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From: Lista Campo
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Sent: Thursday, August 07, 2008 5:55 PM
Subject: Il Prc è davvero finito?
Cari compagni,
vi invio queste mie riflessioni sul congresso del Prc.
Avrei potuto facilmente unirmi al coro di chi ironizza su quello che è avvenuto a Chianciano.
Condivido quelle ironie ed avrei potuto aggiungerne altre.
Ho però l'impressione che si rischi in questo modo una sottovalutazione di quanto è successo.
Ho preferito perciò mettere insieme queste prime riflessioni, per loro natura assai problematiche viste le grandi incertezze che (a mio avviso) rendono difficile una previsione davvero attendibile.
Spero comunque di aver fatto una cosa utile al fine di poter sviluppare tra noi un dibattito, o quanto meno un primo scambio di opinioni.
Leonardo
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Il Prc è davvero finito?
Alcune considerazioni sul congresso di Rifondazione Comunista
Il congresso in cui i paladini della non-violenza si sono scannati tra loro si è dunque concluso. Era l'ultimo, e di gran lunga il più importante, dei 4 congressi dei compagni di merende governative che avevano messo insieme la ridicola brigata arcobalenica allo scopo di salvare la pelle, cioè il seggio parlamentare, dopo due anni di governo Prodi.
Forte è la tentazione di ironizzare sul VII congresso del Prc. Come un pugile suonato dalle sberle del 13 aprile, questo partito ha preso a suonarsele di santa ragione al proprio interno. Cinque mozioni (ma essenzialmente la 1 e la 2), hanno dato vita ad uno scontro furibondo che aveva in palio il tesoro di famiglia frutto di una stagione ormai alle spalle (simbolo, sedi, cassa).
L'immagine rissosa, personalistica, da ultima spiaggia, trasmessaci dai media, corrisponde dunque in buona parte alla realtà.
Ma la mia opinione è che la realtà sia più complessa e (forse) foriera di sorprese. In breve: non penso che l'esito del congresso di Chianciano sia necessariamente la completa disfatta del Prc. Può darsi che le cose vadano in questo senso, può darsi di no. Dipende da diversi fattori. In ogni caso non credo che Chianciano possa essere letto come punto di una retta che partendo dal congresso di Venezia, passando dal governo Prodi e dal 13 aprile, conduce inevitabilmente alla morte di quel partito.
Il segnale più forte giunto da Chianciano è infatti un altro, ed è rappresentato dalla morte del bertinottismo. Certo, fa specie che il liquidatore della ditta sia stato applaudito da quasi tutti i delegati il giorno prima della sconfitta, come fa specie che il nuovo gruppo dirigente altro non sia che una filiazione della vecchia area bertinottiana, ma sta di fatto che il bertinottismo è ormai sepolto dall'uno-due elezioni-congresso.
Non si tratta di un fatto di poco conto. Personalmente ho sempre detto e scritto che il pallone gonfiato prima o poi sarebbe scoppiato con un clamore pari soltanto alla sua presunzione.
Restavano però da stabilirsi due particolari non indifferenti, la data e le modalità dell'evento. Oggi sappiamo che l'anno 2008 gli è stato fatale e che le modalità dello "sgonfiamento" sono tali da non dargli una "seconda possibilità".
Credo che la sconfitta del pavoncello spennato sia stata il frutto di una lunga battaglia politica alla quale anche noi di fatto abbiamo concorso. Una ragione in più per esserne soddisfatti.
La povertà politica, intellettuale, morale - frutto di una lunga stagione di "sonno della ragione" - emersa nel congresso di Rifondazione rimane. Ma la sconfitta del bertinottismo ci consegna comunque un quadro diverso, che merita un'analisi più approfondita. Se Vendola avesse vinto sappiamo cosa sarebbe successo: rilancio della costituente della sinistra come passaggio obbligato per costruire una nuova forza politica alleata con il PD. Ora che Vendola ha perso vi sono meno certezze e diverse possibilità di sviluppo dell'esito congressuale.
Ho militato nel Prc fino all'ottobre 1997, quando la direzione bertinottiana decise di rinnovare la fiducia al governo Prodi. Non mi sono fatto incantare dalla successiva rottura del 1998, né dal movimentismo del 2001 che era soltanto la cortina fumogena che doveva preparare i successivi passaggi governisti.
Chi pensasse, però, che anche questa volta non cambierà niente, rischia a mio avviso di sbagliarsi di grosso.
Intendiamoci, enormi sono le incertezze, gigantesche le ambiguità, ma quello di Chianciano non mi pare un mero aggiustamento tattico. Sicuramente le ambiguità sono mille, sicuramente un ceto politico alla disperazione cerca di salvare il salvabile tornando a porti più sicuri. Da qui la riscoperta dell'identitarismo comunista e di classe. Ma è solo questo che esce dal congresso del Prc?
Penso di no. Questa lettura - che poi è stata quella dei mass media all'unisono (compresa Liberazione!) è troppo limitativa, oltre che palesemente interessata.
E' proprio questa interpretazione mediatica, totalitaria e bulgara quanto mai, che deve farci riflettere. Pensiamo che Repubblica, Corriere, Manifesto ecc. siano preoccupati per la "regressione identitaria e neo-comunista", o non saranno invece schierati per ben altre e più concrete ragioni?
Del resto viviamo una ben strana stagione politica. I teorici del bipolarismo e della semplificazione del sistema politico potrebbero essere ben soddisfatti della situazione uscita dalle elezioni di aprile, con un governo solidissimo ed una rappresentanza parlamentare ridotta a 6 partiti.
Non era quello che volevano? Perché allora sono così preoccupati del "dialogo", della "coesione nazionale" ed addirittura della necessità di introdurre una soglia di sbarramento anche alle europee?
L'unica spiegazione che mi sembra plausibile sta nel timore di un'acutizzarsi della situazione economica e sociale, nel possibile riesplodere di un conflitto che si vorrebbe confinato per sempre in un ghetto extra-politico.
Ecco dunque che la semplice possibilità (possibilità, non certezza) che in questo quadro emerga una forza che si chiama fuori dallo schema bipolare suscita scandalo e riprovazione, da ridicolizzare con tutte le armi a disposizione da schiere di pennivendoli.
Ma esiste davvero questa possibilità?
Immagino che tanti compagni abbiamo moltissimi dubbi in proposito.
Bene, sono d'accordo con loro, mentre non sono d'accordo con il lapidario giudizio espresso da Marco Ferrando che vede la nuova maggioranza del Prc come semplice "somma spregiudicata di contraddizioni insolubili, frutto di un'operazione trasformista".
Naturalmente gli elementi indicati da Ferrando ci sono tutti, ma ridurre a ciò l'esito del congresso (tra l'altro in perfetta sintonia con i giudizi di Vendola, Giordano e Migliore) è frutto di esigenze propagandistiche comprensibili ma fuorvianti.
Non sorprende allora che un giudizio simile sia venuto anche da "Sinistra Critica", cioè da quella che fino a poco tempo fa altro non era che una variante di sinistra del bertinottismo.
Questo difendere le mere ragioni di bottega è il metodo che più ci allontana dalla comprensione della realtà.
Tutto il mio rispetto per Ferrando, ma la sua uscita dal Prc è avvenuta 9 anni dopo la nostra, mentre per i sinistri critici si è dovuto attendere un altro anno e mezzo e non pochi voti di fiducia..
A mio avviso la possibilità di una futura collocazione del Prc fuori dal bipolarismo esiste, mentre non è mai esistita fino ad oggi, salvo la brevissima parentesi del 1995.
E' solo una possibilità, che andrà verificata sulla base di precisi elementi di linea (dirò poi quali), ma il fatto che questa possibilità esista rappresenta comunque una novità con la quale misurarsi.
A scanso di equivoci: non sto qui parlando della possibilità che il Prc vada sulla strada della rifondazione comunista o della sua trasformazione in partito rivoluzionario. Se lo facessi sarei pronto per un TSO (trattamento sanitario obbligatorio) e nessun solleone potrebbe giustificare una simile cantonata.
La rifondazione comunista non è mai stata presa sul serio dal partito che ne porta il nome, ma credo che vi siano ragioni un po' più serie se un vero processo rifondativo non ha emesso neppure i primi vagiti in nessun angolo del pianeta.
Che poi possa trasformarsi in un partito rivoluzionario, beh mi sembrerebbe davvero chiedere un po' troppo ad un partito intriso di keynesimo più che di marxismo e che considera (perlomeno fino ad oggi) il leninismo semplicemente come un'ideologia produttrice di Gulag.
Il punto è un altro: fuori o dentro il bipolarismo?
Questa è la questione veramente in gioco.
Rifondazione nasce (1991) ancora nella prima repubblica, ma si trova immediatamente proiettata nella seconda (referendum 1993) e sceglie subito di aderire alla "gioiosa macchina da guerra" di occhettiana memoria. Come già ricordato, abbiamo la parentesi del 1995 (no al governo Dini) che tra l'altro coincide con i migliori risultati elettorali, dopo di che grandi zig zag ma sempre con lo sguardo rivolto al quadro bipolare. Prima con maggiore prudenza, poi con crescente disinvoltura fino all'ingresso nel governo Prodi nel 2006.
Molti pensano che anche la nuova maggioranza che ha eletto Ferrero finirà per utilizzare una fase di opposizione per riproporsi nell'alleanza di centrosinistra.
E' possibile che questo avvenga, ma è tutt'altro che certo.
L'eventualità che le cose vadano diversamente risiede in due elementi: da una parte la pesantezza della sconfitta del 13 aprile, dall'altro la concreta possibilità di occupare il centro della scena di un'opposizione che oggi non ha alcuna direzione credibile.
Se la sconfitta elettorale non fosse stata così pesante, se cioè fosse rimasta una pur piccola rappresentanza istituzionale, possiamo essere certi che il congresso sarebbe andato diversamente. I tatticismi sarebbero proseguiti e nessun distinguo avrebbe fermato il progetto liquidazionista dell'Arcobaleno.
Paradossalmente proprio la pesantezza della sconfitta rende possibile un "nuovo inizio" raccogliendo quell'esigenza primaria che si chiama opposizione.
Non sarà facile per Ferrero riuscire in questa impresa, ma forse sono più credibili Di Pietro e Beppe Grillo, il narcisista Travaglio e il "partito dei comici" dell'8 luglio a Piazza Navona?
Ed il punto è che non potrà esservi opposizione credibile che non sia al tempo stesso opposizione di sistema anti-bipolare.
Come avrete capito il mio ragionamento si basa essenzialmente sugli elementi oggettivi della situazione, perché quelli soggettivi spingono tutti nell'altra direzione. Quattordici anni di bertinottismo, ed un istituzionalismo presente da sempre nel codice genetico nel Prc, hanno fatto tabula rasa di ogni capacità teorica, analitica, o semplicemente critica.
L'ascolto di qualche intervento congressuale preso a caso ce ne dà la misura.
Se dovessi basarmi principalmente sugli elementi legati alla soggettività la mia previsione sarebbe quella di un disfacimento inesorabile, del resto in linea con quanto avviene al Pcf in Francia ed al Pce in Spagna, partiti anch'essi incapaci di fuoriuscire dal sistema delle alleanze con la sinistra di governo.
Può darsi benissimo che la nuova direzione ferreriana si riveli incapace di uscire dalla "coazione a ripetere" di cui sono preda i rimasugli europei del comunismo novecentesco, capaci (quando sono con l'acqua alla gola) di aggiustamenti tattici, mai di riposizionamenti strategici fondati sull'autonomia dalla sinistra.
Resta il fatto che il documento con il quale hanno vinto il congresso porta il titolo: "Ricominciamo: una svolta a sinistra". Solo parole? Non ci sarebbe da stupirsi. Sta di fatto che negli ultimi 30 anni non ricordo partiti che abbiano annunciato "svolte a sinistra". Lo fece, ma non in un congresso, il Pci berlingueriano dopo il governo di unità nazionale: durò poco ed andò a finire come sappiamo.
Molti commentatori pensano che Ferrero non riuscirà neppure ad avviare una definizione più precisa della linea, schiacciato (o quantomeno paralizzato) dalle diversità interne alla propria maggioranza e costantemente pressato dal restante (e compattissimo) 47% del partito che fa capo a Vendola.
Qui non sono per niente d'accordo.
L'accordo tra le 4 mozioni non salterà. Ernesto e Falce e Martello hanno la possibilità (per loro "storica") di condizionare il partito e cercheranno di giocarsela. Casomai i problemi potranno venire dai settori più governisti di "Essere Comunisti" (i cd. grassiani), cioè da una componente della stessa mozione 1.
Ma questi problemi si risolveranno da soli con l'uscita dei vendoliani.
Dato che Grassi non potrà rimangiarsi troppo alla svelta le scelte di Chianciano non pare possibile un ribaltamento delle alleanze, mentre passaggi politici decisivi incombono. Il tempo, insomma, gioca a favore di Ferrero.
Non lasciamoci ingannare dagli annunci di Vendola, con i quali ha escluso la scissione. La scissione non poteva avvenire al congresso perché i vendoliani si erano veramente illusi di poter vincere e dunque non erano preparati a questa evenienza. Inoltre - e questo è probabilmente più importante - la scissione non è trendy, ed è chiaro che la sua forma non sarà né quella (consegnata alla storia) di Livorno 1921, né quella assai meno epica dei cossuttiani nel 1998. Oggi non c'è né una rivoluzione da fare, né un governo da votare, dunque si può procedere con calma.
Infatti i vendoliani hanno già scelto un altro modello, per l'esattezza quello brevettato da Mario Capanna nel 1988-89. Dopo aver perso il congresso del 1988, Capanna ed i suoi preparano l'uscita da Dp senza una formale scissione, ma dando vita (insieme ad altri bei soggetti, tra i quali spiccava Rutelli) ad una nuova lista (Verdi arcobaleno: come si vede l'arcobaleno spunta sempre in certe circostanze) per le elezioni europee del 1989.
Vedrete che andrà così anche questa volta.
La nuova corrente, "Rifondazione per la sinistra", ha già ripreso il percorso della costituente di sinistra, ha già definito un proprio autonomo calendario di iniziative e se ne va palesemente per la propria strada.
Alle europee tutto ciò sfocerà in una nuova lista ("La Sinistra"?, vedremo), dando luogo ad una scissione di fatto. Ovviamente questa è una semplificazione, dato che il tragitto non potrà essere né asettico né indolore, ma avverrà prevalentemente per percorsi paralleli.
Al tempo stesso - e questo potrebbe fungere da "pietra dello scandalo" - i Comunisti italiani, ormai guidati da un segretario stanco ed abulico approderanno alla lista unitaria dei comunisti, anche accettando il simbolo del Prc.
Risultati prevedibili? Prc tra il 4 ed 5%, La Sinistra (o come si chiamerà il nuovo raggruppamento sponsorizzato dal Pd) tra il 2 e il 3%.
Qualcuno mi prenderà per pazzo per questa previsione. Vedremo, sono disponibile alle scommesse.
La mia opinione è che il bacino dell'ex area arcobalenica, che nel non lontano 2006 veleggiava attorno al 12%, sia oggi tra il 6 e l'8%. Questi erano non a caso i sondaggi pre-elettorali della primavera scorsa.
Che poi il tonfo sia arrivato al 3,1%, questa è stata una meravigliosa sorpresa regalatici dalla incredibile presunzione del titolare della ditta che aveva ritenuto di arrivare alle elezioni con un simbolo raccogliticcio, incolore e sconosciuto, senza aver rotto con il Pd, ma essendosi fatto scaricare (consensualmente) da Veltroni.
Se le cose andranno così tra meno di un anno avremo un quadro assai diverso dall'attuale. Ma non sono un mago e conviene restare ai fatti.
Partiamo allora dal documento conclusivo che ha portato alla vittoria di Ferrero. E' un documento debole, ma meno equivoco di quanto si potesse supporre all'inizio del congresso.
Se dovessimo giudicarlo come documento complessivo, capace di leggere la fase e di offrire una prospettiva credibile il voto sarebbe 4, e già sono largo.
Ma il metro di giudizio non può essere questo, anche perché sappiamo come nascono i documenti congressuali, specie quando devono mediare posizioni diverse.
Personalmente ho utilizzato un altro metro: quello del confronto con i documenti dell'era bertinottiana.
Bertinotti consegnava alle stampe (lui pensava alla storia, che però non se ne accorgeva) documenti non di rado pirotecnici, i cui 4/5 erano fatti di analisi socio-economiche a volte anche interessanti. Poi arrivava l'ultimo quinto a chiarire la linea politica sulla questione delle alleanze. Ovviamente quest'ultimo quinto era particolarmente fumoso, spesso risultando comprensibile solo agli addetti ai lavori. L'opportunismo, del resto, viene sempre condito con salse appetitose e ingannatrici.
Il documento di Chianciano è invece l'opposto. Sulle questioni sociali, sindacali, dei movimenti (i famosi 4/5) dice cose di una banalità sconcertante. Molte di queste cose non possono che essere condivise, ma quel che non è condivisibile è una rappresentazione della realtà che sembra davvero quella di 40 anni fa.
Il quinto dedicato alla politica ha invece due pregi. Il primo è la rottura con il Pd, anche se dovremo poi vedere come si realizzerà. Il secondo è che viene all'inizio, smettendola con la piccola furbizia di metterlo sempre alla fine come se fosse la conseguenza di chissà quale elaborazione teorica.
Ora tutto ciò andrà sottoposto a verifica.
Ho scritto queste brevi riflessioni, francamente pervase dal dubbio, perché non vorrei che commettessimo l'errore di dire che "niente è cambiato e niente cambierà".
Molte sono le incertezze. Le mie sono soltanto ipotesi, tutte da verificare.
Ed io penso che tre siano gli aspetti decisivi di questa verifica: la reale capacità di chiudere con il Pd e dunque con l'accettazione del bipolarismo; la capacità di uscire dagli schemi novecenteschi nel disegnare le forme odierne dell'opposizione politica e di classe; la volontà di riprendere ad occuparsi degnamente delle questioni internazionali, oggi letteralmente cancellate dalla discussione congressuale.
La rottura con il centrosinistra non è semplice ed è tutt'altro che scontata.
Hanno ragione i compagni che sottolineano che è facile oggi - con 5 anni di opposizione davanti, per giunta fuori dal parlamento - rompere con il Pd e con il governismo. Ed hanno ragione nel dire che il vero banco di prova saranno gli Enti locali. Solo quello che accadrà nelle Regioni, nelle Province, nei Comuni potrà dare la misura del grado di attendibilità della svolta.
Ad oggi Ferrero è immerso in questa palude ed è ben lungi dall'uscirne, ammesso e non concesso che lo voglia. Resta il fatto che se non ne uscirà il senso della svolta andrebbe perso, e lo slogan "in basso a sinistra" resterebbe come simbolo di una bassa demagogia priva di contenuto effettivo.
Nessuno poteva però pensare che subito dopo il congresso il Prc avrebbe aperto la crisi in tutte le giunte dove sta al calduccio in maggioranza. Intendiamoci, questo sì che sarebbe stato un gran segnale di forza e vitalità, ma decisamente fuori portata per un partito come il Prc.
Tuttavia, lo Stivale presenta già oggi situazioni interessanti che permetterebbero un primo sganciamento, come segnale dell'inversione di rotta: la Provincia di Milano, le Regioni Abruzzo e Calabria.
Ad oggi solo in Calabria Ferrero si è opposto alla decisione del partito di quella regione (vendoliano) di rientrare in giunta, mentre in Abruzzo (dove vi saranno elezioni anticipate in autunno, per sostituire il presidente tangentaro) ancora continuano i tatticismi che per ora non chiudono del tutto verso il Pd. E questo, vista la situazione, parla veramente di un partito impaludato nelle istituzioni benché di stretta osservanza ferreriana.
Ma la situazione più grave è quella della Provincia di Milano, dove con un presidente del Pd di chiara ispirazione leghista-confindustriale, che non si nega neppure frequenti uscite razziste, il Prc (anche qui a netta maggioranza ferreriana) sembra orientato ad aspettare la fine naturale del mandato nella primavera del 2009.
I primi segnali non vanno perciò nella direzione giusta, anzi, ma l'oggettività delle cose potrebbe spingere verso una rottura anche nei governi locali, anche perché senza questo passaggio resterebbero incomprensibili tanto il "ricominciare", quanto la "svolta a sinistra". E senza questo passaggio addio al sogno di guidare una nuova opposizione.
Ma se la premessa necessaria per porsi alla testa dell'opposizione è la fuoriuscita dal bipolarismo, questo obiettivo potrà essere raggiunto solo mostrando una forte capacità innovativa che certo non è rintracciabile nel documento conclusivo del congresso.
Oggi le forme del conflitto non sono quasi mai nitide, presentandosi piuttosto come il prodotto originale e spurio di una società disarticolata e a pezzi. Basti pensare alla "questione morale", che è enorme ma quasi sempre in mano a giustizialisti reazionari, alle rivolte comunitarie contro Tav, inceneritori e discariche, alle quotidiane tensioni nelle periferie metropolitane, eccetera.
Questa situazione, difficile per chiunque, risulterebbe inaffrontabile con gli schemi classici della lotta sociale e sindacale anni 60/70.
Se poi si pensasse di sostituire la necessità di sporcarsi le mani con il semplice rito delle manifestazioni autunnali allora saremmo davvero alle comiche finali.
La capacità oppositiva è in realtà tutta da costruire, così come è tutto da vedere cosa si celi dietro la formula del "partito sociale". Quel che è certo è che il Prc si trova paradossalmente, tanto è lo sfascio politico e sindacale, nella condizione di porsi al centro della nuova opposizione che prevedibilmente comincerà ad emergere nei prossimi mesi.
Vedremo se e come saprà cogliere questa opportunità.
In ultimo, ma certo non per importanza, la politica internazionale.
Questo tema risulta completamente espulso dal dibattito congressuale e certo lo è dai documenti finali di Chianciano. Il perché è fin troppo ovvio. La realtà dell'imperialismo e della guerra, dunque della guerra imperialista, mette in crisi tutta la fumosa elaborazione sulla fine dell'imperialismo, la non-violenza, fino ad arrivare all'allucinante slogan "No alla guerra, no al terrorismo".
Su questo terreno, ovviamente per noi centrale e decisivo, è bene non aspettarsi grossi passi avanti rispetto alla fase predente. Il Prc è ancora troppo intossicato da queste sciocchezze, la cui bassezza è segnalata dalla totale negazione delle resistenze all'oppressione imperialista.
Sarà questo, dunque, un altro banco di prova decisivo della "svolta".
In conclusione: il congresso di Chianciano non è ancora chiuso. Chiusi sono i giochi politici tra le varie componenti del Prc. Tutt'altro che chiusa, perché tutt'altro che chiara, è la questione degli approdi politici conseguenti a questa profonda fase di crisi seguita alla sconfitta elettorale del 13 aprile.
Conviene ripeterlo: se avesse vinto Vendola tutto sarebbe stato più chiaro, con la sconfitta di Vendola (e di Bertinotti) gli esiti appaiono assai meno scontati.
In realtà una fase si è chiusa, ma quella nuova deve ancora delinearsi e prendere forma.
Se tutto si risolvesse, come sostengono in molti, nel passaggio dal bertinottismo arcobalenico al bertinottismo d'antan, quello precedente il congresso di Venezia, la montagna avrebbe partorito il più classico dei topolini.
Se invece al brontolio dei tuoni lontani seguirà la pioggia, frutto più della congiuntura politica che delle alchimie correntizie del Prc, questo non potrebbe che essere salutato positivamente da chi si batte per cominciare a rompere la gabbia totalitaria del regime bipolare.
Senza troppe illusioni, ed avendo comunque chiari i limiti di questa partita che avviene nell'ambito di un partito riformista, diamo tempo al tempo.
Leonardo
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