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From: peste
To: no-psichiatria@???
Sent: Wednesday, December 03, 2008 9:49 PM
Subject: [no-psichiatria] evviva l'energia!... elecktrika!!!
L'elettroshock di Ugo Cerletti e la psichiatria da mattatoio di Francesco
Lamendola
- 14/01/2008
Fonte: Arianna Editrice
fonte:
http://www.ariannaeditrice.it/scheda_fonte.php?id=1
È ormai diffusa presso un vasto pubblico la teoria di Thomas S. Szasz -
scienziato ungherese emigrato in America nel 1938 per motivi politici, - ed
esposta nel suo libro Il mito della malattia mentale (edizione originale
New York, 1961; traduzione italiana Milano, Il Saggiatore, 1966), secondo
la quale, nella società di massa, la psichiatria viene usata
massicciamente come una forma di tranquillante sociale. In realtà, per
Sasz la psichiatria è una pseudoscienza e, più precisamente, una forma di
pseudomedicina, che si fonda in partenza su di una nozione assolutamente
infondata: quella di "malattia mentale". Queste idee sono esposte in forma
più sintetica, ma altrettanto efficace, in un altro suo breve saggio, La
psichiatria a chi giova?, contenuto nel volume antologico Crimini di pace.
Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti alla repressione,
pubblicato più di trenta anni fa a cura di Franco Basaglia e Franca
Basaglia Ongaro (Einaudi, Torino, 1975), ma apparso originariamente sulla
rivista americana Psychotherapy: Teory, research and Practice, vol. VIII,
n.1, primavera 1971, con il titolo From the Slaughterhouse to the Madhouse.
In esso lo studioso ungherese si sofferma sull'introduzione
dell'elettroshock in psicoterapia da parte di Ugo Cerletti (1877-1963),
come tipico esempio di quella violenza istituzionalizzata che caratterizza
la cura delle malattie mentali: ricovero coatto, imposizione forzata della
terapia, rapporto autoritario fra medico e paziente, equiparabile a quello
fra medico e cavie animali da laboratorio. Ma come era nata, nella mente
dello psichiatria italiano, l'idea di ricorrere all'elettroshock come
terapia delle malattie mentali? Forse non molti lo sanno: nacque in un
mattatoio, ove il Cerletti aveva osservato come i maiali condotti al
macello venissero prima "anestetizzati" con una scarica elettrica a medio
voltaggio; ciò che gli suggerì l'idea di applicare tale forma di
"terapia" a dei soggetti umani che, stante la pericolosità del
trattamento, inizialmente furono prelevati, con la forza, dal regio
commissariato di Roma. Eppure il "mito" dell'elettroshock, come forma di
medicina buona, è durato a lungo e, in parte, sopravvive ancor oggi.
Mentre la sua città natale, Conegliano in provincia di Treviso, ha
dedicato all'illustre concittadino uno dei suoi istituti scolastici più
prestigiosi, la Scuola di Enologia, ancora nel 1963, l'anno della scomparsa
di Cerletti, la pur eccellente Enciclopedia Garzanti tascabile, in due
volumi, alla voce elettroshock recitava alquanto ottimisticamente:
"Elettroterapia per malattie nervose e mentali che provoca violente
convulsioni di tipo epilettoide. Conferisce notevole resistenza a diversi
fattori morbosi [?] e migliora i sintomi di varie malattie mentali." È lo
stesso Cerletti a rievocare la genesi della sua 'invenzione' in una pagina
autobiografica di brutale franchezza; che, quanto meno, possiede il merito
di non abbellire ipocritamente la realtà e di non edulcorare le
circostanze alquanto drammatiche in cui nacque e mosse i primi passi la
nuova tecnica psichiatrica a base di scosse elettriche nel cervello del
paziente. Si tratta di una pagina scritta nel 1956, dunque a diciotto anni
di distanza da quel lontano giorno del 1938 in cui, professore
all'Università di Roma, si vide condurre dai poliziotti un presunto malato
di mente dal commissariato, e lo utilizzò come cavia per sperimentare
l'elettroshock; tuttavia il suo racconto è vivido, come se narrasse un
evento accaduto il giorno prima. "Vanni mi informò che al macello di Roma
i maiali venivano ammazzati con la corrente elettrica. Questa informazione
sembrava confermare i miei dubbi sulla pericolosità dell'applicazione
dell'elettricità all'uomo. Mi recai al macello per osservare questa
cosiddetta macellazione elettrica, ,e notai che ai maiali venivano
applicate alle tempie delle tenaglie metalliche collegate alla corrente
elettrica (125 volt). Non appena queste tenaglie venivano applicate, i
maiali perdevano conoscenza, si irrigidivano e poi, dopo qualche secondo,
erano presi da convulsioni, proprio come i cani che noi usavamo per i
nostri esperimenti. Durante il periodo di perdita della conoscenza (coma
epilettico) il macellaio accoltellava e dissanguava gli animali senza
difficoltà. Non era vero, pertanto, che gli animali venissero ammazzati
dalla corrente elettrica, che veniva invece usata, secondo il suggerimento
della Società per la prevenzione del trattamento crudele degli animali,
per poter uccidere i maiali senza farli soffrire. "Mi sembrò che i maiali
del macello potessero fornire del materiale di grandissimo valore per i
miei esperimenti. E mi venne inoltre l'idea di invertire la precedente
procedura sperimentale: mentre negli esperimenti sui cani avevo tentato
sempre di utilizzate la minima quantità di corrente,, sufficiente a
provocare un attacco senza causar danno all'animale, decisi ora di
stabilire la durata temporale, il voltaggio e il metodo di applicazione
della corrente, necessari a provocare la morte dell'animale. L'applicazione
di corrente elettrica sarebbe stata dunque attraverso il cranio, in diverse
direzioni, e attraverso il tronco, per parecchi minuti. La prima
osservazione che feci fu che gli animali raramente morivano, , e questo
solo quando la durata del flusso di corrente elettrica passava per il corpo
e non per la testa. Gli animali ai quali veniva applicato il trattamento
più severo rimanevano rigidi mentre durava il flusso do corrente
elettrica, poi dopo un violenti attacco di convulsioni, restavano fermi su
un fianco per un poco, alcune volte per parecchi minuti, e finalmente
tentavano di rialzarsi. Dopo molti tentativi di ricuperare le forze,
riuscivano finalmente a reggersi in piedi e a far qualche passo esitante,
finché erano in grado di scappar via. Queste osservazioni mi fornirono
prove convincenti del fatto che un'applicazione di corrente da 125 volt
della durata di alcuni decimi di secondo sulla testa, sufficiente a causare
un attacco completo, non arrecava alcun danno. "A questo punto, ero
convinti che avremmo potuto tentare di fare degli esperimenti sugli uomini,
e diedi istruzione ai miei assistenti affinché tenessero aperti gli occhi
per selezionare un soggetto adatto. "Il 15 aprile 1938 il commissario di
polizia di Roma mandò nel nostro Istituto un individuo con la seguente
nota di accompagnamento: «S. E., trentanove anni, tecnico, residente in
Milano, arrestato nella stazione ferroviaria mentre si aggirava senza
biglietto sui treni in procinto di partire. Non sembra essere nel pieno
possesso delle sue facoltà mentali, e lo invio nel vostro ospedale perché
venga posto sotto osservazione…». Le condizioni del paziente al 18
aprile erano le seguenti: lucido, ben orientato. Descrive, usando
neologismi, idee deliranti dicendo di essere influenzato telepaticamente da
interferenze sensoriali; la minima corrisponde al senso delle parole; stato
d'animo indifferente all'ambiente, riserve affettive basse; esami fisici e
neurologici negativi; presenta cospicua ipoacusia e cataratta all'occhio
sinistro. Si arrivò ad una diagnosi di sindrome schizofrenica sulla base
del suo comportamento passivo, l'incoerenza, le basse riserve affettive,
allucinazioni, idee deliranti riguardo alle influenze che diceva di subire,
i neologismi che impiegava. "Questo soggetto fu scelto per il primo
esperimento di convulsioni elettricamente indotte sull'uomo. Si applicarono
due grandi elettrodi alla regione frontoparietale dell'individuo, e decisi
di iniziare con cautela, applicando una corrente di bassa intensità, 80
volts, per 0,2 secondi. Non appena la corrente fu introdotta, il paziente
reagì con un sobbalzo e i suoi muscoli si irrigidirono; poi ricadde sul
letto senza perdere conoscenza. Cominciò improvvisamente a cantare a voce
spiegata, poi si calmò. "Naturalmente noi, che stavamo conducendo
l'esperimento, eravamo sottoposti a una fortissima tensione emotiva, e ci
pareva di aver già corso un rischio notevole. Nonostante ciò, era
evidente per tutti che avevamo usato un voltaggio troppo basso. Si propose
di lasciare che il paziente si riposasse un poco e di ripetere
l'esperimento il giorno dopo. Improvvisamente il paziente, che
evidentemente aveva seguito la nostra conversazione, disse, chiaramente e
solennemente, senza alcuna parvenza della mancanza di articolazione del
discorso che aveva dimostrato fino ad allora: 'Non un'altra volta! È
terribile!' "Confesso che un simile esplicito ammonimento, in quelle
circostanze, tanto enfatico ed autorevole, fatto da una persona il cui
gergo enigmatico era stato fino a quel momento assai difficile da
comprendere, scosse la mia determinazione di continuare l'esperimento. Ma
fu solo il timore di cedere ad un'idea superstiziosa che mi fece decidere.
Gli elettrodi furono applicati nuovamente, e somministrammo una scarica di
110 volts per 0,2 secondi. » Dunque, Cerletti conduceva da anni
esperimenti su cani, consistenti nel sottoporre le povere bestie a scariche
elettriche, e nel corso dei quali alcune di esse erano morte; poi,
osservando l'uso dell'elettricità effettuato dal macellaio nel mattatoio
comunale, sui maiali destinati all'uccisione, gli venne l'idea di dirigere
tali scariche, di ben 125 volts, direttamente sul cervello dei pazienti;
infine sperimentò la nuova tecnica su un poveretto che era stato trovato
in stato confusionale dalla polizia ferroviaria di Roma, e che gli era
stato affidato perché le autorità non sapevano bene cosa farne. Il
paziente, come viene eufemisticamente chiamato, non era affatto
consenziente e non era stato portato in ospedale per altra ragione se non
per essere curato. Questo, veramente, è il solo punto non troppo chiaro
della narrazione. Che cosa intende Cerletti, quando afferma di aver dato
istruzioni ai suoi collaboratori di tenere gli occhi spalancati per
individuare un soggetto adatto all'esperimento? E il commissariato di Roma
gli spedì quell'uomo di propria iniziativa, o su sua richiesta o su sua
segnalazione? E, a monte di ciò: perché il povero impiegato milanese si
trovava in commissariato e non in una struttura sanitaria, visto che era
stato fermato alla stazione in stato confusionale, ma non aveva commesso
alcun reato, tranne quello di vagare senza scopo apparente da un treno
all'altro? Perché non era stato semplicemente restituito alla propria
famiglia o, almeno, perché il suo ritrovamento non era stato ad essa
segnalato; e perché non si era pensato di prendere contatto con il suo
medico curante, a Milano? Molto, poi, ci sarebbe da dire sulla diagnosi di
schizofrenia frettolosamente formulata dallo stesso Cerletti, perché,
nonostante la scarsità delle indicazioni, non sembra che i sintomi
segnalati permettano di arrivare a conclusioni così drastiche sulla natura
del suo disturbo. In ogni caso, è evidente - perché lo stesso psichiatra
lo afferma a chiare note - che il povero S. E. venne sottoposto al
trattamento del cosiddetto elettroshock contro la sua volontà, e che tale
trattamento venne reso più rischioso da un aumento del voltaggio della
scarica elettrica. In altre parole, il paziente avrebbe potuto morire e, in
tal caso, non stentiamo a immaginare che la famiglia avrebbe ricevuto una
versione di comodo dell'accaduto; ossia, in pratica, non sarebbe mai venuta
a conoscenza delle reali circostanze in cui si era svolta la "terapia"
praticatagli. Inoltre, avrebbe potuto riportare lesioni talmente gravi e
permanenti al cervello, da lasciarlo menomato per tutto il resto della sua
vita; e - per quel che ne sappiamo -, non siamo neanche del tutto certi che
ciò non si sia effettivamente verificato. Ma che razza di terapia è
quella che viene eseguita a un malato senza il suo assenso e, anzi, contro
la sua esplicita volontà; che potrebbe ucciderlo o produrgli danni
permanenti, senza che ciò sia richiesto dalle condizioni del paziente o,
almeno, senza che ciò appaia come un rischio accettabile a fronte di un
grave e immediato pericolo di vita, qualora non venga tentata questa via;
che consiste esattamente nel ripetere su di un essere umano quel che viene
fatto ai maiali nel mattatoio, un istante prima che vengano uccisi e,
quindi, senza che nessuno possa dire se il loro cervello non ha subito
danni irreversibili? Si tratta di una concezione della salute e della
malattia che sa decisamente di universo concentrazionario, ove i medici
sono i padroni assoluti della vita e della morte di quanti vengono loro
consegnati - non certo volontariamente - e sui quali esercitano non solo un
imperium senza limiti, ma nei confronti dei quali non hanno alcuna
responsabilità giuridica, ossia non devono rendere conto a nessuno del
loro operato. Neanche Orwell, nel suo allucinante romanzo 1984, arriverà
ad immaginare un tale grado di violenza - psicologica e anche fisica -, da
parte dell'istituzione statale, nei confronti dei suoi sventurati
cittadini. Sembra piuttosto che una simile concezione della sanità
pubblica delinei una dittatura degli scienziati, in cui essi soli hanno il
potere di decidere cosa sia giusto e lecito e cosa non lo sia, giocando con
la salute e con la vita delle persone, con la stessa disinvoltura con cui
gli esseri umani giocano con quella degli animali, siano essi da macello o
cavie da laboratorio. Sembra che, in una tale società, i medici siano
diventati i sacerdoti di una nuova religione e che concentrino nelle
proprie mani sia il potere giudiziario, sia quello scientifico sia, infine,
quello etico-giuridico: in altre parole, in cui non esistono limiti ben
definiti a ciò che essi possono fare, se lo ritengono giusto e opportuno,
in omaggio al progresso della scienza. La vita umana, che essi - in teoria
- sono chiamati a difendere, e nella cui difesa fondano appunto il loro
smisurato potere, finisce per valere relativamente poco, davanti alla
possibilità di far progredire la conoscenze scientifica. E ciò a partire
proprio da quelle categorie di persone - gli individui soggetti a disturbi
del comportamento - che avrebbero maggior bisogno di protezione, in quanto
particolarmente esposte e indifese. Del resto, bisogna osservare che
Cerletti non aveva fatto tutto da solo. Da tempo esistevano, nella cultura
scientista occidentale di matrice positivista, i presupposti per una tale
visione della società e dell'istituzione sanitaria. Addirittura, era
abbastanza diffusa l'idea che, per fini genericamente umanitari, lo Stato
avesse il diritto morale di disporre a piacere della vita dei condannati;
ovvero che i responsabili di gravi delitti potessero e dovessero risarcire
la società, che essi avevano danneggiato, venendo utilizzati come cavie in
esperimenti medici particolarmente pericolosi, per il progresso della
scienza e per il bene dell'umanità. Non aveva forse teorizzato una tale
linea di comportamento il medico svedese trapiantato in Italia, a Capri,
Axel Munthe (1857-1949), mite scrittore e paladino della causa dei poveri
uccelli migratori che cadevano nelle reti degli uccellatori, nel suo
famosissimo best-seller intitolato La storia di San Michele? Addirittura,
il medico svedese era giunto a proporre che, in luogo degli innocenti
animali, si utilizzassero come cavie, negli esperimenti più pericolosi per
testare nuovi farmaci, i detenuti prelevati dalle carceri, e già
condannati per gravi delitti. Così scriveva, infatti, nel suo libro
(titolo originale: The Story of San Michele, 1929; traduzione italiana di
Patricia Voltera, Milano, Garzanti, 1940; 1989, pp. 77-78): "Uno degli
argomenti più convincenti contro questi esperimenti su animali vivi è che
il loro valore pratico è assai ridotto - scrive - a causa della differenza
fondamentale dal punto di vista patologico e fisiologico fra il corpo degli
uomini e quello degli animali. Ma perché questi esperimenti dovrebbero
essere limitati al corpo degli animali, perché non potrebbero essere messi
in pratica anche sul corpo dell'uomo vivente? Perché ai delinquenti nati,
ai malfattori cronici, condannati a consumare il resto della loro vita in
carcere, inutili e spesso pericolosi per gli altri e per se stessi, perché
a questi inveterati violatori delle nostre leggi non si potrebbe offrire
una riduzione ella pena, se acconsentissero a sottomettersi, anestetizzati,
a certi esperimenti sul loro corpo vivente, per il beneficio dell'umanità?
Se il giudice prima di mettersi il berretto nero [che in Gran Bretagna
annunziava una sentenza di morte], avesse il potere di offrire
all'assassino l'alternativa fra la forca e una condanna penale per un certo
numero d'anni, certamente non mancherebbero i candidati." Per inciso,
Munthe - medico alla moda e frequentatore dei salotti del bel mondo delle
capitali europee - era stato allievo di quel Charcot, ai cui studi
sull'ipnotismo si era anche interessato, e largamente ispirato, Sigmund
Freud. Il che mostra, a nostro avviso, il filo rosso che unisce
psichiatria, psicanalisi, terapia come violenza fisica e come pratica di
bassa magia, volta ad evocare - contro la coscienza dell'individuo - le
forze infere in esso latenti (cfr. il nostro articolo Una forma di magia
nera: la psicanalisi). Ma torniamo a Thomas S. Szasz, il quale svolge
alcune concise ed efficaci riflessioni sulla pagina del Cerletti or ora
riportata (op. cit., 428-431). "Come tutte le autorivelazioni oneste, il
racconto del Cerletti sulla sua scoperta dell'elettroshock dice più cose
di quante l'autore pensasse o desiderasse dire. Elencherò alcuni fati
citati da Cerletti, e alcune deduzioni basate sugli stessi, che mi sembrano
particolarmente significative. "19 l'applicazione dell'elettoshock ai
maiali era un metodo empirico per calmare e sottomettere gli animali, per
poterli macellare senza l'eccitazione e gli strilli che questa operazione
generalmente comportava. "2) il primo essere umano su cui l'elettroshock fu
sperimentato era un uomo, identificato soltanto dalle sue iniziali, S. E.,
e dalla sua occupazione: 'tecnico'; dalla sua città di residenza:
'Milano'; e, fatto significativo, dalla diagnosi psichiatrica di
'schizofrenia'. "3) S. E. era totalmente sconosciuto al dottor Cerletti,
non richiese il suo aiuto (e più tardi rifiutò il suo intervento). In
realtà, S. E. era un prigioniero: era stato 'arrestato' dalla polizia per
'vagabondaggio', e invece di essere processato per questo reato, fu inviato
da Cerletti. "4) Anche se il soggetto era stato inviato in ospedale
espressamente per essere posto 'sotto osservazione', Cerletti disobbedì
chiaramente alle istruzioni del commissario di polizia di Roma: invece di
osservare S. E., lo utilizzò come soggetto sperimentale per elettroshock.
"5) Cerletti non dice di aver ricevuto alcuna autorizzazione per questo
esperimento. Sembrerebbe che, avendo ricevuto il carcerato dalle mani della
polizia, Cerletti lo considerasse immediatamente come 'paziente', e che
vedesse in se steso il solo giudice del tipo di 'cura' che il suo
'paziente' doveva ricevere .è così che Cerletti scrive: «noi, che
stavamo conducendo l'esperimento, eravamo sottoposti ad una fortissima
tensione emotiva, e ci pareva di aver già corso un rischio notevole». Ma
non dice niente del rischio al quale era stato sottoposto S. E. senza il
proprio consenso. "6) per tutta la durata dell'esperimento, S. E. fu
trattato come una cosa o un animale Non aveva alcun controllo sul proprio
destino. Quando, dopo il primo shock, annunciò 'chiaramente e
solennemente': «Non un'altra volta! È terribile!», il suo messaggio che
poteva apparire come perfettamente razionale, non ebbe alcun effetto su
coloro che conducevano l'esperimento su di lui. "7) In breve, la prima
persona su cui si sperimentò l'elettroshock non era un volontario, né si
trattava di un paziente malato mentale regolare (volontario o coatto), la
cui storia, personalità e situazione familiare fossero note agli
psichiatri; né di un carcerato condannato per un reato e dichiarato poi
malato di mente che si trovasse sotto la giurisdizione di un tribunale.
Questi fatti sono importanti perché, in quanto professore di psichiatria
all'università di Roma, Cerletti deve aver potuto avvicinare molti
pazienti 'schizofrenici' che avrebbero potuto essere candidati potenziali
per il suo trattamento sperimentale. "Anche se le stesse circostanze che
hanno accompagnato la scoperta del'elettroshock sono rivelatrici, è
possibile collocarle nella giusta e completa prospettiva osservando alcuni
fatti che si riferiscono allo stesso scopritore, Ugo Cerletti. "Cerletti
era nato a Cornigliano [ errore per Conegliano] il 26 settembre 1877, e
morì a Roma il 25 luglio 1863. Studiò medicina a Torino e Roma, e si
laureò a Roma nel 1901. All'inizio, si dedicò alla ricerca nel campo
dell'istopatologia e della neuropatologia. Poi studiò psichiatria clinica
cn Kraepelin e ne fu irresistibilmente attratto. Nel 1933 cominciò a
interessarsi al lavoro di Meduna sulla schizofrenia, e divenne un
entusiasta sostenitore della teoria dell'incompatibilità fra schizofrenia
e epilessia. Nel 1935, dopo la nomina a professore di psichiatria
all'università di Roma, Cerletti iniziò i suoi esperimenti sulle
convulsioni indotte. In collaborazione col professor Bini, creò il primo
apparecchio per l'elettroshock e, nell'aprile 1938, essi applicarono per la
prima volta una convulsione elettrica a un uomo, come abbiamo appena
descritto. "Nel necrologio a Cerletti, Ferruccio di Cori (1963) valutò nel
modo seguente l'importanza dell'elettroshock: «il nuovo metodo [di
Cerletti] fu sottoposto ad ampie ricerche, ed accettato universalmente in
tutto il mondo… Innumerevoli vite, sofferenze e tragedie erano state
così risparmiate». "Cerletti continuò a lavorare all'elettroshock fino
alla morte. «Formulò una teoria secondo la quale i mutamenti umorali ed
ormonali provocati nel cervello da un attacco epilettico, portano alla
formazione di certe sostanze che egli chiamò 'acroagonine', sostanze di
estrema difesa. Queste sostanze, se iniettate al paziente, avrebbero avuto
effetti terapeutici simili a quelli dell'elettroshock» (Di Cori, 1963).
"Ayd (1963) rese noto un altro aspetto interessante del primo elettroshock
della storia. Pare che Cerletti avesse l'abitudine di riandare a quella
memorabile esperienza. «Mentre descriveva quello che era successo - scrive
Ayd - egli disse: 'Quando vidi la reazione del paziente, pensai: questo
dovrebbe essere abolito! Da quel momento ho sperato ed aspettato che si
scoprisse un nuovo trattamento che sostituisse l'elettroshock'. Ma se
Cerletti aveva pensato questo, perché lo tenne soltanto per sé? Né
Cerletti, né altri sostenitori dell'elettroshock parlarono mai in pubblico
dell'abolizione di questa «cura». "Così come la storia di Anna O. e
Breuer (Szasz 1963) costituisce un vero modello di 'incontro personale' tra
paziente e medico, la storia di S. E. e Cerletti è un modello di vero
'contatto impersonale' tra soggetto disumanizzato e sperimentatore medico.
La prima è un esempio di rapporto volontario tra 'nevrotico' e
'psicoterapista', la seconda è un esempio di rapporto involontario tra
'psicotico' e 'psichiatria istituzionale'. E il fatto che queste
distinzioni fondamentali - tra persona ed oggetto, medico e alienista,
interventi psichiatrici volontari ed imposti - venissero apprezzati di più
nei primi decenni del secolo di quanto non lo siano oggi, nella pratica se
non nella teoria, costituisce una misura del declino morale della
psichiatria come professione (Szasz 1970). "L'invenzione dell'elettroshock
è il moderno totalitarismo terapeutico allo status nascendi: il malato
mentale, una non-persona, viene passato dalla polizia agli psichiatri, e da
loro 'curato' senza il proprio consenso. Le circostanze sociali nelle quali
nacque e si sviluppò la cura dell'elettroshock sono coerenti con la sua
funzione 'terapeutica'. Se un uomo vuole punire e sottomettere un altro
uomo, non gli chiede il permesso. Nello stesso modo, il pubblico, in una
società che permette e addirittura incoraggia questo tipo di rapporti
umani perché è 'terapeutico', non può aspettarsi che la legge protegga
le vittime." Non si potrebbe dire di più, o di meglio. Del resto, chi ha
visto il film di Milos Forman 'Qualcuno volò sul nido del cuculo' sa bene
di cosa stiamo parlando, e quali stretti legami esistano fra l'universo
carcerario e l'universo psichiatrico: accomunati da una stessa filosofia di
fondo e, a volte, da una analoga prassi materiale. Il guaio è che non si
tratta soltanto di finzione cinematografica; e che i signori psichiatri, in
nome della loro crociata contro la follia - ossia contro una malattia che,
forse, non esiste e che, comunque, non è mai stata dimostrata, nei termini
in cui essi la descrivono - possiedono tuttora un potere esageratamente
ampio, e quasi privo di controlli, nei confronti dei loro pazienti, molti
dei quali sono stati sottoposti a trattamento terapeutico senza alcuna
forma di consenso. Non intendiamo banalizzare un argomento così delicato e
drammatico, né abbiamo intenzione di negare l'evidenza, e cioè che i
disturbi della psiche esistono. Tuttavia, da qui a conferire alla casta
degli psichiatri-stregoni carta bianca nella cura dei loro pazienti coatti,
ce ne corre. Crediamo sia giunta l'ora di porre un limite all'arroganza e
alla impunità di questi sedicenti scienziati della mente, ai quali è
stato conferito un potere eccessivo a causa della viltà e della
distrazione della società nei confronti del problema della sofferenza
mentale. Forse, è giunto il tempo in cui la società dovrebbe
riappropriarsi dell'obiettivo di ristabilire l'equilibrio psico-fisico dei
suoi membri, abbandonando la illusoria e pericolosa scorciatoia di
delegarlo interamente a un paradigma terapeutico assolutamente
auto-referenziale.
-- "non sono una bestia ma un'animala selvatica in posizione eretica,
occasionalmente mi trasformo in belva" (peste)
"sono venuto al mondo come una pantera confusa aspettando di essere messo
in gabbia. Ma avvenne qualcosa: non sono mai stato addomesticato"
(Darby Crash - Germs)
"noi siamo un animale simbolico" (Giorgio Antonucci) -*
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