[NuovoLab] CHE FARE?

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Prezzi, rendite finanziarie e profitti alle stelle, salari e pensioni nelle stalle. Devastazione della scuola e della sanità pubbliche. Precarietà sempre più selvaggia e devastazione dei diritti. Autoritarismo e intolleranza come valori assoluti.
Certo, sono la sintesi della politica del governo di destra.
Ma ci sono stati apripista che hanno lavorato alacremente nella stessa direzione per molti anni. Forse persino loro, oggi, hanno qualche dubbio sulle sorti magnifiche e progressive del libero mercato (evidentemente non avevano mai letto un libro di storia economica!), ma i danni che ci hanno provocato restano.

Di fronte a tutto ciò il sindacato può avere ancora un ruolo positivo per lavoratrici, lavoratori, pensionati, precari e disoccupati?

Dato che TUTTI i mezzi di informazione (naturalmente in misura e con modalità molto differenziate) tacciono sulle analisi e le proposte di chi non sta dentro qualche "patronato", mi permetto di inviarvi la sintesi della relazione tenuta da Giorgio Cremaschi al Seminario della Rete28Aprile il 6 settembre.






Sintesi della relazione di Giorgio Cremaschi al seminario della Rete28Aprile - Parma, 6 settembre 2008





Svolgiamo questo nostro incontro alla vigilia di scelte drammatiche che si prepara a compiere la Cgil. L’orientamento che pare prevalere è quello di sottoscrivere un’intesa con la Confindustria, che porterà l’allungamento a tre anni dei contratti nazionali e il vincolo per essi di un’inflazione programmata chiamata in altro modo. E’ un cedimento totale non solo rispetto alle posizioni che abbiamo rivendicato a difesa del contratto nazionale, ma anche rispetto alla stessa piattaforma confederale, che prevedeva uno scambio con il fisco dal lato del governo e una generalizzazione obbligatoria della contrattazione aziendale. Se si farà sarà chiamato un accordo minimo che, in realtà, farà danni massimi, perché confermerà l’egemonia politica del governo sulla situazione sociale del paese e aprirà la via allo smantellamento del contratto nazionale nel nome del salario-produttività.Se deciderà di firmare, la Cgil arriverà a questo accordo sulla base dell’inerzia prodotta da anni e anni di concertazione e politiche moderate e a seguito del disastro dei due anni di rapporto con il governo Prodi, che hanno portato la confederazione a non essere in grado di costruire una politica credibile di conflitto sociale.Del resto ci siamo già detti che un’eventuale, e da noi auspicata, non firma dell’accordo da parte della Cgil aprirebbe una crisi drammatica di strategia perché l’attuale stato della confederazione la rende in gran parte incapace di reagire col conflitto all’isolamento. Esempio ultimo è l’accordo separato del commercio che non ha ricevuto alcuna reazione da parte della categoria e della confederazione, a parte qualche comunicato.Se ci sarà l’accordo esso confermerà la forza politica dell’alleanza governo-Confindustria e del rapporto tra questa e Cisl e Uil. Siamo di fronte a una situazione politica dove davvero si delineano i contorni di un regime, che tanto più sono chiari, tanto meno vengono denunciati. Ed è questa la ragione per cui usiamo questa parola. Quando nel passato si denunciava il rischio di un regime berlusconiano, spesso si esagerava. Ora invece che questo regime davvero c’è, non se ne parla più, perché gran parte della stampa e delle grandi organizzazioni sono dentro di esso. Il governo di centrodestra in realtà fa una sorta di politica di unità nazionale uando Quando, come ha scritto il direttore di MicroMega, una politica alla Putin. La Confindustria si è schierata con il governo su Alitalia, ne riceverà in cambio ulteriori guadagni sul piano della legislazione e dell’attacco ai diritti dei lavoratori. Le altre organizzazioni imprenditoriali sono già nei fatti tutte dentro il quadro del governo o collaborano con esso. Le confederazioni sindacali, se firmeranno con Confindustria, ci saranno dentro con un ruolo marginale e riottoso della Cgil. Sul piano delle libertà democratiche e dei diritti civili non c’è nessuna vera opposizione al federalismo, all’attacco alla magistratura, alla messa in discussione delle regole e dei principi costituzionali. Nel paese sta crescendo un sentimento xenofobo che viene alimentato dal governo ma che oramai viaggia per conto suo e che spesso vede come protagonista della sua gestione non la lega o i naziskin, ma i sindaci di centrosinistra.In questa situazione l’opposizione politica non esiste in quanto il Partito Democratico non conta nulla, visto che i suoi riferimenti sociali ed economici collaborano con il governo, spiazzandolo continuamente. Persino la Regione Lazio ha chiesto di entrare nella cordata Alitalia. Nello stesso tempo la sinistra radicale e quella di classe sono in una crisi dalla quale è difficile pensare che escano con una massa critica sufficiente a modificare i rapporti politici. Mai ci siamo trovati di fronte a una situazione così squilibrata, a favore dei padroni, delle imprese, del mercato. Gli industriali e le imprese sentono il vento e lo amministrano con un attacco continuo ai diritti dei lavoratori. Cresce l’autoritarismo e assieme ad esso le discriminazioni. Valletta, a capo della Fiat negli anni 50-60, perseguitava i dirigenti della Fiom in fabbrica chiamandoli “distruttori”, e distinguendoli dai sindacalisti “costruttori”. L’attacco al contratto nazionale e l’aziendalismo che ne consegue nel nome del salario-produttività portano alla stessa cultura aziendale. Crescono i licenziamenti e le rappresaglie, pensiamo al segnale dato dalle Ferrovie con il licenziamento di Dante De Angelis, nella sostanza si sta affermando un vero e proprio fascismo aziendalistico che usa il bastone e la repressione con i rompiscatole e il paternalismo nei confronti di tutti gli altri.L’offensiva contro i fannulloni nel pubblico impiego ha ottenuto un successo clamoroso ed è stata condotta con grande intelligenza. Essa fa venire in mente i licenziamenti politici che la Fiat fece nel 1979 contro quelli che considerava i “lavativi”. E che preparavano l’attacco all’occupazione e ai diritti dell’anno dopo. L’attacco ai fannulloni nella pubblica amministrazione punta alla de sindacalizzazione e alla liquidazione della contrattazione collettiva in tutto il mondo dei servizi pubblici. Anziché metterlo in discussione porterà a un rafforzamento del comando politico sui lavoratori, con il ripristino delle pratiche discriminatorie e individuali, coperte sotto l’ideologia del merito. Il bliz del governo è stato fino adesso coronato da un successo clamoroso: ai pubblici dipendenti, a tutti e non solo ai fannulloni, sono stati tagliati i salari e i diritti. Non c’è stata ancora una reazione significativa di fronte a un attacco ai salari e ai diritti che non ha eguali dall’epoca del fascismo.La verità è che siamo in una situazione nella quale l’assenza di conflitto sta producendo un vuoto politico e sociale nel quale si annida il peggio della cultura della rassegnazione e del rancore. Non è accettabile in alcun modo una giustificazione da parte dei gruppi dirigenti che, a proposito delle scelte sbagliate o remissive, si nascondono dietro la passività del mondo del lavoro. Questa passività è frutto di una linea politica che accompagna l’aggressione delle imprese. Quindi la responsabilità dei gruppi dirigenti è fuori discussione. Tuttavia la passività sociale e culturale esiste e con essa dobbiamo misurarci, non per giustificare l’inazione ma per costruire e ricostruire le ragioni del conflitto e le condizioni del conflitto.Se si farà l’accordo si aprirà una nuova fase e non sarà più quella della concertazione ma quella che il governo e la Confindustria hanno chiamato della “complicità”. Il sindacato diventa parte del sistema competitivo delle imprese e solo così può esistere. Questo è il senso della campagna contro la casta e contro il ruolo esorbitante del sindacato che non fa il suo mestiere. Essa parte da una contraddizione reale, la consistenza organizzativa potente del sindacato italiano, a cui corrisponde la debolezza dei salari e della condizione del lavoro. Questa contraddizione però viene risolta da destra con l’aziendalismo, con l’offerta al sindacato di uno “scambio” tra la piena accettazione della competitività e del mercato, impresa per impresa, e un ruolo istituzionale che è sia a livello politico, sia a livello dei servizi. E’ quello che abbiamo chiamato il modello Cisl, così come veniva prefigurato dalla Cisl degli anni Cinquanta. Il sindacato collaborativo e complice che, in cambio, riceve privilegi e spazi fuori dai luoghi di lavoro, nei servizi, negli enti bilaterali, nei fondi pensionistici e sanitari.La Cgil è priva di difese rispetto a questa strategia, perché in questi anni, nella pratica quotidiana, ha sempre più trasformato la propria organizzazione in una struttura confederale, in un sindacato di servizio e di pressione politica, sempre meno in grado di realizzare la contrattazione. Il corpo burocratico dell’organizzazione non è più in grado di fare vera contrattazione e conflitto. E’ in grado solo di agire come una lobby sociale, nella migliore delle ipotesi come un sindacato dei cittadini.Per questo si apre una fase nella quale il dissenso non è più sufficiente. Occorre costruire dentro la Cgil un’opposizione che guardi ai conflitti e gli organizzi, che superi i veti burocratici, che operi per la ricostruzione a livello di massa del punto di vista del sindacalismo di classe nel nostro paese. Soprattutto è necessario mettere al centro di tutto le lavoratrici e i lavoratori e il loro diritto a decidere sull’azione e sulla rappresentanza sindacale. Occorre ridare centralità alla democrazia sindacale, che invece oggi è sempre più violata, sempre più ignorata.La funzione della Rete, piccola come forza organizzata ma con notevole ascolto tra i lavoratori e nei mass-media, è stata quella finora di denunciare le scelte sbagliate. Ora questa funzione, che pure è indispensabile, non basta più. Occorre puntare a un dissenso di massa che, nel caso in cui si vada a un accordo che comprime i salari, organizzi una vera e propria disubbidienza, sia nell’organizzazione, sia nelle pratiche sindacali. Puntiamo, naturalmente, all’articolazione del conflitto perché sappiamo perfettamente che non è semplice ribaltare un accordo confederale o costruire un opposizione alla politica del governo di centrodestra sulla base di lotte generali. Appuntamenti generali possono essere necessari, ma servono a dare il via, a dare forza all’articolazione. Come nell’esperienza dei precontratti dei metalmeccanici si riconquistò un tavolo nazionale con la guerriglia rivendicativa, ovunque possibile, così dobbiamo porci l’obiettivo di far saltare il regime della complicità con l’organizzazione del conflitto, a macchia di leopardo, ovunque sia possibile. Bisogna riconquistare questo spazio, perché quello del conflitto generale, in questa fase, non è a nostra disposizione. La forza di Berlusconi sta nel fatto che le sue misure e le sue scelte riassumono, peggiorandoli, 15-20 anni di concertazione sociale e di politica riformista. Berlusconi non fa una politica di destra estrema ma realizza, accentuandone i caratteri iniqui, quello che i vari governi che si sono succeduti hanno sostanzialmente pensato di fare, a volte non avendone il coraggio. Per molti anni ci hanno spiegato che le scelte liberiste, più o meno temperate, non avevano alternativa. Oggi è il governo Berlusconi che appare senza alternativa. Per questo occorre ricostruire un punto di vista generale alternativo, farlo vivere anche nella mobilitazione di massa e, nello stesso tempo, puntare all’articolazione delle lotte. Di fronte a questo quadro così rigido, di fronte al consolidarsi di una svolta a destra, solo l’articolazione che parte dalle condizioni concrete dei lavoratori può reggere e costruire. Un’articolazione che, naturalmente, deve scontare differenze profonde di piattaforma. In una realtà è la lotta contro la precarietà, in un’altra è sulla salute, in un’altra è contro l’autoritarismo aziendale, in un’altra ancora è sul salario. Dobbiamo dare per scontato che il conflitto muoverà su piattaforme diverse, non su una sola piattaforma fatta a ciclostile per tutti.Si pone naturalmente la questione della forza organizzata che sta dietro la ricostruzione del conflitto. Noi puntiamo a far sì che il fronte di forze che si è trovato nell’assemblea del 23 luglio si consolidi in un’opposizione organizzata in Cgil. Non sarà semplice, ma questo è l’obiettivo possibile, in quanto il puro dissenso, la pura distinzione, oggi non sono più adeguate né alla forza delle imprese, né alla condizione dei lavoratori. Ci vogliono forze reali in campo. E noi dobbiamo lavorare per questo. L’appuntamento congressuale con una mozione alternativa lo abbiamo già deciso ed è un punto fermo, ma non basta. Occorre costruire sul campo un’opposizione sociale. Per questo noi siamo per discutere apertamente con i sindacati di base che, se sono consapevoli della realtà, non possono che partire dalla constatazione che l’onda lunga della crisi del sindacalismo confederale e della Cgil tocca e può travolgere anche loro. All’Alitalia, per la prima volta, c’è un documento e una piattaforma unitaria di tutti e nove i sindacati, compresi quelli extraconfederali. E’ significativo che questo avvenga nel momento in cui i nuovi e i vecchi padroni dicono: o mangi questa minestra o salti dalla finestra. Dobbiamo aspettarci un attacco durissimo nei luoghi di lavoro e anche verso i militanti sindacali. Dobbiamo, in sintesi, aspettarci che il risultato elettorale, con un’opposizione impotente e una maggioranza che fa tutto, si voglia trasferire anche nei luoghi di lavoro, nelle relazioni sindacali. Quindi dobbiamo organizzarci per resistere e costruire la controffensiva, nella situazione più difficile che mai i militanti della nostra generazione e di quelle successive hanno avuto di fronte. Per questo accanto alle scelte politiche deve andare avanti con assoluta determinazione il progetto organizzato della Rete. E usciamo da questo seminario con la decisione di rendere operativa ovunque possibile la nostra presenza con una struttura formale visibile e conosciuta.



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