[Lecce-sf] inchiesta su Taranto

Delete this message

Reply to this message
Autor: SILVERIOTOMEO
Data:  
Para: social forum
Assunto: [Lecce-sf] inchiesta su Taranto
Michele Sgobio
L'Ilva dà da mangiare a più di 15 mila famiglie ma è una delle fabbriche italiane in cui più si muore e ci si infortuna. La provincia di Taranto è una delle più inquinate, forse la più inquinata, d'Italia. I valori di alcuni veleni presenti nell'aria sono anche trenta volte più alti rispetto alla media europea


Bello e brutto a Taranto si confondono, si mescolano. Può capitarti di restare incantato dai giochi di luce e dai colori mentre passeggi sul lungo mare e poi, semplicemente voltando lo sguardo, di inorridire dinanzi a un groviglio di tubi, capannoni, altiforni e ciminiere che sputano fumo, vapore e fiamme; o di passeggiare per i vicoli della città vecchia e non riuscire a comprendere se sei meravigliato per quanto sia bella o schifato per come sia conservata, fra palazzi cadenti e vicoli inagibili. Non riesci a distinguere, non ci sono linee di demarcazione nette: un palazzo può essere bello anche se cadente e un tramonto in riva al mare può essere brutto se non è la giornata giusta e guardi verso l'Ilva.
E' lo stabilimento siderurgico più grande d'Europa l'Ilva, con i suoi 15 milioni di metri quadri di superficie è due volte e mezzo la città. Attraversato da duecento chilometri di binari, 50 di strade, centonovanta di nastri trasportatori ogni anno produce oltre 10 milioni di tonnellate d'acciaio.
Non puoi non parlare del siderurgico se vuoi parlare di Taranto, anche se cerchi deliberatamente di evitarlo, anche se apparentemente non c'entra niente. Sta sempre lì, a ricordarti che è lui a dispensare vita e morte in questa città.
No, non è una metafora.

L'Ilva dà vita perchè dà da mangiare a più di 15 mila famiglie ma dispensa anche morte fra incidenti sul lavoro e malattie. E' una delle fabbriche italiane in cui più si muore e ci si infortuna.
La provincia di Taranto è una delle più inquinate, forse la più inquinata, d'Italia. I valori di alcuni veleni presenti nell'aria sono anche trenta volte più alti rispetto alla media europea; molti sono i casi di tumore e la probabilità di ammalarsi è elevata: solo in Veneto va peggio.
Da queste parti non si mescolano solo brutto e bello ma anche bene e male.
Sembra che qualcuno abbia fatto entrare in contatto gli zahir di Taranto, distruggendoli e confondendo la realtà del posto a cui sono intimamente legati.
Secondo antiche leggende gli zahir sono oggetti nei quali è custodita l'essenza stessa di alcune città. Le più antiche, le più importanti. Ogni città ne custodisce segretamente due, contenenti le sue due essenze opposte: il suo yin ed il suo yang, la sua essenza maschile e quella femminile. Mai questi oggetti devono entrare in contatto, se ciò avviene si distruggono, confondendo irrimediabilmente la città di cui racchiudono le essenze*.

Proprio quello che sembra essere successo a Taranto che, fra le altre cose, è anche una delle città più indebitate del Paese.
Un buco di novecento milioni di euro frutto del saccheggio sistematico delle casse comunali, almeno stando alle accuse formulate nei processi in corso.
Anni di operazioni finanziare spericolate, la versione tarantina della finanza creativa voluta da Tremonti (ma tanti Comuni in Italia hanno effettuato manovre azzardate sui mercati finanziari). Anni in cui dirigenti, funzionari e anche qualche impiegato si sono gonfiati gli stipendi in maniera spropositata sfruttando falsi progetti, premi di produttività e straordinari: alcuni guadagnavano anche più di 30 mila euro al mese. Un periodo nel quale gli appalti, anche quello della cancelleria, sempre stando alle accuse, venivano dati in affidamento a ditte di "amici" o di "amici di amici"... il Comune pagava a qualcuno persino le bollette delle utenze private.
Come si è potuti arrivare a tutto questo?

Il centro della questione è sempre lei, l'Ilva.
Per capire la Taranto di oggi bisogna tornare agli anni '80 del secolo scorso, gli anni in cui l'Ilva, che allora si chiamava ancora Italsider, cominciò a licenziare.
Durante tutto il corso degli anni '80, come in tutti i grandi centri industriali, anche a Taranto ci furono licenziamenti massicci. Ristrutturazione si chiamava all'epoca. Di fatto era l'indebolimento della classe operaia che in tutto il decennio precedente aveva lottato per ottenere sempre maggiori diritti e superare il capitalismo.
Erano diventati pericolosi gli operai e andavano indeboliti. Avvenne anche a Taranto.
Nei primi anni di quel decennio la città era amministrata da sindaci comunisti retti da precarie giunte di sinistra, un'anomalia se rapportata al resto d'Italia. Giunte che, tra le altre cose, si erano opposte alla costruzione della nuova base navale in Mar Grande, oggi realizzata, fortemente voluta dagli statunitensi, che forse già prevedevano lo scenario attuale.
Sono anni di impoverimento e imbarbarimento della città. Anni in cui le clientele si rafforzano nuovamente facendo ritornare l'intera provincia mezzo secolo indietro, a quando si era costretti a vivere sotto ricatto e a contraccambiare con il voto "favori" che spesso erano semplicemente un tuo diritto. E' anche il periodo in cui la malavita comincia a diffondersi e a rafforzarsi grazie alle tante braccia disponibili a causa dei licenziamenti.

Ma a Taranto la malavita è particolare, la sua genesi diversa rispetto al resto della Puglia e del Mezzogiorno. Per certi versi la sua storia è diametralmente opposta a quella della banda della Magliana. Qui, stando a quel che si racconta, non si sono scannati per il controllo del mercato dell'eroina ma perchè il capo e buona parte delle famiglie erano contro il traffico di eroina. Qui la parte originaria della malavita non ha avuto contatti con settori deviati ma, forse, si è scontrata proprio con quei settori.
Bisogna ricordarlo sempre che la storia di Taranto è contorta, quasi un noir nel quale è difficile capire il bene dove si trova.
Gli anni '80 sono gli anni in cui la città comincia a mutare, a trasformarsi, a prendere le forme che oggi la caratterizzano (ma il mutamento, come nel resto del Mondo, è ancora in corso).

L'anno di rottura, il momento in cui i vecchi equilibri vengono meno e se ne devono creare dei nuovi, è il 1985.
A maggio di quell'anno si vota per il rinnovo del Consiglio comunale. Dalle elezioni esce un quadro frammentato.
Il Pci perde molti voti in città, dove raccoglie il 29,2%, pur restando, con il 37%, il primo partito a livello provinciale.
Neanche la Dc va bene, non raccoglie il consenso che si aspettava e, nel complesso, la coalizione di sinistra è più forte: passa da 27 a 29 consiglieri, grazie soprattutto ai discreti incrementi di Psi e Psdi.
Cominciano gli incontri per formare una giunta: trattative su trattative senza mai trovare una soluzione.
Passa l'estate e Taranto non ha ancora un sindaco.
Passa anche settembre.
Siamo in ottobre, precisamente è la notte fra il dieci e l'undici ottobre del 1985.
Nelle stesse ore i carabinieri italiani stanno circondando, a Sigonella, la Delta Force americana che a sua volta ha circondato i Vam della nostra aeronautica, intervenuti per prendere in consegna gli assaltatori dell'Achille Lauro. Gli statunitensi premono, vogliono arrestarli loro ma Craxi, amico dei palestinesi, si oppone ai diktat di Reagan: scoppia una crisi diplomatica che termina con i mitra dei carabinieri italiani spianati contro i reparti speciali americani.

A Taranto, invece, in quelle ore si conclude un accordo fra i partiti della sinistra con Pri e Pli per una nuova giunta a guida socialista.
Il Consiglio comunale per eleggere il nuovo sindaco viene fissato per il 14. Quel giorno, però, Guadagnolo, il sindaco socialista designato, viene eletto da una coalizione che invece del Pci comprende la Dc, il classico pentapartito che in quegli anni governa l'Italia.
Cosa è successo in tre giorni?
Sono intervenuti i dirigenti nazionali di Pli e Pri ad impedire che, a livello locale, i loro partiti entrassero in una giunta di sinistra. Socialdemocratici prima e socialisti poi si sono tirati indietro. Taranto, dopo dieci anni di amministrazioni di sinistra, passa al pentapartito.
Ma perchè intervengono i dirigenti nazionali dei due partiti laici per impedire l'accordo? E perchè socialisti e socialdemocratici ne prendono immediatamente atto senza insistere minimamente? Probabilmente, dato che gli interventi più vistosi di quei giorni furono fatti da esponenti di partiti che si dichiaravano apertamente filo americani, non si voleva fare, dopo Sigonella, un altro sgarro agli americani; non si doveva contribuire ad eleggere una giunta che si sarebbe opposta alla realizzazione di una base militare ritenuta di importanza strategica.
Ma potrebbe esserci anche dell'altro. Di ipotesi se ne fecero tante dopo quei concitati giorni... e molto più inquietanti.
L'ottobre del 1985 non fu solo un periodo di trattative e complotti politici.
All'inizio del mese il Csm aveva messo sotto inchiesta e trasferito l'allora procuratore capo di Taranto, Giuseppe Raffaelli. Due dei suoi sostituti, Giuseppe Lezza e Giuseppe Lamanna, vennero invece sospesi dall'incarico e dallo stipendio.
Erano accusati di corruzione, omissione di atti di ufficio e abuso di potere.
Si pensava che avessero agito per favorire un potentato economico-politico che, in particolare, faceva riferimento ad esponenti dell'allora democrazia cristiana.
Si comincia ad ipotizzare che in città vi sia un "super partito" che riunisce esponenti di diversi settori. Secondo alcuni furono loro gli artefici di quanto successe fra l'11 ed il 14 ottobre.
La polemica divampa.
Anche all'interno della stessa Dc c'è chi denuncia il malaffare.
Sembra che uno scandalo sia imminente, si comincia a parlare sempre più insistentemente di "caso Taranto".
Ma non succede niente.
I fatti imputati non rappresentano un reato.
Ma quali sono questi fatti?

Sono molte le storie che sul finire del 1985 vengono a galla.
Qualche mese prima di quell'ottobre un funzionario del ministero dell'interno, Aldo Luzzi, inviato a Taranto per alcune indagini, ha depositato la propria relazione. Nel documento parla di loschi movimenti che attraversano la questura e mette in risalto il ruolo di due dirigenti della polizia: il capo della mobile, Giuseppe De Donno, e il responsabile della squadra volanti-furti, Eugenio Introcaso. Li accusa di svolgere un servizio di polizia privata nei confronti di Donato Carelli, un imprenditore locale allora legato alla Dc (qualche anno dopo si sarebbe candidato alla camera nelle liste del Psdi) e proprietario dell'ippodromo, di un'emittente televisiva locale e di un'impresa di pulizie industriali che aveva un grosso appalto all'interno dell'Italsider.
Secondo il rapporto di Luzzi i due, oltre a ricevere ingenti regali dall'imprenditore (si parlò di un ristorante e di auto di lusso), avrebbero addirittura partecipato ad un incontro fra Carelli e due boss della mafia palermitana che si sarebbe tenuto all'ippodromo.
Rivelazioni scottanti giunsero anche da ambienti interni alla Democrazia cristiana.
La relazione di Luzzi contiene, fra l'altro, riferimenti a comportamenti presumibilmente illeciti di alcuni esponenti della magistratura locale e Martinazzoli, allora Ministro della giustizia, decide di inviare a Taranto un ispettore. E' a lui che viene recapitata una lunga lettera, quasi un memoriale, di Angelo Alfonso, l'ex segretario provinciale della Dc.
Alfonso scrive di intrecci fra politica e magistratura, di commistioni e scambi di favori. Sostiene che gli atti che hanno portato le sue aziende a fallire e lui in carcere siano il frutto di questo intreccio. Tutto, secondo lui, è stato orchestrato per screditarlo a livello politico, per fargli perdere l'influenza all'interno della Democrazia cristiana. A guidare gli attacchi, secondo l'ex segretario democristiano, sarebbe stato l'allora sottosegretario alle finanze Giuseppe Caroli, esponente di una corrente democristiana avversa alla sua.
In seguito a queste dichiarazioni qualcuno ipotizzò che azioni della magistratura e delle forze dell'ordine fossero tese a mettere in difficoltà attività imprenditoriali tarantine in modo che si rivolgessero agli usurai; in quel 1985 ci fu anche un grande processo contro l'usura che coinvolse la città bene. Ma le ipotesi riportate restarono sempre ipotesi, nulla fu mai dimostrato.
Secondo quanto emergeva dai rapporti degli ispettori del Viminale e del Ministero della giustizia a Taranto si era costituita un'organizzazione composta da politici, imprenditori, magistrati, esponenti delle forze dell'ordine e malavita organizzata che aveva contatti con la mafia siciliana e che gestiva i traffici leciti ed illeciti. Un'organizzazione addirittura in grado di influenzare la composizione di una giunta.

E il Pci?
Il Pci prima denunciò: fu un suo senatore, Vito Consoli, a premere, assieme al democristiano Domenico Maria Amalfitano, affinchè i ministeri competenti inviassero degli ispettori a Taranto. Poi, anche in seguito alla morte di Consoli, dimenticò. Una dettagliata inchiesta apparve, fra il dicembre e il gennaio del 1985, sulle pagine dell'Unità**.
In quel periodo anche all'interno del Partito comunista si era aperta un'aspra discussione. Si affrontavano due gruppi, uno legato a Consoli, l'altro all'ex sindaco Giuseppe Cannata. Il timore di quest'ultimo era che qualcuno potesse affermare che anche la sua giunta fosse stata designata dal "super partito", con tutte le implicazioni che ne conseguivano. I suoi avversari a volte usarono questi argomenti.
Ma si può davvero ipotizzare che esponenti comunisti come gli ex sindaci Cannata e Giovanni Battafarano facessero parte di una simile struttura?
E' molto più probabile che quel gruppo di potere, che si prefiggeva di mettere le "mani sulla città", si fosse costituito in quei primi anni '80, approfittando soprattutto della crisi economica, nonostante la sinistra a Palazzo di città e, comunque, con la complicità di parte di essa.
Perchè gli appalti all'Italsider si decidevano a Roma e a Roma chi contava più di tutti era la Dc. Perchè la città si era impoverita e questo spianava la strada alla costruzione di rapporti clientelari. Perchè, come lo stesso Caroli sostenne in un'intervista del 1984 all'Avvenire, "Chi controlla una procura della Repubblica tiene sotto tiro gli amministratori pubblici della sua provincia che, perciò, si mettono a disposizione"
Tutto però si concluse con qualche trasferimento e nessun risultato rilevante nelle seguenti indagini: tutti furono scagionati.

Quel lungo 1985 era finito, Taranto era in mano al pentapartito e, probabilmente, se davvero esisteva, un gruppo di potere molto esteso stava mettendo le mani sulla città (a onor di cronaca bisogna anche dire che gli accusati di far parte del "super partito" risposero sempre agli attacchi sostenendo che tutto fosse una montatura politica per screditarli).
La giunta Guadagnolo amministrerà per cinque anni, saranno anni, però, in cui si parlerà più della guerra di mala che di politica.
A comandare la malavita tarantina è il "messicano", Tonino Modeo. Ha unito, con le buone e con le cattive, i diversi clan ed ha in mano le redini delle estorsioni, dell'usura, delle bische e del contrabbando di sigarette.
Non esita a far ammazzare, ma solo se è necessario, solo quando le crudeli leggi della strada lo impongono. Non gli piacciono gli omicidi, non è un sanguinario. E non gli piace la droga, l'eroina, il business che in quegli anni va imponendosi fra i traffici criminali.
E' un malavitoso anomalo Tonino Modeo, più vicino alla vecchia criminalità e ai suoi valori, anche se organizza la propria banda secondo criteri modernissimi, che alla nuova mafia di quegli anni. Ha un passato in Lotta Continua, quando quest'organizzazione negli anni '70 aveva attratto buona parte del sottoproletariato giovanile urbano. Per lui "la vita" è un'opportunità di riscatto, di riappropriazione della propria dignità. Un modo tramite il quale riprendersi tutto quello che gli è stato tolto.

E' un altro dei paradossi di Taranto; sono delle scelte che pagherà con la vita.
Ha tre fratellastri Tonino: Gianfranco, Riccardo e Claudio. La madre, Mina Ceci, è la stessa ma i padri diversi. Gestisce con loro i propri traffici ma non ne ha molta stima. Li ritiene ragazzi di strada, privi di quelle capacità necessarie per gestire un'organizzazione che si fa sempre più complessa.
La banda controlla ormai diverse finanziarie e un grosso appalto all'interno dell'Italsider, tramite l'Italferro sud, un'impresa che si occupa di gestire il materiale di risulta delle acciaierie. C'è bisogno di agganci politici e di trattare con i "colletti bianchi" per mandare avanti la baracca, secondo Tonino i fratelli non sono adeguati.
A non essere adeguato, invece, è proprio lui, Tonino, con la mania di non voler trafficare eroina, di non voler avvelenare i ragazzi della sua città. Lui, il "messicano", fa quello che fa anche per ridare dignità a quei ragazzi, non per ucciderli con la droga.
Ma tanti non la pensano così. Quell'idea quasi romantica di criminalità non è condivisa da molti. L'eroina è un grosso affare, le organizzazioni forestiere premono per investire in un mercato promettente come quello di Taranto. Non è facile opporsi, anche se sei Tonino il "messicano", anche se sei il capo.
Molte famiglie cominciano a criticarlo, i rapporti con i fratelli, appoggiati dalla madre, si incrinano sempre più e attorno a loro si coagulano gli avversari di Tonino, quelli che vogliono commerciare la roba ( "loro non erano altro che dei delinquenti del rione che, per il fatto che si erano messi contro Tonino il messicano, si erano ingranditi" dirà dei fratelli Modeo Salvatore Anacondia nella sua deposizione dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia).
A quel punto Antonio Modeo stringe un patto di ferro con il gruppo di Salvatore De Vitis: pur di non trafficare eroina, ma anche per non far calpestare la propria autorità, si mette contro i fratelli. Questi decidono di ammazzare De Vitis, ma non ci riescono.
La scissione ormai è aperta, ci sono due clan fra loro contrapposti. Uno vuole smerciare eroina, l'altro si oppone.
Comincia così la guerra di mala tarantina: durerà sino ai primi anni novanta concludendosi il primo ottobre del 1991 con una strage di innocenti, quella della barberia, dove un commando, per sbaglio, uccide quattro innocenti e non il bersaglio che si era prefissato. Sarà una guerra pesantissima, si conteranno più di cento morti.
Il primo a morire è il padre di De Vitis, Paolo, ucciso per "sfregio" dal clan dei fratelli Modeo; subito dopo tocca alla madre dei Modeo e del "messicano", Cosima Ceci, uccisa per vendetta. Poi è una valanga di morti, fino al 1991 (il prologo alla guerra lo aveva messo in scena Gregorio Cicala: incaricato di ammazzare De Vitis, al quale è legatissimo perchè gli ha permesso di liberarsi dall'eroina, decide di ammazzare il mandante e di schierarsi con De Vitis e il "messicano". Sarà lui ad uccidere Cosima Ceci per vendicare l'omicidio del padre di De Vitis).
Nel 1990 i fratelli di Tonino vengono arrestati. Erano nascosti in un bunker scavato sotto un'abitazione di campagna a Montescaglioso, in Basilicata ma a quattro passi da Taranto. Sono i loro cani a tradirli: continuano ad annusare sempre nello stesso punto della casa, proprio dove, rimuovendo il pavimento, viene ritrovata una botola.
In quell'anno Tonino non è più a Taranto, ha lasciato la borgata di Statte (oggi Comune autonomo) già da tempo. E' stato avvistato a Milano ma il 16 Agosto di quel 1990 è a Bisceglie, in provincia di Bari. E' lì che viene ammazzato da Salvatore Anacondia.
Anacondia non è uno qualsiasi, è, per sua stessa ammissione, affiliato alla mafia siciliana ed ha un grado elevato, "santista", nella gerarchia malavitosa. Quello che i fratelli Modeo, dal carcere, gli hanno fatto sapere per convincerlo ad ammazzare il "messicano" è infamante: Tonino avrebbe cercato di violentare la moglie di uno dei fratelli.
Anacondia esegue la condanna. La mafia esegue la condanna e, forse, più che per l'episodio di violenza che i fratelli gli attribuiscono, decide di ucciderlo per punire quella caparbietà con cui si era opposto al traffico di eroina e all'infiltrarsi di cosa nostra nella sua città (il "messicano", si dice, fosse stato "innalzato" dai campani).

Nel maggio del 1990, prima che il "messicano" fosse ucciso, si votò per il rinnovo del consiglio comunale: ne venne fuori una situazione ancora più confusa che nel 1985. Il Pci è tracollato al 19% ma è possibile una giunta di sinistra con Pri e Pli, proprio come cinque anni prima. Si ipotizza, è quasi fatta, ma salta. La nuova giunta di Taranto è appoggiata da Dc, Psi, Psdi, Pri.
La novità politica venuta fuori dalle elezioni è Giancarlo Cito: si è presentato per la prima volta con il partito che prende il nome dalla sua tv, At6 (Antenna Taranto 6), raccogliendo il 13,5% dei voti e sette consiglieri comunali.
Solo tre anni dopo diventerà sindaco. Saranno tre anni di elevata instabilità politica.
La guerra di mala, invece, dopo la strage del '91, sembra essersi arrestata. Con la morte del "messicano" hanno vinto i fratelli e, nonostante siano in carcere, riescono a far giungere le proprie direttive in città.

Taranto si è impoverita ulteriormente: l'Italsider, che nel frattempo è diventata Ilva, ha continuato ad espellere operai dal ciclo produttivo; altre aziende importanti, come la Belleli, sono entrate in crisi. Anche l'arsenale è in difficoltà e in quei primi anni novanta non si parla più di riapertura dei cantieri navali ma di costruire un parco giochi al loro posto.
La gente comincia ad essere stanca e rassegnata, per tutto il decennio precedente si è diffusa una pericolosa mentalità secondo la quale tutti rubano e sono uguali.
C'è netta sfiducia nella politica.
Il malcostume si diffonde sempre più, anche fra i cittadini.
La città di sera è buia, sporca, ci sono vistose buche sull'asfalto, quasi delle voragini, e ogni due passi incontri una siringa.
Dopo una certa ora non esce più nessuno: hanno paura.
Sembra grigia, opaca, la Taranto dei primi anni '90. E opachi sono gli aspetti della sua vita economica, politica e sociale.
In tre anni cambiano tre giunte. Tre sindaci diversi si succedono, il secondo dei quali appoggiato anche dal Pci che nel frattempo si scinde e diviene Pds.
La precarietà sociale e l'instabilità politica non fanno che portare acqua al mulino di Cito. Non passa giorno senza che sbraiti dalla sua televisione contro i politici corrotti, la partitocrazia e tutti quelli che siedono in consiglio comunale al di fuori del suo gruppo. Non passa giorno che non segnali strade dissestate, chioschi abusivi ed episodi di malcostume riferiti a dipendenti comunali. Tutto si conclude sempre con: "se fossi sindaco io questo non succederebbe".
Diventa sindaco nel dicembre del 1993.
Il sistema elettorale è ormai cambiato, per la prima volta c'è l'elezione diretta del primo cittadino.
Anche a Taranto i partiti tradizionali, dopo tangentopoli, sono in seria difficoltà.
I poteri forti hanno bisogno di referenti nuovi, diversi.
Cito sembra la persona giusta, e vince.
Il suo partito è il primo con il 25,9% dei consensi. Lui, invece, come candidato sindaco raccoglie il 30,3% dei voti, il 3,4% in meno di Gaetano Minervini, candidato da Pds, Rifondazione, Verdi, Rete e Psi: si va al ballottagio.
Nella campagna elettorale seguente sono ripetuti gli appelli ai democratici che votano Dc ma questi, evidentemente, preferiscono Cito, che diventa sindaco con il 52,6% dei voti (Minervini ottiene solo il 47,4%).
Ma chi è il geometra, ora dottore, Giancarlo Cito?
E' un ex missino, picchiatore, espulso dal partito perchè troppo estremista.
E' un imprenditore locale che ha messo in piedi un'emittente televisiva che in breve tempo è passata dal trasmettere film porno e prime visioni pirata al diffondere veementi tribune politiche del suo proprietario. Non è il becero ignorante fascista che spesso viene descritto. Ha carisma, sa comunicare.
Quando c'è da rifare le strade lui è lì, con le telecamere che riprendono tutto, a dirigere i lavori di chiusura delle voragini che si erano aperte. E anche quando i vigili devono sgomberare un chiosco abusivo o i dipendenti comunali illuminare una via, lui è sempre lì, a dirigere i lavori, ripreso dalle sue telecamere.
A modo suo ama davvero la città e riesce a trasmetterlo ai tarantini.
La sua base sociale va dal professore di liceo al disoccupato, dall'operaio all'avvocato, dalla casalinga al commerciante. Tutti sono stanchi di una città allo sbando, degradata e in crisi e Cito sembra la persona giusta per uscirne: "almeno lui le cose le fa" si sentiva spesso dire in quel periodo. E non era del tutto falso: alcune fontane, chiuse dalle giunte precedenti, riprendono a zampillare; si riparano le strade; ritorna la luce di sera; viene realizzata a tempo di record la rotonda sul lungo mare...
La criminalità intanto non uccide più, molti capi clan, anche quelli che reggevano le redini per conto dei fratelli Modeo, vengono arrestati. Alcuni, come Marino Polito, si pentono e vengono fuori intrecci inaspettati fra il clan Modeo, Licio Gelli, cosche siciliane e calabresi. Polito parla dei rapporti fra la sua organizzazione e Cito e anche Salvatore Anacondia, il killer del "messicano", pentitosi nel frattempo, riferisce di un incontro fra il politico e i malavitosi nel loro bunker di Montescaglioso.
Oltre ai pentiti che lo tirano in ballo Cito comincia ad accumulare numerose denunce per diffamazione. Partono i processi a suo carico, quelli per reati di mafia sono solo i più gravi. Viene rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione di stampo mafioso, secondo la legge italiana non può più essere sindaco.

Siamo alla fine del 1995.
In quell'anno l'Ilva è stata privatizzata e in settembre c'è stata una grande manifestazione contro lo sgombero del centro sociale "Città Vekkia", oltre quindicimila persone giunte da tutta Italia (sarà l'unico atto di protesta plateale contro la giunta Cito. Anche subito dopo la notizia del dissesto, nel 2006, gli unici a manifestare saranno, assieme agli ultrà, i ragazzi del Comitato di quartiere della Città vecchia, gli eredi dello spazio occupato sgomberato da Cito).
La politica nazionale è ormai cambiata: tangentopoli ha spazzato via i vecchi partiti e sulla scena si è affacciato Berlusconi con il suo centrodestra. Hanno vinto le elezioni l'anno precedente battendo "la gioiosa macchina da guerra" progressista ma, dopo pochi mesi, il governo è caduto.
Le elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale di Taranto sono fissate per il 9 giugno del 1996, le elezioni politiche per il 21 aprile. Cito non può ricandidarsi a sindaco.
Si candida alla Camera e viene eletto con il 45,9% dei voti. Il suo è il primo partito in città e ottiene buoni risultati in tutti gli altri collegi della provincia. Toglie voti al centrodestra, però, avvantaggiando il centrosinistra che vince le elezioni anche a livello nazionale.
E' un campanello d'allarme che Pinuccio Tatarella, in quegli anni plenipotenziario dell'alleanza berlusconiana in Puglia, non trascura. Sotto la sua benedizione nasce un'alleanza fra il centrodestra e At6 che decide di candidare a sindaco, nelle imminenti elezioni comunali, Mimmo De Cosmo, il braccio destro di Cito che, invece, si presenta al Consiglio comunale.
Vincono le elezioni e At6 è ancora, di gran lunga, il primo partito di Taranto.
De Cosmo, però, non ha vita facile e le contraddizioni nella sua maggioranza vengono presto a galla. Spesso non si riesce a trovare un accordo e le rotture sono evidenti, anche all'esterno. Cito è troppo accentratore, non è adeguato a mediare fra i molteplici interessi di cui dovrebbe essere il riferimento; a molti comincia a non andare giù che il vero sindaco sia lui. Probabilmente non è l'uomo della provvidenza come i poteri forti avevano creduto.
Sul finire del 1996, dopo una polemica che ebbe lunghi strascichi, Cito lascia il posto di consigliere comunale: l'incarico, per legge, non è compatibile con i processi ai quali è sottoposto.
Nel novembre del novantasette De Cosmo viene arrestato; gli viene imputato di aver truccato gare d'appalto per l'affidamento di alcuni servizi in cambio di tangenti. Non si dimette, viene scarcerato e continuerà ad amministrare, con una maggioranza in fibrillazione, sino alla scadenza del mandato prevista per il 2000.

La struttura produttiva della città è cambiata radicalmente. Un'intera classe di imprenditori, che sino ad allora erano sopravvissuti soprattutto grazie agli appalti all'interno dell'Ilva, ottenuti spesso grazie ad agganci politici o ad intimidazioni, devono riciclarsi. La privatizzazione dello stabilimento siderurgico rappresenta per molti di loro la fine degli affari. E' in quegli anni che si passa dal saccheggio dell'industria di stato, ormai privata, al saccheggio degli enti locali e di tutte le strutture ad essi legate. Cito, però, con il suo protagonismo e le sue manie accentratrici non è adatto a gestire la nuova stagione. Viene condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, decade da parlamentare e passa gli anni che vanno dal 2003 al 2007 in carcere.
Nelle elezioni del 16 aprile 2000 At6, che non è in coalizione con il centrodestra, raccoglie solo l'otto per centro dei voti.
Rossana Di Bello, invece, candidata sindaco del centrodestra, per un pelo, con il 49%, non vince al primo turno. E' lei l'astro nascente della politica tarantina; sarà lei a garantire il mantenimento degli equilibri, cosa che Cito non aveva saputo fare, fino al 2006. Il 25 febbraio di quell'anno si dimette in seguito alla condanna ad un anno e quattro mesi, con sospensione della pena, per alcune vicende legate all'affidamento della gestione dell'inceneritore.
Immediatamente dopo fu scoperto il disavanzo, poi seguì il dissesto.
Ma pochi mesi prima di dimettersi, il 3 aprile del 2005, la Di Bello era stata rieletta al primo turno con il 57,7% dei voti. Un trionfo!

Possibile che nessuno si fosse accorto di quello che stava avvenendo?
Molti in buona fede no, davvero! Tutto era mascherato sotto una patina da reality show che aveva fatto diventare accogliente il centro della città e poche altre vie. Era ammantato da progetti faraonici che avrebbero lanciato Taranto nell'olimpo del turismo di qualità, neanche quello di massa, quello dei vip e degli yacht. Progetti che si favoleggiava finanziati da contributi europei, grande pubblicità fu fatta al piano Urban. Ma era solo una patina, una mano di vernice dietro la quale erano nascosti i comportamenti che hanno portato al dissesto.
I primi anni di questo secolo non sono, però, solo gli anni del sacco di Taranto ma anche un periodo di lieve ripresa economica. L'Ilva assume nuovamente e tanti giovani fra i venti e i trenta anni cominciano a varcare i cancelli della fabbrica al posto dei loro padri che, nel frattempo, o sono stati licenziati, o sono andati in pensione, o sono stati prepensionati in base alle normative sull'amianto che entrano in vigore in quel periodo.
Apre anche un call center a Taranto: non dà certo garanzie di salario e contrattuali pari a quelle dell'Ilva, ma è un'opportunità di lavoro per centinaia di ragazzi. Si comincia a parlare dell'Alenia a Grottaglie e dell'allargamento del porto.
Nuovi posti di lavoro sono disponibili, insomma. E molti di questi sono assegnati in maniera clientelare, spesso in cambio del voto, almeno secondo quanto sostengono in molti.

Adesso Taranto è amministrata da una giunta di sinistra, senza il Pd ma con l'Udeur. Ezio Stefano, l'attuale sindaco, ha battuto il candidato del Partito democratico al ballottaggio. Eugenio Introcaso, il candidato del centrodestra, non ci è arrivato neanche al ballottaggio. Il figlio di Cito, invece, Mario, lo ha sfiorato per un pelo: At6, con il 15,4% dei voti, è di nuovo il primo partito.
Le mani dell'attuale giunta sono legate, il dissesto impedisce qualsiasi intervento radicale. I cattivi rapporti con il Pd non garantiscono una collaborazione proficua con la Provincia presieduta da Gianni Florido, lo sfidante di Stefano al ballottaggio ma la cui amministrazione è appoggiata anche dagli stessi partiti che formano la giunta comunale. Florido, nel 2000, quando era segretario della Cisl, diede la sua benedizione alla Di Bello e uomini del sindacato ebbero incarichi in giunta. Nel 2004 venne eletto presidente della Provincia con il centrosinistra.

Taranto è contorta sino alla fine.
Per l'ennesima volta sembra che tutto sia cambiato... ma affinchè nulla cambi. Il "super partito", se esiste davvero, ha semplicemente passato il turno, in attesa di tempi migliori e di qualche prescrizione.
Intanto Cito, nelle vesti del figlio, è tornato, ed è forte. Pare che la giunta sia scesa a compromessi con lui.
Ed il suo non è l'unico ritorno.
Anche il capo dell'opposizione, Introcaso, non è nuovo in città. E' l'ex capo della volanti-furti, quello allontanato dopo la relazione di Luzzi. E' tornato a Taranto nel 2004, da questore. Nel 2007 si è candidato per quella parte politica che aveva condotto la città al dissesto.
Ora sono in attesa di rimettere le mani sulla città.
E' scirocco, uno di quelli tipici di queste parti, quelli che ti fanno mancare il respiro e ti si appiccicano addosso. L'aria densa si mescola ai fumi della fabbrica prendendo un colore che va dal rossastro al grigio. Qualche giorno fa è morto un altro operaio, un pezzo si è staccato da una gru franandogli addosso. Leggo su internet che un bambino, riferendosi all'inquinamento, ha scritto al presidente della regione Vendola: "ma può essere che la mia città è l'anticamera dell'inferno?".

Chissà se Taranto potrà mai riprendersi, se i suoi cittadini avranno la forza di riappropriarsi della città e soprattutto del diritto di sognarla diversa da come è adesso.
Ne ha tante di storie da raccontare questo posto, tante cose da valorizzare. Anche l'acciaio. E' utopia pensare ad una produzione pulita? E' utopia sognare un Mar Piccolo ripulito e balneabile? E una città dove si producono, oltre che l'acciaio, anche i suoi derivati, che non c'è neanche una fabbrica di pentole? E una Città vecchia restituita al suo splendore? E' un sogno pensare che il turismo possa diffondersi accanto all'industria e non in contrapposizione ad essa? E un'Università che non sia solo una replica delle tante che ci sono ma che valorizzi le attività produttive e la storia locale?
E tante altre cose...
Il problema è che a Taranto queste domande non se le pone quasi più nessuno, almeno collettivamente...