[NuovoLab] Rassegna stampa G8

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Autor: Carloge
Data:  
A: Forumgenova
Assumpte: [NuovoLab] Rassegna stampa G8

Secolo xix

La sfida dei nervi tra due pm e 50 avvocati
in aula
GENOVA. Dopo quattro anni e duecento battaglie saranno ancora loro, sempre loro. I pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini, da una parte, e i legali dei poliziotti dall'altra. In mezzo, il presidente del tribunale Gabrio Barone, arbitro d'una contesa tesissima. Più indietro, i legali delle parti civili (potrebbero essere oltre 50) e gli stessi ragazzi che quella notte erano nella scuola: una trentina è a Genova da qualche giorno e tra loro Lena Zuhlke, la giovane tedesca ritratta nella grande foto di questa pagina, la stessa che riempie la copertina del fascicolo d'inchiesta.
Ancora, fuori e all'ingresso del palazzo di giustizia saranno disposte misure speciali: almeno 100 uomini a presidiare (senza dar troppo nell'occhio) le vicinanze del tribunale - dove verranno affisse le sagome d'un poliziotto che impugna un manganello al G8, riproduzione d'un manifesto comparso spesso in città - con l'ingresso "filtrato" fra pubblico e giornalisti, tanto che nei giorni scorsi il salone è stato suddiviso in tre parti.
Guardando dal fondo l'aula-bunker, come da sempre è chiamata, Zucca e Cardona siederanno davanti, sulla sinistra, lo sguardo quasi sempre fermo in avanti, verso il giudice. All'opposto gli avvocati della polizia (retribuiti dal Viminale con qualche milione di euro), compreso l'ex presidente della camera Alfredo Biondi.
Il processo Diaz ha rappresentato un'anomalia (anche) per il rapporto fra i contendenti. Non più«pubblico ministero» era chi ha sostenuto l'indagine, ma «dottor Zucca», come se la distanza istituzionale fra le varie funzioni si fosse improvvisamente, per scelta degli avvocati, accorciata. Silvio Romanelli, uno dei legali che più s'è infiammato durante il dibattimento, ci sarà insieme ai colleghi che rappresentano una fetta assai pesante della pubblica sicurezza italiana: Marco Corini, il difensore del superfunzionario Francesco Gratteri, elegantissimo, Piergiovanni Iunca (che assiste l'ex capo della Digos genovese Spartaco Mortola), con il solito aplomb, che prenderà posto probabilmente più indietro. Gabrio Barone se li troverà di fronte, per l'ultima volta: non ha mai lesinato severità nei confronti dei magistrati in queste udienze. Ma la sentenza è un'altra storia.

Un processo difficile, tra diritto ed emozioni
a sette anni dai fatti
Ultima rivelazione di Bertinotti: «De Gennaro mi disse quella notte: "La sede del Social Forum"
non è una ambasciata"»
13/11/2008
marco menduni
CERTO, l'odore del sangue si è ormai dissolto dopo sette anni. Rimane quello delle carte da tribunale, dei faldoni polverosi traboccanti di documenti, delle registrazioni delle testimonianze che descrivono quei minuti (tre? cinque? non di più) di delirio. Il blitz alla scuola Diaz, epilogo sciagurato di un G8 sciagurato.
I giudici hanno già deciso sugli scontri di piazza (condanne severissime per gli insurrezionalisti nostrani, soft per i no global degli scontri che precedettero la morte di Carlo Giuliani) e sui fatti della caserma di Bolzaneto (nessuna tortura, come sostenuto fino allo sfinimento dal mondo antagonista, e pene decisamente al ribasso rispetto alle aspettative dell'accusa); ora tocca alla Diaz. Una strana euforia si è impadronita nelle ultime ore tra i difensori degli imputati. Convinti che, «se dev'essere applicata la legge, finirà con una valanga di assoluzioni». E non perché i fattacci non siano avvenuti. Ma perché, sono convinti, «non è stata dimostrata la responsabilità personale di nessuno». I picchiatori della Diaz non hanno mai avuto un nome. Ed è difficile affermare che sia emerso, durante il processo, un disegno preciso, preordinato e consapevole, da parte di qualcuno, dei superiori. E persino la contestazione, ai responsabili dei reparti, di "non essere intervenuti per evitare i reati" si scontra con un'evidenza processuale. L'unico che ammette di aver assistito a scene di violenza è Michelangelo Fournier (quello della «macelleria messicana») che peròè intervenuto sì, gridando «basta» ai poliziotti picchiatori. Sul piano del diritto è questo un processo difficile. Perché deve tenere insieme le esigenze della legge, che a volte si scontra duramente con le aspettative delle vittime. Deve in qualche modo rispondere all'enorme emozione destata dagli avvenimenti di quella sera: se sugli scontri avvenuti sulla strada e persino su Bolzaneto potevano esserci letture variegate, non esiste dubbio che la Diaz sia stata una della pagine peggiori scritte dallo Stato negli ultimi decenni. Ma deve soprattutto affermare, e in questo sta la portata epocale di questo processo, se per una vicenda di questo genere dev'essere colpita tutta la catena di comando che sta sopra a chi ha impugnato il manganello oppure, secondo un'altra lettura giuridica, la "colpa" stia solo nella persona che, materialmente, in un preciso momento, ne ha ferita un'altra inerme. E, a catena, se la falsificazione delle prove (le finte molotov, la coltellata all'agente Nucera) sia stata voluta, cercata, in qualche modo strutturata o, come hanno sostenuto i difensori, frutto solo dell'immenso caos che si era creato in quella situazione.
Certo, un passo indietro può essere utile per comprendere i giorni immediatamente successivi al blitz. Il primo a parlare è l'ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, al Tg5, il 25 luglio 2001: «La polizia è stata aggredita con un lancio di pietre e di altri corpi contundenti dal tetto e dalle finestre della scuola. È stata usata la forza solo per rispondere alla violenza. Non dimentichiamo che 17 poliziotti sono rimasti feriti». Claudio Scajola, allora ministro dell'Interno, spiega il 26 luglio al Secolo XIX: «Non ero stato avvisato della perquizione nella scuola. Ma è normale che operazioni di polizia giudiziaria vengano gestite sul territorio dal personale locale. Guai a credere che ci siano luoghi inviolabili per l'ordine pubblico, anche perchéè noto che in quella sede sono state trovate bombe molotov, armi improprie e alcuni importanti esponenti di organizzazioni estere già noti alle polizie europee per atti di violenza». Lo stesso concetto, si apprende ora, fu espresso dal capo della polizia in una telefonata la notte della Diaz al segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti: «Cosa vuole che faccia, quella non è un'ambasciata... Non c'è extraterritorialità. Quello che sta avvenendo è una sorta di controllo del territorio. Non mi può chiedere una protezione come fosse un'ambasciata».
Il giorno successivo il premier Silvio Berlusconi gioca d'anticipo: «Se abusi e violenze saranno individuati da Viminale e magistratura, non ci sarà alcuna copertura per chi ha violato la legge». In quei giorni l'inchiesta dei pm genovesi era già decollata. Ma la prima "sentenza" arrivò invece proprio dal governo. Trasferiti ad altri incarichi l'allora questore Francesco Colucci, il vicecapo vicario della polizia Ansoino Andreassi e il capo dell'antiterrorismo Arnaldo La Barbera, dopo il rapporto degli ispettori del Viminale. Vista oggi, e per motivazioni diverse tra le varie posizioni, la scelta appare meno "pelosa" di quanto sembrasse allora. Nel frattempo i maxi-processi sono giunti al loro termine. Manca solo la Diaz. Sentenza oggi, una sentenza che segnerà una pietra miliare nel diritto.
menduni@???


Diaz, il giorno della verità
13 novembre 2008| Graziano Cetara

Alla fine resteranno in tre. Soli con se stessi e la propria coscienza. Un uomo e due donne: Gabrio Barone, Anna Leila Dellopreite e Fulvia Maggio. A loro, il presidente e i due giudici a latere della prima sezione penale del tribunale di Genova, toccherà decidere. Conclusa l’ultima di duecento udienze, dopo quattro anni di processo, a sette anni e due mesi dai fatti, stamattina i tre magistrati, terminate le repliche rimaste in sospeso, si chiuderanno in una stanza per emettere la sentenza più attesa da tempo immemore per il capoluogo ligure, una delle più clamorose, comunque vada, della storia giudiziaria italiana degli ultimi anni: quella per il massacro alla scuola Diaz-Pascoli. Sul banco degli imputati 29 poliziotti, i «generali» e la «truppa», funzionari e agenti accusati a vario titolo di lesioni, falso, calunnia, arresti illegali.
I tre giudici dovranno scrivere l’ultimo capitolo della storia processuale innescata dal G8 del 2001, il summit dei grandi organizzato a Genova e costato devastazioni, scontri di piazza e, soprattutto, una giovane vita, quella di Carlo Giuliani. Spetterà a loro assolvere o condannare la polizia. Perché è la polizia sotto accusa, da quella notte del 21 luglio, quando un commando di agenti del settimo nucleo del reparto mobile di Roma, seguiti a ruota da colleghi di altre sezioni, fece irruzione nel quartiere generale dei no global, la sede del Genoa Social Forum installata nel complesso scolastico “Armando Diaz” e “Giovanni Pascoli” di via Battisti, tra le residenze del levante genovese. Gli agenti entrarono abbattendo il cancello con un blindato. Da quel preciso istante il tempo si è come fermato. Il concetto di prova e di colpevolezza, la fiducia nelle forze dell’ordine e nello Stato, la stessa differenza tra buoni e cattivi, da allora tutto è tornato in gioco. Agli occhi di chi assisteva aggrappato alle grate della scuola, di fronte ai celerini in assetto anti sommossa; a quelli di chi era all’interno, diviso tra le due opposte fazioni; e agli occhi di chi, a distanza, ha seguito il processo in tutti questi anni.
In quella scuola 93 ragazzi furono sorpresi nel sonno dopo tre giorni di manifestazioni e scontri di piazza. Furono massacrati nei sacchi a pelo, trascinati sul pavimento, presi a manganellate, a calci, nella palestra, lungo le scale, attorno all’edificio. Gli agenti colpivano e insultavano, spaccavano ossa, seminando disprezzo e sangue.
Per l’accusa fu una vendetta, un modo per rimettere a posto le cose dopo «il fallimento dell’ordine pubblico andato in mondovisione» nei due giorni precedenti. Una ritorsione voluta e ordinata dai vertici della polizia, finiti tra gli imputati: Francesco Gratteri, allora dirigente del Servizio centrale operativo oggi a capo dell’Anticrimine; Giovanni Luperi, ex vicedirettore dell’ Ucigos attualmente ai vertici dell’ Aisi ( l’ ex Sisde) e Gilberto Caldarozzi, ex vicedirettore dello Sco, oggi capo del Servizio centrale operativo.
Per la difesa fu un’operazione di polizia organizzata per arrestare i famigerati black bloc, che avevano messo la città a ferro e fuoco e si annidavano fra i no global; per reagire all’aggressione a mano armata subita da un poliziotto e prevenire possibili nuovi scontri.
La polizia è finita sotto inchiesta perché nell’istituto furono pestate persone inermi. Ma non solo. I 93 manifestati arrestati con l’accusa di associazione per delinquere, furono subito liberati con tante scuse. Contro di loro non c’erano prove e i verbali con i quali furono trasferiti nella caserma di Bolzaneto risultarono veline senza alcun peso. Le bottiglie molotov messe dalla questura sul tavolo d’una conferenza stampa senza possibilità di porre domande, come un trofeo a giustificazione e bilancio del blitz, erano arrivate da una aiuola di corso Italia, portate nella scuola dall’esterno. I picconi e le altre armi improprie erano gli attrezzi del cantiere edile aperto nell’edificio. La coltellata che avrebbe subito l’agente Massimo Nucera forse non fu mai vibrata, comunque è risultata nel corso del processo una circostanza controversa, così come quella del lancio di oggetti contro una pattuglia, il motivo scatenante l’irruzione.
Durante le indagini della procura prima e al processo poi, è stato analizzato ogni fotogramma delle centinaia di ore di registrazioni filmate prodotte nei giorni successivi. Eppure non è stato possibile identificare tutti gli agenti presenti nella scuola. La polizia non ha collaborato, anzi. Dallo stesso svolgimento del processo Diaz sono nate altre tre inchieste, tuttora in corso: una contro l’ex questore di Genova Francesco Colucci, accusato di falsa testimonianza, con il coinvolgimento per induzione allo “spergiuro” dell’ex numero uno della polizia italiana Gianni De Gennaro; la seconda per la sparizione di una delle prove chiave, le due bottiglie molotov “smarrite” dalla questura genovese; e una terza, in extremis, riguardante l’identificazione d’un poliziotto definito “coda di cavallo” per l’acconciatura dei suoi capelli durante i pestaggi , riconosciuto dal pm nel corso delle udienze tra il pubblico.
«Hanno fatto bene ad andare alla Diaz e alla Pascoli, a perquisirle, a cercare i black bloc, le loro armi. Se solo avessero rispettato la legge». Hanno chiuso la loro requisitoria con queste parole i due pm Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona, chiedendo 109 anni di pene complessive. Ora toccherà ai tre giudici, un uomo e due donne soli, dire chi l’ha infranta. E nel caso punirlo come merita.

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Repubblica

"G8, ecco l´agente che portò le molotov"
Bertinotti: De Gennaro mi disse "la Diaz non è un´ambasciata". Oggi la sentenza
I pm hanno chiesto 109 anni per 28 imputati. Tra di loro l´ex Sisde Luperi e Gratteri, al vertice dell´Antiterrorismo
MASSIMO CALANDRI

GENOVA - Tutto suggerisce che la sentenza sarà letta al più tardi questa sera, in un tribunale che si annuncia affollato e sorvegliatissimo dalle forze dell´ordine. La prima sezione, presieduta da Gabrio Barone, si riunirà in camera di consiglio intorno a mezzogiorno. Per il blitz nella scuola Diaz gli imputati sono 29, tra agenti e super-poliziotti: i pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini hanno chiesto la assoluzione di un commissario di cui «non è certa la presenza nell´istituto», e 28 condanne a complessivi 109 anni e 9 mesi di reclusione. Per aver massacrato delle persone inermi, per averle arrestate illegalmente e con prove false. Sotto accusa ci sono alcuni tra i nomi più noti del ministero dell´Interno: Francesco Gratteri, oggi al vertice dell´Antiterrorismo, Giovanni Luperi, attuale capo dell´Aisi, l´ex Sisde, e Gilberto Caldarozzi, tra i protagonisti della cattura di Bernardo Provenzano. Intanto Fausto Bertinotti racconta una sua telefonata con il capo della polizia di allora, Gianni De Gennaro: "Cosa vuole che faccia, quella non e´ un´ambasciata... Non c´è extraterritorialità. Quello che sta avvenendo è una sorta di controllo del territorio. Non le posso dire altro, ma non mi può chiedere una protezione come fosse un´ambasciata". Bertinotti, che era allora segretario di Rifondazione Comunista, dà la sua testimonianza in un film-inchiesta di Beppe Cremagnani, Enrico Deaglio e Mario Portanova dal titolo "Fare un golpe e farla franca". Un estratto dell´intervista è on line sul sito Repubblica.it.
Stamani saranno presenti molte delle 93 vittime. Tra di loro Mark Covell, giornalista inglese di 40 anni. Che nel 2006, nell´aula del tribunale di Genova, mentre raccontava di come i poliziotti l´avevano quasi ammazzato a calci e bastonate, ha scorto il sorriso sprezzante di alcuni difensori degli imputati. Non riusciva a trattenere le lacrime, e intanto gli altri ridevano. La rabbia, la frustrazione, e un´inquietudine improvvisa: quella di non riuscire un giorno ad avere giustizia. È così che ha deciso di trasformarsi in un detective. Ha raccolto tutto il materiale video e fotografico della notte maledetta, è tornato nella sua città e con la collaborazione di una quindicina di tecnici ha lavorato giorno e notte a quella che ha ribattezzato la London Investigation. Oggi è in grado di raccontare tutto il percorso fatto dalle molotov. Le due bottiglie incendiarie portate dalle forze dell´ordine all´interno della Diaz dopo il blitz per «giustificare» il massacro e l´arresto, sostenendo che i no-global erano in realtà pericolosi Black Bloc. La «regina» delle prove false. Covell è riuscito ad isolare il fotogramma-simbolo di una delle pagine più nere nella storia della Polizia di Stato: il cortile della scuola, le sagome di due funzionari che si allontanano, e sullo sfondo a sinistra il profilo di un uomo sulla soglia dell´ingresso laterale. Di spalle, in borghese, con un casco protettivo. Nella mano sinistra stringe qualcosa. Il sacchetto con le bottiglie.
Le fotografie sono state depositate recentemente dalle parte civili e non fanno che reiterare le accuse della procura. «Voglio giustizia. Vogliamo giustizia. Perché le cose che sono accadute a noi della Diaz non debbano accadere a voi, un giorno». Mark Covell ? il giornalista, la vittima, il detective ? mostra ora una fotografia dietro l´altra. Indica questo e quel video, analizza ogni secondo di quei minuti drammatici e cita le rare testimonianze degli imputati. Mette insieme fotografie, filmati e verbali: «Questo è Gratteri che telefona e si avvicina all´ingresso. Ora vedete? Mortola al cellulare. Burgio, l´agente che materialmente porta le molotov fino al cortile della scuola. Poi Troiani che parla con gli altri super-poliziotti. Luperi che mostra il sacchetto. Ed eccolo ancora qui, dentro la scuola: spuntano le molotov, stanno per sistemarle su quel lenzuolo dove metteranno in mostra tutte le cose sequestrate». Luperi giurò di aver chiamato una funzionaria, Daniela Mengoni. Affidò a lei, nel cortile, le molotov. La Mengoni a sua volta disse di averle passate ad un misterioso ispettore della Digos di Napoli. Uno che non fu mai identificato. «Ma la Mengoni non appare mai nel cortile. E anche quella dell´ispettore di Napoli, che nessuno ha identificato, è una sporca bugia».
Un gruppo di «celerini» lo aveva assalito mentre si trovava in via Battisti, a cinquanta metri dalla scuola. Cominciava la «carica» alla Diaz. Inutile mostrare l´accredito da giornalista. Era rimasto agonizzante sulla strada per venti minuti. Quasi tutti i funzionari sotto accusa raccontarono di non essersi resi conto di quello che stava accadendo dentro la scuola. Però Mark si rifiutarono di vederlo. Più tardi in ospedale fu arrestato. Sostenendo che era dentro la scuola. Stamani vuole giustizia. E non si arrende. «Ho trovato altre immagini. E troverò anche il nome di quelli che mi volevano uccidere».

La denuncia: la polizia cercò di usare le maniere forti per portarli via

Il racconto dei medici-eroi "Così salvammo i feriti gravi"
Tra le vittime vi era il giornalista inglese Covell: "Era in stato di incoscienza"
GENOVA - «Quella notte i poliziotti si presentarono al pronto soccorso poco dopo i ricoveri. Volevano portare via tutti i feriti della Diaz, senza preoccuparsi delle loro condizioni. Cercarono di usare le maniere forti, ma ci rifiutammo di consegnare loro i più gravi». Medici ed infermieri dell´ospedale di genovese di San Martino ricordano la sera dell´assalto alla Diaz. E il comportamento delle forze dell´ordine. Tra di loro Giorgio Giordano, il dottore che soccorse l´inglese Mark Covell. «Era gravissimo, in stato di semi-incoscienza. Arrivarono gli agenti in divisa, dissero che era in stato di arresto. Volevano andarsene con lui. Una follia. Ci opponemmo a quello che sembrava quasi essere un sequestro di persona. Formammo una sorta di cordone umano, tra medici ed infermieri, e riuscimmo a resistere». Covell sarebbe rimasto ricoverato per altre due settimane. Volevano portarsi via anche Dolores Villlamor Herrero, una signora spagnola di settant´anni. L´ospite più anziano della scuola. Che alzò le mani per ripararsi dalle manganellate, ma un colpo dei famigerati "tonfa" le spezzò l´avambraccio destro. Dolores, minuta, i capelli bianchi, ricorda con orrore quegli istanti. «Avevo il terrore che mi portassero via. E continuai a convivere con la paura per tutti i giorni del ricovero». La maggior parte dei 61 feriti fu però costretta a lasciare il San Martino in piena notte. Li accompagnarono tutti nel "centro di detenzione temporanea" di Bolzaneto, la caserma del Reparto Mobile. La prigione del G8. Ad attenderli, per il cosiddetto "triage", c´era Giacomo Toccafondi, il medico poi condannato ad un anno e due mesi di reclusione. Quello che avevano ribattezzato "il dottor Mengele".
(m. cal.)


Identificato l´agente ripreso mentre infieriva a manganellate
Dopo 7 anni ha un nome il poliziotto-picchiatore
Nessun collega lo aveva denunciato sebbene fosse riconoscibile per la coda di cavallo
GENOVA - Il fascicolo è stato aperto nelle settimane passate, a sette anni e passa dai fatti. A sorpresa nei giorni scorsi è stato interrogato in procura l´attuale capo della Digos genovese, Giuseppe Gonan. E intanto ci sarebbero già i primi indagati. Uno è Coda di Cavallo, l´agente in borghese che fu ripreso a lungo mentre ai piani superiori della scuola Diaz infieriva a colpi di manganello su alcuni ragazzi inermi. Il fotogramma che lo inquadrava in primo piano aveva fatto il giro di tutte le questure d´Italia, il volto era riconoscibilissimo e poi c´era quell´inconfondibile capigliatura. I magistrati avevano chiesto alle forze dell´ordine: come si chiama il vostro collega? I vertici del Ministero ? l´allora e l´attuale capo della polizia: Gianni De Gennaro, Antonio Manganelli ? avevano garantito personalmente ai pubblici ministeri la massima collaborazione nelle indagini. Ma dal luglio 2001 nessuno ha mai identificato il collega, nessuno si è fatto avanti. Fino appunto a qualche settimana fa, quando i pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini sono venuti a capo dell´enigma. Perché Coda di Cavallo aveva avuto l´arroganza di presentarsi in aula ? con i capelli debitamente tagliati ? ed assistere ad alcune udienze mischiato tra il pubblico. E dunque, l´agente-picchiatore ha finalmente un nome. Si tratterebbe di un sottufficiale della Digos del capoluogo ligure, proprio l´ufficio che era stato incaricato di identificare i circa duecento uomini della irruzione. L´ultima beffa, hanno commentato amaramente i magistrati. Ma anche la dimostrazione che il teorema della «doppia polizia» non è mai esistito: qualcuno nella notte della Diaz voleva distinguere tra buoni e cattivi, tra investigatori e «celerini». L´omertà ha invece finito per omologarli tutti.
(m. cal.)



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Carlo

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