stato udito 
approvare, in luogo pubblico, l’attentato a Torregiani. Era scattato il 
cosiddetto “concorso morale” in omicidio, direttamente ispirato alle 
procedure dell’Inquisizione. Il già citato Angelo Franco, pochi giorni 
dopo il rilascio, fu arrestato nuovamente, questa volta per associazione 
sovversiva, e condannato a cinque anni. Ciò in assenza di altri reati, 
solo perché era un frequentatore del collettivo autonomo.
/Secondo Luciano Violante, una certa “durezza” era indispensabile a 
spegnere il terrorismo. E Armando Spataro sostiene che, a questo fine, 
l’aggravante delle “finalità terroristiche”, che raddoppiava le pene, si 
rivelò un’arma decisiva./
Spezzò anche le vite di molti giovani, arrestati con imputazioni 
destinate ad aggravarsi in maniera esponenziale nel corso della 
detenzione, pur in assenza di fatti di sangue.
/Ciò non vale per Cesare Battisti, condannato all’ergastolo per avere 
partecipato a due omicidi ed eseguito altri due./
Al termine del processo di primo grado Battisti, arrestato in origine 
per imputazioni minori, si trovò condannato a dodici anni e mezzo di 
prigione. Le condanne all’ergastolo giunsero cinque anni dopo la sua 
evasione dal carcere. Ma qui è tempo di parlare dei “pentiti” e, 
soprattutto, dell’unico pentito che lo accusò. Per poi entrare nel 
merito degli altri tre delitti.
/Vediamo di capire che cos’è un “pentito”./
Se ci riferiamo ai gruppi di estrema sinistra, vengono così chiamati 
quei detenuti per reati connessi ad associazioni armate che, in cambio 
di consistenti sconti di pena, rinnegano la loro esperienza e accettano 
di denunciare i compagni, contribuendo al loro arresto e allo 
smantellamento dell’organizzazione. Di fatto una figura del genere 
esisteva già alla fine degli anni ’70, ma entra stabilmente 
nell’ordinamento giuridico prima con la “legge Cossiga” 6.2.1980 n. 15, 
poi con la “legge sui pentiti” 29.5.1982 n. 304. Manifesta i pericoli 
insiti nel suo meccanismo sia prima che dopo questa data.
/Quali sarebbero i “pericoli”?/
La logica della norma faceva sì che il “pentito” potesse contare su 
riduzioni di pena tanto più elevate quante più persone denunciava; per 
cui, esaurita la riserva delle informazioni in suo possesso, era spinto 
ad attingere alle presunzioni e alle voci raccolte qui e là. Per di più, 
la retroattività della legge incitava a delazioni indiscriminate anche a 
distanza di molti anni dai fatti, quando ormai erano impossibili 
riscontri materiali.
/Esistono esempi di questi effetti perversi?/
Il caso più clamoroso fu quello di Carlo Fioroni, che, minacciato di 
ergastolo per il sequestro a fini di riscatto di un amico, deceduto nel 
corso del rapimento, accusò di complicità Toni Negri, Oreste Scalzone e 
altre personalità dell’organizzazione Potere Operaio, sgravandosi della 
condanna. Ma anche altri pentiti, quali Marco Barbone (oggi 
collaboratore di quotidiani di destra), Antonio Savasta, Pietro Mutti 
ecc. seguitarono per anni a spremere la memoria e a distillare nomi. 
Ogni denuncia era seguita da arresti, tanto che la detenzione diventò 
arma di pressione per ottenere ulteriori pentimenti. Purtroppo ciò destò 
scandalo solo in un secondo tempo, quando la logica del pentitismo, 
applicata al campo della criminalità comune, provocò il caso Tortora e 
altri meno noti.
/Pietro Mutti fu l’accusatore principale di Cesare Battisti. Chi era?/
Figurò tra gli imputati del processo Torregiani, sebbene latitante, e 
l’accusa chiese per lui otto anni di prigione. Fu catturato nel 1982 
(dopo che Battisti era già evaso), a seguito della fuga dal carcere di 
Rovigo, il 4 gennaio di quell’anno, di alcuni militanti di Prima Linea. 
Mutti fu accusato di essere tra gli organizzatori dell’evasione.
/Di quali delitti Mutti, una volta pentito, accusò Battisti?/
Tralasciando reati minori, per tre omicidi. Battisti (con una complice) 
avrebbe direttamente assassinato, il 6 giugno 1978, il maresciallo degli 
agenti di custodia del carcere di Udine Antonio Santoro, che i PAC 
accusavano di maltrattamenti ai detenuti. Avrebbe direttamente 
assassinato a Milano, il 19 aprile 1979, l’agente della Digos Andrea 
Campagna, che aveva partecipato ai primi arresti legati al caso 
Torregiani. Tra i due delitti avrebbe partecipato, senza sparare 
direttamente ma comunque con ruoli di copertura, al già citato omicidio 
del macellaio Lino Sabbadin di Santa Maria di Sala.
/L’omicidio Sabbadin è quello di cui più si è parlato. In un’intervista 
al gruppo di estrema destra francese Bloc Identitaire, il figlio di Lino 
Sabbadin, Adriano, ha dichiarato che gli assassini del padre sarebbero 
stati i complici del rapinatore da questi ucciso./
O la sua risposta è stata male interpretata, o ha dichiarato cosa che 
non risulta da alcun atto. Meglio tralasciare le dichiarazioni dei 
congiunti delle vittime, la cui funzione, nel corso della canea contro 
Battisti, è stata essenzialmente spettacolare.
/Cesare Battisti è colpevole o innocente dei tre omicidi di cui lo 
accusò Mutti?/
Lui si dice innocente, anche se si fa carico della scelta sbagliata in 
direzione della violenza che, in quegli anni, coinvolse lui e tanti 
altri giovani. Qui però non è questione di stabilire l’innocenza o meno 
di Battisti. E’ invece questione di vedere se la sua colpevolezza fu mai 
veramente provata, nonché di verificare, a tal fine, se l’iter 
processuale che condusse alla sua condanna possa essere giudicato 
corretto. In caso contrario, non si spiegherebbe l’accanimento con cui 
il governo italiano, con il sostegno anche di nomi illustri 
dell’opposizione, ha cercato di farsi riconsegnare Battisti dalla Francia.
/A parte le denunce di Mutti, emersero altre prove a carico di Battisti, 
per i delitti Santoro, Sabbadin (sia pure in ruolo di copertura) e 
Campagna?/
No. Quando oggi i magistrati parlano di “prove”, si riferiscono 
all’incrocio da loro effettuato tra le dichiarazioni di un pentito (nel 
nostro caso Mutti) e gli indizi indirettamente forniti dai “dissociati”.
/Cosa si intende per “dissociato”?/
Chi prenda le distanze dall’organizzazione armata cui apparteneva e 
confessi reati e circostanze che lo riguardino, senza però accusare 
altri. Ciò comporta uno sconto di pena, anche se ovviamente inferiore a 
quello di un pentito.
/In che senso un dissociato può fornire indirettamente indizi?/
Per esempio se afferma di non avere partecipato a una riunione perché 
contrario a una certa azione che lì veniva progettata, pur senza dire 
chi c’era. Se nel frattempo un pentito ha detto che X partecipò a quella 
riunione, ecco che X figura automaticamente tra gli organizzatori.
/Cosa c’è che non va, in questa logica?/
C’è che sia la denuncia diretta del pentito, che l’indizio fornito dal 
dissociato, provengono da soggetti allettati dalla promessa di un 
alleggerimento della propria detenzione. La loro lettura congiunta, se 
mancano i riscontri, è effettuata dal magistrato che la sceglie tra 
varie possibili. Inoltre è comunque il pentito, cioè colui che ha 
incentivi maggiori, a essere determinante. Tutto ciò in altri paesi (non 
totalitari) sarebbe ammesso in fase istruttoria, e in fase 
dibattimentale per il confronto con l’accusato. Non sarebbe mai 
accettato con valore probatorio in fase di giudizio. In Italia sì.
/Nel caso di Battisti mancano altri riscontri?/
Vi sono solo dei riconoscimenti di testi che lo stesso magistrato 
Armando Spataro ha definito poco significativi. Espressione a dir poco 
“benigna”. Nel caso dell’agente Campagna, i testi indicarono due autori 
dell’attentato: una donna e un uomo barbuto alto 1,90. Il pentito Mutti 
fornì i nomi per identificarli. Ebbene, Battisti è di bassa statura (e 
all’epoca non portava la barba, anche se naturalmente poteva averne una 
falsa). La “complice” accusata da Mutti fu completamente prosciolta nel 
1994, per non avere commesso il fatto.
/Ma il pentito Pietro Mutti non può essere ritenuto credibile? Vi sono 
motivi per asserire che sia mai caduto nel meccanismo “Quanto più 
confesso, tanto meno resto in prigione”?/
Sì. Le denunce di Pietro Mutti non riguardarono solo Battisti e i PAC, 
ma furono a 360 gradi, e si indirizzarono nelle direzioni più svariate. 
La più clamorosa riguardò l’OLP di Yasser Arafat, che avrebbe rifornito 
di armi le Brigate Rosse. In particolare, elencò Mutti, “tre fucili 
AK47, 20 granate a mano, due mitragliatrici FAL, tre revolver, una 
carabina per cecchini, 30 chilogrammi di esplosivo e 10.000 detonatori” 
(mica tanto, a ben vedere, a parte il numero incongruo dei detonatori; 
mancava solo che Arafat consegnasse una pistola ad aria compressa). Il 
procuratore Carlo Mastelloni poté, sulla base di questa preziosa 
rivelazione, aggiungere un fascicolo alla sua “inchiesta veneta” sui 
rapporti tra terroristi italiani e palestinesi, e chiamò persino in 
giudizio Yasser Arafat. Poi dovette archiviare il tutto, perché Arafat 
non venne e il resto si sgonfiò.
/Ciò ha a che vedere con le armi, provenienti dal Fronte Popolare per la 
Liberazione della Palestina, mercanteggiate nel 1979 da tale Maurizio 
Follini, che Armando Spataro dice essere stato militante dei PAC?/
Questo Follini era mercante d’armi e, secondo alcuni, spia sovietica. Fu 
tirato in ballo da Mutti, ma in relazione ad altri gruppi. Conviene 
stendere un velo pietoso. Dopo avere notato, però, quanto le rivelazioni 
di Mutti tendessero al delirio.
/Mutti non sarà attendibile per altre inchieste, ma nulla ci garantisce 
che, almeno sui PAC, non dicesse la verità./
Ho già detto che nel 1994 la Cassazione mandò assolta una coimputata di 
Battisti, anche lei denunciata da Mutti per il delitto Campagna. Parlo 
del 1994. Per dieci anni la magistratura aveva creduto, a suo riguardo, 
alle accuse del pentito. Ciò dovrebbe commentarsi da solo. Ma c’è da 
aggiungere che molte volte, nel corso dei processi, Mutti addossò a 
Battisti colpe proprie o di propri amici, salvo essere costretto a 
ritrattare di fronte all’evidenza dei fatti.
/Un esempio?/
Il delitto Santoro, materialmente eseguito dallo stesso Mutti e da un 
complice di nome Giacomin (che confessò). Sulle prime, il pentito 
addossò a Battisti la responsabilità di avere sparato. Successivamente, 
messo alle strette, declassò la funzione di Battisti a quella di autista.
/Armando Spataro parla di valide testimonianze a carico di Battisti./
E’ vero. Peccato che resti sul vago, e non sappia indicarne nemmeno una.
/Anche ammesso che il processo che ha portato alla condanna di Cesare 
Battisti sia stato viziato da irregolarità e imperniato sulle 
deposizioni di un pentito poco credibile, è certo che Battisti ha potuto 
difendersi nei successivi gradi di giudizio./
Non è così, almeno per quanto riguarda il processo d’appello del 1986, 
che modificò la sentenza di primo grado e lo condannò all’ergastolo. 
Battisti era allora in Messico e ignaro di ciò che avveniva a suo danno 
in Italia.
/Il magistrato Armando Spataro ha detto che, per quanto sfuggito di sua 
iniziativa alla giustizia italiana, Battisti poté difendersi in tutti i 
gradi di processo attraverso il legale da lui nominato./
Ciò è vero solo per il periodo in cui Battisti si trovava ormai in 
Francia, e dunque vale essenzialmente per il processo di Cassazione che 
ebbe luogo nel 1991. Non vale per il processo del 1986, che sfociò nella 
sentenza della Corte d’Appello di Milano del 24 giugno di quell’anno. A 
quel tempo Battisti non aveva contatti né col legale, pagato dai 
familiari, né con i familiari stessi. E’ stato provato che, circa la 
nomina del difensore, lasciò mandati in bianco, poi compilati da altri.
/Questo lo dice lui/.
Be’, lo dice anche l’avvocato Giuseppe Pelazza di Milano, che si assunse 
la difesa, e lo dicono i familiari. Ma certamente si tratta di 
testimonianze di parte. Resta il fatto che Battisti non ebbe alcun 
confronto con il pentito Mutti che lo accusava. Si era sottratto al 
carcere, d’accordo; però il dato oggettivo è che non poté intervenire in 
un procedimento che commutava la sua condanna da dodici anni di prigione 
in due ergastoli, e gli attribuiva l’esecuzione di due omicidi, la 
partecipazione a svariato titolo ad altri due, alcuni ferimenti e una 
sessantina di rapine (cioè l’intera attività dei PAC). Questo era ed è 
ammissibile per la legge italiana, ma non per la legislazione di altri 
paesi che, pur prevedendo la condanna in contumacia, impone la 
ripetizione del processo qualora il contumace sia catturato.
/Riferisce Armando Spataro che la Corte dei Diritti umani di Strasburgo 
ha giudicato garantito l’imputato nella prassi italiana del processo in 
contumacia./
Vero. Ma il magistrato Spataro si riferisce a una sola sentenza, e 
dimentica tutte quelle in cui la stessa Corte ha raccomandato all’Italia 
di adeguarsi alle norme vigenti nel resto d’Europa in tema di 
contumacia. D’altra parte è giurisprudenza costante della Corte dei 
Diritti umani ritenere legittimo il processo in contumacia solo se 
l’imputato è stato portato a conoscenza del procedimento a suo carico. 
Ciò nel caso di Cesare Battisti non è dimostrabile. E non basta nemmeno 
che il suo avvocato sia stato avvisato. Secondo l’art. 42 del codice di 
deontologia della Corte di Strasburgo, l’avvocato rappresenta 
effettivamente il cliente solo se 1) il primo si conforma alle decisioni 
del secondo circa le finalità del mandato a rappresentarlo; 2) 
l’avvocato si consulta col cliente circa i modi per perseguire tali 
finalità. Il punto 2), per quanto riguarda il processo d’appello del 
1986, non è sicuramente stato applicato, e anche il punto 1) è dubbio. 
Nulla dimostra che Battisti abbia avuto notizia del processo che lo 
riguardava, e gli elementi esistenti tendono a provare il contrario.
/Questi sono cavilli che non dimostrano nulla, e che dimenticano la 
sostanza della questione seppellendola sotto forme giuridiche./
Ma Battisti non è tenuto a provare niente! L’onere della prova spetta a 
chi lo accusa. Quanto alla sostanza della questione, vediamo di 
ricapitolarla: 1) un’istruttoria che nasce da confessioni estorte con 
metodi violenti; 2) una serie di testimonianze di elementi incapaci per 
età o facoltà mentali; 3) una sentenza esageratamente severa; 4) un 
aggravio della stessa sentenza dovuta all’apparizione tardiva di un 
“pentito” che snocciola accuse via via più gravi e generalizzate, 
cadendo in infinite contraddizioni. Il tutto nel quadro di una normativa 
inasprita e finalizzata al rapido soffocamento di un sommovimento 
sociale di largo respiro, più ampio delle singole posizioni.
/Inutile menare il can per l’aia. Cesare Battisti non ha mai manifestato 
pentimento./
Il diritto moderno – l’ho già detto - reprime i comportamenti illeciti e 
ignora le coscienze individuali. Reclamare un pentimento qualsiasi era 
tipico di Torquemada o di Vishinskij.
/Battisti ha persino esultato quando è stato liberato./
Non è un comportamento così bizzarro. Figurarsi come si può esultare 
all’uscita da una prigione, e per il rinvio di una trasferta forzata 
verso il carcere a vita. Ne sa qualcosa Paolo Persichetti, che da quando 
è stato estradato viene sbattuto da un penitenziario all’altro, e 
inizialmente si è visto persino negare gli strumenti per scrivere.
/Non si può liquidare così, in una battuta, un problema più complesso./
Esatto. Non si può liquidare così il problema più generale dell’uscita, 
una buona volta, dal regime dell’emergenza, con le aberrazioni 
giuridiche che ha introdotto nell’ordinamento italiano.