[NuovoLab] RIFLESSIONI SU GAZA

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Szerző: Sergio Casanova
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RIFLESSIONI SU GAZA

L’ennesimo massacro premeditato contro la striscia di Gaza, lanciato da Israele il 27 dicembre, che si prevede lungo e che nei primi tre giorni ha già provocato la morte di oltre 400 persone, è tutto tranne che un atto difensivo.
Certo, Israele aspettava un pretesto e dato che la tregua unilateralmente dichiarata da Hamas sei mesi fa reggeva, come ha ben ricostruito Joseph Halevi sul Manifesto del 30 dicembre, il 4 novembre scorso è stata formalmente rotta da Israele. Un copione ben noto. Come note erano le proporzioni, preannunciate da tutti gli alti papaveri del potere politico e militare israeliano, della vendetta contro la popolazione di Gaza architettata nei dettagli da lungo tempo.
Questo dato incontrovertibile smonta anche il debolissimo pretesto di Israele per lanciarsi in modo cannibale contro i palestinesi di Gaza.
Smonta anche i balbettii ipocriti di chi cerca in tutti i modi di nascondere le proprie responsabilità dietro i razzi Qassam. A volte è meglio il silenzio dell’ipocrisia!

Gli obiettivi del massacro

All’indomani dell’aggressione contro il Libano nel 2006, alcuni generali israeliani preannunciarono entro due anni una vendetta che lavasse l’onta della sconfitta politica e militare subita, nonostante la devastazione di un Paese intero.
I due anni coincidono con la fine dell’amministrazione statunitense guidata da Bush, artefice del più volgare oltranzismo pro sionista degli ultimi vent’anni. Qualcuno ricorderà che addirittura Reagan, nel 1982, dopo lo shock dell’assedio di Beirut e delle stragi di Sabra e Chatila, ricattò Begin, allora primo ministro israeliano, con una fornitura di F16 se non avesse almeno ritirato le truppe da Beirut.
Oggi in parte si ripete il copione dell’aggressione al Libano di due anni fa.
Dei civili, soli, affamati, disarmati contro tutti e nulla per difendersi. Nessuna pietà per un milione e mezzo di persone sotto embargo da oltre due anni. Una punizione collettiva di proporzioni enormi, che se fossimo in un mondo appena civile dovrebbe vedere alla sbarra per crimini contro l’umanità chi lo attua, Israele, chi lo sostiene, USA e Europa, e anche chi lo giustifica, anche solo parzialmente.
Ora i vertici militari e politici israeliani sono stati fin troppo chiari: Hamas deve essere «sradicato», il controllo della striscia di Gaza (o meglio di ciò che ne resterà…) deve passare all’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen.
Questo è il vero obiettivo. Ormai troppe volte si è ripetuto che quel governo è legittimo perché esito di elezioni, il cui carattere democratico non è stato mai messo in dubbio da alcuno. Neanche da quella Hillary Clinton (all’epoca delle elezioni politiche palestinesi del gennaio 2006 faceva parte degli osservatori internazionali e si congratulò con i palestinesi per la gestione di quelle elezioni!), che sarà la prossima segretaria di Stato statunitense e che oggi non ha nulla da dire, come colui che l’ha chiamata a quella carica: Barak Hussein Obama. Il quale, è meglio ribadirlo, non rappresenta alcuna speranza per le aspirazioni legittime dei popoli che oggi lottano per la propria libertà. Egli, avrà, comunque, non poche gatte da pelare. Gatte da pelare tutte ampiamente meritate.
Certamente non sarà sufficiente spostare più truppe in Afghanistan, per togliersi dal pantano mediorientale, che ora dopo questi massacri indiscriminati diventerà ancora più ingestibile.
La «mano tesa» da Obama verso il dialogo con l’Iran, per ridurne la potenzialità regionale, rischia grosso di ricevere un morso.
Ancora una volta la compagnia degli apprendisti stregoni è destinata a non superare l’esame e restare a livello di apprendista.
I problemi interni allo Stato sionista che hanno pesato almeno quanto la resistenza di Hezbollah nella sconfitta del 2006 sono tutti interi e non risolti!
E ciò che è avvenuto nelle scorse settimane in Cisgiordania, con gli scontri tra i coloni e l’esercito israeliano, denuncia che le fratture interne alla società israeliana esploderanno e che questa vendetta per il momento è un tampone.
Come dicono i palestinesi, due israeliani non sono mai d’accordo su alcunché tranne che sull’ammazzare i palestinesi!

Sulla via di Abdallah I e di Sadat

L’elemento più scandaloso, anche se non sorprendente, è l’aperta complicità dei Paesi arabi, cosiddetti moderati e della leadership dell’ANP in questo massacro.
Ripetiamo, non è sorprendente che Mubarak l’egiziano, Abdallah II il giordano e Mahmud Abbas il palestinese, pensino di poter sfruttare a loro vantaggio queste montagne di morti. Ciò che stupisce è la stupidità. Profonda.
Dopo aver avallato l’assalto, premurandosi di «chiedere che fosse breve e mirato» (sic!), Mahmud Abbas getta la maschera e fra le montagne di cadaveri di Gaza assume come propria la versione israeliana: tutta responsabilità di Hamas, se si fosse piegata al suo volere a Gaza oggi «fiorirebbe il deserto».
Come è stato opportunamente osservato, Abbas non può non sapere che ha un’unica possibilità di rientrare a Gaza: scortato dai mezzi corazzati israeliani. Che accoglienza si attende?
E mentre le piazze del mondo arabo si riempiono di migliaia di dimostranti contro l’assalto ma anche, e forse soprattutto, contro l’avallo arabo, possibile che a nessuno torni in mente la fine fatta da quel re Abdallah I di Giordania, ucciso da un palestinese a Gerusalemme nel 1951 dopo gli accordi raggiunti con Golda Meir; di Anwar Sadat, ucciso nel 1981 da un ufficiale dell’esercito egiziano, mentre pensava di raccogliere i frutti dell’entrata trionfale nella Knesset (il parlamento israeliano)? Evidentemente non ricordano e fanno molto male.
Fanno male perché la disperazione del tradimento esplicito e rivendicato può accendere micce ben più lunghe e veloci di molte altre cose.
Inoltre, l’Egitto si trova con un problema in più: dover respingere alla frontiera di Rafah donne, bambini e vecchi che cercano rifugio dai bombardamenti e i feriti che non possono più essere curati nei già disastrati ospedali di Gaza.
In Giordania si bruciano le bandiere israeliane, in parlamento.
Mentre nelle città della Cisgiordania i palestinesi tornano a lanciare pietre contro l’esercito israeliano e fare manifestazioni possenti e scioperi generalizzati.
I palestinesi di cisgiordania sanno bene che la strategia di fondo di Israele è quella di sempre: «regalare» Gaza all’ANP per non dover fare «troppe concessioni» in Cisgiordania. Quanto tempo impiegheranno a rivoltarsi massicciamente, ben più di quanto non sia avvenuto fino ad oggi, contro la stessa autorità palestinese, la cui burocrazia è saldamente installata al governo di Ramallah?
Mahmud Abbas rischia di essere il leader palestinese più isolato dal suo popolo che la storia di questo popolo martoriato ricordi.
È chiaro, d’altronde, che l’ANP in Cisgiordania, oltre che a Gaza, ha perso qualsiasi capacità di «sentire il polso» della popolazione.
Se è vero che attraverso il sistema elettorale, in Cisgiordania, Fatah e l’ANP hanno una risicata maggioranza nelle istituzioni è bene ricordare che questa si basa ed è «protetta» dal fatto che decine di deputati eletti al parlamento e che sono espressione di Hamas, giacciono da anni nelle carceri israeliane, nel silenzio più totale. All’epoca degli arresti dei deputati e delle deputate da parte di Israele, esattamente come ora, l’ANP pensò di essere riuscita a togliersi dei problemi. O meglio, pensò di poter nascondere, prima di tutto a se stessa, un dato di fatto: nonostante tutto anche in Cisgiordania Hamas è ben più popolare di Fatah, delle forze della sinistra palestinese e di quelle che sono espressione della cosiddetta «società civile».
Dire questo non significa, in alcun modo, approvare incondizionatamente le strategie e le tattiche di Hamas. Ma ignorare questi dati significherà a breve farsi travolgere dagli eventi.
Eventi che evidentemente non possono, dati i presupposti, che essere favorevoli all’integralismo islamico…non solo in Palestina.

Noi e loro

Già in diverse occasioni abbiamo sottolineato che molte delle contraddizioni esplose in Medioriente all’indomani del 2001 e l’avvio ufficiale, nel 2003, del tentativo di ricolonizzare quella parte del mondo manu militari a partire dall’Iraq, si sono riflesse in Europa sotto forma di confusione quasi totale sulle loro implicazioni concrete.
Nelle ore immediatamente successive all’inizio dei massacri in non poche capitali europee manifestazioni organizzate in brevissimo tempo hanno visto la protesta di alcune migliaia di persone.
Londra, Parigi, Madrid, Ginevra e, anche se più debolmente che altrove, Roma. Certo è cosa importante. Soprattutto tenendo conto di due fattori importanti: fino a oggi dalle lotte contro i costi della crisi economica mondiale, la guerra sembrava espunta, come fosse un argomento a parte; l’ubriacatura mediatica sui «cambiamenti» che avrebbe portato con sé l’elezione di Barak Hussein Obama alla Casa Bianca.
Come non mai siamo, ora, in una fase in cui rischiamo anche in Europa di finire come il movimento «pacifista» israeliano che in maggioranza, come fu osservato giustamente tempo fa: ha il suo Vaticano a Washington. Questo rischio porta con sé, inoltre, anche un secondo elemento di grave incomprensione: perché larghe masse statunitensi hanno appoggiato Obama.
Ma restiamo a noi.
Nel quadrante mediorientale noi europei, non dimentichiamolo, siamo pesantemente presenti all’interno di una missione NATO/ONU in Libano.
Non possiamo pensare beatamente che nelle prossime settimane queste truppe «di pace» continuino a restare immuni dal conflitto.
Il Libano è stato, fin dalle prime ore del massacro a Gaza, uno dei Paesi arabi dove le manifestazioni sono state più massicce. E non possiamo dimenticare che il caos determinato dalla aggressione del 2006 ha determinato una situazione interna delicatissima e molto fragile: continuamente sul filo del rasoio.
È del tutto chiaro che in questa situazione chi si avvantaggerà è Hezbollah, che dal canto suo ha già promesso un «aiuto concreto» ai palestinesi di Gaza.
Ancora una volta, sembrerebbe, ripetersi senza troppe varianti lo scenario dell’estate del 2006. Con una variabile che ci coinvolge direttamente: le «nostre» truppe nel quadro di guerra.
Dovremmo, per una volta, fare lo sforzo di avere la lungimiranza e non aspettare che Israele allarghi il teatro delle aggressioni.
Chiedere ora il ritiro di quelle truppe NATO e lo smantellamento di quella missione è più urgente che mai. Non ci si può illudere, come avvenne miseramente nel 2006, che l’odierna «mediazione» europea porti a una qualche soluzione. Neanche ora che Ehud Barak, incallito criminale di guerra, «apre a una tregua umanitaria». Non confondiamo i termini delle questioni. A Gaza non c’è una «emergenza umanitaria», ma è in atto da anni un crimine di guerra. Quindi ciò che è da ribadire è che con i criminali di guerra, l’intero governo israeliano e i vertici dell’esercito, non si tratta!
Sarkozy, Kouchner, Merkel, Frattini (e con poche varianti Fassino e D’Alema), puntano solo a che non si allarghi lo scenario. Quando la Livni sbarcherà a Parigi il 2 gennaio, speriamo sia accolta da persona non grata e da un’accusa per crimini di guerra. Come chiedono da dentro Israele.
È una colossale balla la teoria che vuole che, ben inteso dopo lo «sradicamento» di Hamas o almeno il suo indebolimento, si possa «tornare alla via del dialogo». Per la sola, ma ottima, ragione che non esiste alcun dialogo interrotto.
Dopo il via libera totale avuto da Israele, non c’è alcuna ragione perché esso debba tornare sui suoi passi. Non lo indurrà a ciò neanche dovesse, speriamo di no, accadere qualche atto spettacolare di disperata reazione, con molte vittime civili israeliane.
Boicottaggio, sanzioni ed estromissione dalle istituzioni internazionali. Queste sono le sole richieste credibili per cercare di evitare che altre tragedie ben più gravi di quelle fin qui viste (compreso l’11 settembre 2001) si verifichino.


Cinzia Nachira
31 dicembre 2008


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