Autore: Redcat* Data: To: nogelminispbo Oggetto: [Nogelminispbo] Critica al documento de La Sapienza
Ciao,
è lunghissima, ma apre delle riflessioni interessanti, secondo me.
Si rifesce, credo, ad uno dei primi documenti usciti da Roma.
Ah, sono tre documenti insieme...
AL DI LA' DI ONDE E MAREGGIATE: CRITICA AL DOCUMENTO DELLA SAPIENZA OCCUPATA
L'appello della Sapienza Occupata "L’ONDA PREPARA LA GRANDE MAREGGIATA" è
caratterizzato da una profonda moderazione e dalla mancanza di una reale
consapevolezza circa il ruolo che il movimento studentesco è chiamato a
giocare.
A nostro avviso, il documento è intriso di un ottuso corporativismo ed
è speculare alle letture più riformiste dell' arco parlamentare che nulla
dicono circa il nesso stringente tra avanzamento del capitalismo in senso
liberale - con relativo mutamento del ruolo potere politico sempre più
declinato al rafforzamento del Profit state - e distruzione creativa delle
barriere che cercano di limitarlo. In altre parole, nulla si dice sul
fatto che
la crisi finanziaria cui stiamo assistendo si stia palesando nella
distruzione
della struttura sociale che ha ospitato il processo di accumulazione e la
creazione di una nuova struttura, tra cui la "riforma" del sistema formativo
conseguente alla (già attuata) destrutturazione del mondo del lavoro e della
produzione.
La conseguenza logica di tale limite si riflette nella moderazione
del documento della Sapienza che infatti non coglie per nulla l' elemento
centrale: ogni ulteriore mercificazione della società, che passa
necessariamente per i finanziamenti (pubblici) alle imprese e per i
salvataggi
degli istituti bancari – maggiori responsabili dell’attuale tracollo
finanziario – rappresenta un ulteriore passo verso la via della
privatizzazione
e demolizione dell’università e dell’istruzione pubblica.
Infatti, se il ruolo
delle istituzioni statuali, seppur pubbliche, è sempre più declinato al
sostenimento delle imprese private a costo di ingenti costi sociali, è
sbagliato ritenere che l’università – un istituto che riproduce il sistema
generale di sfruttamento attraverso meccanismi determinati di a)
selezione e di
b) manipolazione – sia un’ isola felice slegata dalla struttura
economica che
la determina.
Nonostante la centralità delle forze di mercato, queste vengono
rilegate sullo sfondo, mentre il focus viene posto sull’università, come
se la
crescita di potere delle forze di mercato non andasse di pari passo con l’
imposizione sempre più veemente degli indirizzi di ricerca universitari
(capitalisticamente) più convenienti. Svilito il ruolo dello stato - da
mediatore dei conflitti sociali a puro ossigenatore dei profitti privati
– il
destino dell’università e dell’istruzione pubblica si trova perciò in balia
delle forze di mercato (ma politicamente guidate) che pretendono di
sottomettere qualunque spiraglio delle nostre vite alla sua
valorizzazione. In
definitiva, non ci si rende conto che ogni concessione sul mondo del
lavoro a
vantaggio delle forze di mercato rappresenta un’ulteriore erosione del
diritto
allo studio ed al diritto ad una formazione pubblica che ci favorisca come
parti integranti di una collettività.
I passaggi apparentemente più
conflittuali del documento della Sapienza Occupata sono quelli che destano
maggiore preoccupazione poichè speculari alle letture dei teorici liberisti
repentinamente convertiti ad un keynesismo di facciata. Il nocciolo centrale
della questione viene riassunto all' inizio del loro documento "da più di un
mese assistiamo al crollo sistematico delle borse mondiali, preludio
alla vera
crisi, quella dell’economia reale". Praticamente, si descrive un
processo che
va dalla crisi finanziaria all’economia reale.
Come giustamente sottolineato da
Giacchè e Burgio, l'implicazioni di questa narrazione ideologica è che l’
«economia reale» (in sostanza, il capitalismo) sarebbe di per sé sana. Tale
descrizione, però, omette il dato essenziale. Prima del processo
descritto, ne
opera uno opposto (dall’economia reale alla finanza) che si fa di tutto per
occultare. E si capisce perché.
In realtà è il modo in cui funzionano la
produzione e la riproduzione (cioè il rapporto capitale-lavoro) a
decidere il
ruolo della finanza e le forme concrete del suo funzionamento. Nella
fattispecie, è l’ipersfruttamento del lavoro (a mezzo di precarizzazioni,
delocalizzazioni, bassi salari e tagli del welfare) a far sì che all’
indebitamento di massa sia affidato il ruolo di fondamentale volano della
crescita. Non stupisce allora che su questo si cerchi di instaurare un tabù.
Non si può dire chiaramente - pena l’esplicita delegittimazione del
sistema -
che all’origine della crisi è la crescente povertà imposta alle classi
lavoratrici da trent’anni a questa parte.
Se è vero che l’economia reale è sia
il luogo originario del processo di crisi, sia il terreno del suo compiuto
dispiegarsi, allora si può dire che la produzione si serve della finanza per
sopravvivere.
Avendo demistificato la vulgata neoliberista cui purtroppo il documento
della
Sapienza attinge a piene mani, è giunto il momento di radicalizzare la
nostra
critica partendo dalle parole d' ordine del movimento studentesco. Come
abbiamo
già scritto, lo slogan "noi la crisi non la paghiamo" non è più sufficiente.
La
domanda che dobbiamo porci è: chi pagherà questa crisi?
I provvedimenti che il
governo sta elaborando, tesi a restituire i fondi alla all'università - col
plauso dell'opposizione, del sindacato e parte del movimento - sono
solamente
stupidi palliavi se tali fondi si taglieranno alle pensioni, ai salari, alle
poche imprese statali che ancora ci garantiscono la fruizione di valori
d'uso
ed alla scuola dove in realtà sono già stati tagliati 90 mila posti di
lavoro.
In definitiva, se i fondi per salvare temporaneamente l'università verranno
trovati a costo di un' ulteriore mercificazione della società mediante
l'ulteriore smantellamento del welfare state, la privatizzazione e
distruzione
dell'università pubblica non potrà che essere questione di tempo. Il tempo
necessario alle forze di mercato per rafforzare il proprio potere
politico. I
mesi necessari che la grande mente, Confindustria, non affili il suo braccio
armato - il Parlamento - e non rafforzi la voce dei suoi apologeti, i corpi
baronali.
Il movimento studentesco - al di là delle elucubrazioni di alcuni
individui che fanfaroneggiano sulla " centralità dei lavoratori
cognitivi come
soggetti conflittuali", probabilmente gridate ai quattro venti per auto
assurgersi a protagonisti del movimento - ha oggi una duplice
responsabilità.
Da un lato, gli studenti hanno dimostrato che la lotta paga. Era da quasi un
quindicennio, sulle pensioni, che un governo non ritirava un
provvedimento cosi
strutturale. Oggi più di allora il movimento degli studenti sta
mostrando che
il conflitto sociale può assumere la radicalità necessaria al
cambiamento dello
stato di cose presenti qualora sia realmente slegato dai partiti,
partitini e
sindacati il cui unico ruolo è incanalare il malessere sociale su binari
istituzionali, per definizione conservatori.
D' altro lato, strettamente
connesso al primo, il movimento studentesco deve continuare a travalicare le
mura universitarie al fine stringere alleanze con quei soggetti sociali che,
nell'ultimo trentennio, hanno rimpinguato le tasche dei padroni mediante
decurtazioni salariali e tagli dei diritti. La stessa classe sociale
composta
da studenti e lavoratori che oggi sono/siamo chiamati per l'ennesima volta a
sostenere i sacrifici necessari a salvare un sistema la cui espansione va di
pari passo con il nostro sfruttamento e subordinazione.
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NOI LA CRISI NON LA PAGHIAMO NON E’ SUFFICIENTE: CHI PAGA QUESTA CRISI?
Per il movimento studentesco che si oppone alla riforma della signora
Gelmini è giunto il momento d
approfondire e radicalizzare la critica al contesto economico e sociale
nel quale l’università si trova
inserita, al fine di dare maggiore incisività alle nostre pratiche di
opposizione.
La mobilitazione che ci ha fortunatamente travolto e le contingenze
quotidiane hanno necessariamente
relegato sullo sfondo la questione fondamentale, direttamente e
paradossalmente connessa alle parole
d’ordine che guidano la protesta del movimento studentesco nazionale:
“noi la crisi non la
paghiamo”.
La domanda cui siamo chiamati a rispondere e che ci permetterà di
avanzare efficacemente e di
ottenere risultati concreti, quindi è: CHI paga questa crisi finanziaria?
La pagheranno i soggetti che l’hanno provocata, ossia banche e
speculatori di ogni specie e colore?
Oppure stavolta, diversamente dal solito leitmotiv, le aziende saranno
chiamate a sostenere i “sacrifici”,
dopo che per anni hanno macinato crescenti profitti mentre i salari
erano in caduta libera, assieme ai
nostri diritti? Chi altro? I politicanti di maggioranza e opposizione
che, sebbene formalmente avversari,
fanno a gara a chi precarizza maggiormente i lavoratori e a chi
elargisce più soldi pubblici, pardon
incentivi, alle imprese private? Chi altro ancora? I baroni universitari
ed i loro portaborse che,
nonostante l’avversione demagogica manifestata dagli esponenti di
governo, non sono altro che il
frutto perverso del collegamento sempre più stretto tra università
(leggi fondi) pubblica ed interessi
privati?
La realtà scritta negli ultimi provvedimenti della maggioranza (col
consenso dell’opposizione),
purtroppo, va però in tutt’altra direzione. Il governo, nell’ordine, ha:
• Predisposto un pacchetto di aiuti alle piccole e medie imprese per 650
milioni di euro.
• Secondo le indiscrezioni del quotidiano inglese "Financial Times"
starebbe predisponendo un
pacchetto da 30 miliari di euro per il sostegno alle banche italiane.
• Stanziato 16 miliardi di euro per le “grandi opere”, ossia prelibati
bocconcini per gli speculatori
turno. La Tav ed il Ponte sullo Stretto di Messina sono solo alcuni
esempi di come i soldi
pubblici, che dovrebbero essere utilizzati per sostenere salari, sanità,
istruzione e qualità della
nostra vita, saranno spesi per rimpinguare le tasche degli amici degli
amici.
• Incrementato le risorse destinate alla cassa integrazione, prevedendo
un impegno straordinario
di 600 milioni di euro. In pratica, si sgravano gli “imprenditori”
nazionali dagli oneri dei
licenziamenti, al fine di permetter loro di per de-localizzare la
produzione in zone a basso
costo. Alla faccia del “Sistema Italia” e dell’ “Interesse nazionale”
tanto sbandierate da
maggioranza, opposizione e sindacati concertativi.
• Defiscalizzato le ore di straordinario dei lavoratori. In pratica, è
un regalone alle imprese che
saranno ben liete di allungare a prezzi decrescenti la giornata
lavorativa, invece di assumere
giovani. Forse è stato fatto per risolvere il problema della
disoccupazione giovanile che sfiora
il 30%, percentuale più elevata d’Europa?
Al contrario, il braccio armato di Confindustria – il governo italiano –
si è premunito di:
• Colpire pesantemente i lavoratori sempre mediante i provvedimenti
contenuti nella legge
finanziaria 133, allungando la giornata lavorativa; riducendo i riposi;
indebolendo gli organi
ispettivi, incentivando di fatto il lavoro nero; precarizzando
ulteriormente i rapporti di lavoro;
colpendo la tutela della salute e sicurezza del lavoro.
• Approvare la legge 137 attinente al mondo della scuola, licenziando di
fatto 87 mila tra
maestri, professori, tecnici e personale Ata precari (spesso da molti
anni), che non si vedranno
rinnovare il proprio contratto.
• Su suggerimento de Il Sole24Ore, organo ufficiale della Confindustria,
pensare seriamente di
mettere mano alle pensioni per risolvere la crisi finanziaria.
Appare chiaro che la crisi non colpisce tutti allo stesso modo. La prima
barca, opportunamente
sostenuta da un governo e da un’ opposizione criminale, procede a gonfie
vele. L’altra barca, al
contrario, viene fatta affondare in nome dell’ “interesse nazionale” e
del bene comune.
Il nodo centrale è quindi il seguente: è corretto continuare questa
mobilitazione in una dimensione
prettamente studentesca, se i fondi che verranno provvisoriamente
trovati per placare il malcontento
degli universitari saranno tagliati da altri (e altrettanto importanti)
settori sociali che ugualmente ci
riguardano, assieme alle nostre famiglie, come lavoratori e come cittadini?
No. E’ suicida.
L’essenza del nostro sistema economico e sociale si regge oggi sulla
terna: a) lavoratore
‘spaventato’, a causa della precarietà (leggi ricattabilità) presente
sul mercato del lavoro; b) risparmiatore
‘terrorizzato’ (per le modifiche nei sistemi pensionistici, e per
l’incertezza dell’investimento finanziario)
e c) consumatore ‘indebitato’ (per la dipendenza della propria spesa
dall’accesso crescente al credito
bancario).
In tal contesto caratterizzato da un’ oggettiva debolezza del mondo del
lavoro, rinchiuderci in un
becero corporativismo studentesco garantirebbe alle imprese private –
coadiuvate dal potere dello stato
– di accrescere il loro potere politico all’interno di una società
ulteriormente mercificata e ricattabile.
Il risultato sarebbe un ulteriore indebolimento della classe
lavoratrice, condizione necessaria alla
sostenibilità della (loro) profittabilità privata.
La crescita di potere delle forze di mercato nella società va di pari
passo con l’imposizione
ancora più veemente degli indirizzi di ricerca universitari (a loro) più
convenienti. In altri termini, si
privilegeranno i settori più profittevoli, aggravando ulteriormente il
sistema vigente il cui fine delle
relazioni economiche non è il soddisfacimento dei nostri bisogni, bensì
quello della loro (s)vendita e
mercificazione. D’ altra parte, diritti che fino a pochi anni fa erano
garantiti (poiché conquistati con le
lotte dei lavoratori) come casa, affitto ragionevole, sanità, pensioni,
istruzione, sono oggi in via di
privatizzazione e distruzione.
In definitiva, ogni concessione sul mondo del lavoro rappresenta
un’ulteriore erosione del diritto allo
studio ed al diritto ad una formazione pubblica che ci favorisca come
parti integranti di una collettività.
Ogni ulteriore mercificazione della società, che passa necessariamente
per i finanziamenti
(pubblici) alle imprese e per i salvataggi degli istituti bancari –
maggiori responsabili dell’attuale tracollo
finanziario – rappresenta un ulteriore passo verso la via della
privatizzazione e demolizione
dell’università e dell’istruzione pubblica. Infatti, se il ruolo delle
istituzioni statuali, seppur pubbliche, è
sempre più declinato al sostenimento delle imprese private a costo di
ingenti costi sociali, è sbagliato
ritenere che l’università – un istituto che riproduce il sistema
generale di sfruttamento attraverso
meccanismi determinati di a) selezione e di b) manipolazione – sia un’
isola felice slegata dalla struttura
economica che la determina. Svilito il ruolo dello stato - da mediatore
dei conflitti sociali a puro
ossigenatore dei profitti privati – il destino dell’università e
dell’istruzione pubblica si trova perciò in
balia delle forze di mercato (ma politicamente guidate) che pretendono
di sottomettere qualunque
spiraglio delle nostre vite alla sua valorizzazione.
Che fare? La soluzione, a nostro avviso, non può essere opera di
cervelli individuali. Al
contrario, il compito di trovare nuove soluzione spetta ai movimenti
collettivi che saranno in grado di
saldare assieme prassi e teoria.
In tal senso, il piccolo contributo che ci sentiamo di dare è solamente
uno: non potrà esserci una lotta
studentesca vincente se non sarà in grado di allearsi con gli attori
appartenenti allo stessi corpo sociale
su cui il governo sta ugualmente cercando di scaricare i costi della
crisi al fine di salvare banche,
finanzieri, ed imprese private. E questi attori sociali vanno ricercati
nel mondo del lavoro e che
condividono con noi la medesima appartenenza sociale. I loro interessi
materiali sono convergenti a
quelli di noi studenti. Se il loro antagonismo è nei confronti delle
forze di mercato, opportunamente
coadiuvate e sorrette dai governi di ogni colore, il nostro avversario è
il potere baronale che, nell’attuale
modello di università mercificata, ha il compito di indirizzare ricerca
e didattica secondo gli interessi
economici delle imprese che ha loro volta esigono livelli di
produttività sempre maggiori dai lavoratori.