[Hackmeeting] La sanguinosa battaglia di Genova

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Leggete quest'articolo pubblicato dal Guardian e tradotto da Carta.
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"Nessuna giustizia... Nessuna pace"

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La sanguinosa battaglia di Genova
Nick Davies The Guardian
[18 Luglio 2008]

Traduciamo e pubblichiamo un articolo apparso sul quotidiano britannico The
Guardian il 17 luglio a proposito delle sentenze sui processi per i
fatti del G8
del 2001. L'articolo è di Nick Davies. Che cerca di trarre da Genova una
lezione
per tutte le cosiddette democrazie.

Era poco prima di mezzanotte quando il primo agente di polizia colpì
Mark Covell
con una manganellata sul braccio sinistro. Covell fece del suo meglio per
gridare, in italiano, di essere un giornalista, ma in pochi secondi si trovò
circondato da agenti in tenuta antisommossa che lo colpivano con i
manganelli.
Per qualche secondo, è riuscito a rimanere in piedi, fino a quando un
colpo sul
ginocchio non lo ha gettato sul pavimento. A faccia in giù nell’oscurità,
escoriato e spaventato, si rendeva conto di avere agenti tutt’intorno,
che si
stavano ammassando per attaccare gli edfici delle scuole Diaz e Pertini,
dove 93
manifestanti si erano accampati per passare la notte. La speranza di
Covell era
che gli agenti passassero attraverso la catena che chiudeva il cancello
principale senza più occuparsi di lui. Se fosse andata così, avrebbe potuto
alzarsi e correre oltre la strada, per cercare riparo nel centro di
Indymedia,
dove aveva passato gli ultimi tre giorni a scrivere sul summit del G8 e
sulla
violenta gestione dell’ordine pubblico. In quel momento, un funzionario di
polizia si è lanciato su di lui e gli ha dato un calcio al petto
talmente forte
da comprimere verso l’interno l’intera parte sinistra della sua gabbia
toracica
e rompendogli una mezza dozzina di costole, i cui detriti hanno perforato la
pleura. Covell, un metro e sessanta, è stato letteralmente sollevato dal
pavimento e sbalzato in strada dal calcio. Ha sentito il poliziotto ridere
mentre un pensiero si formava nella sua testa: «Non me la caverò». La
squadra
antisommossa stava ancora trafficando al cancello principale, e allora
un gruppo
di agenti pensò di ingannare il tempo usando Covell come pallone. Questa
serie
di calci gli ha procurato la frattura di una mano e lesioni alla spina
dorsale.
Da qualche parte alle sue spalle, Covell ricorda di aver sentito un
altro agente
gridare «Basta» prima di sentire il suo corpo trascinato sul pavimento.
A quel
punto, un veicolo corazzato della polizia ruppe i cancelli della scuola
e 150
agenti, per la maggior parte con caschi, scudi e manganeli, fece irruzione
nell’edificio indifeso. Due agenti si fermarono per occuparsi di Covell:
uno gli
ha rotto la testa con il manganello; l’altro lo ha preso a calci in bocca,
facendogli sputare una dozzina di denti. Covell svenne. Ci sono molte buone
ragioni per non dimenticare quello che è successo a Covell, che allora
aveva 33
anni, quella notte a Genova. La prima è che era solo l’inizio. Per la
mezzanotte
del 21 luglio 2001, quegli agenti di polizia stavano sciamando in tutti
i piani
della Diaz, e dispensavano il loro particolare tipo di punizione alle
persone
che stavan lì, fino a ridurre il dormitorio improvvisato in quella che
più tardi
uno degli agenti avrebbe descritto come «una macelleria messicana». Loro e i
loro colleghi avrebbero poi arrestato illegalmente le vittime in un
centro di
detenzione, diventato un luogo di puro terrore. La seconda ragione è
che, sette
anni dopo, Covell e le altre vittime stanno ancora aspettando giustizia.
Lunedì,
15 poliziotti, guardie carcerarie e medici penitenziari sono stati
finalmente
condannati per la parte avuta nelle violenze–sebbene nessuno di loro
andrà in
prigione. In Italia, gli imputati non vanno in prigione fino a quando
non hanno
esaurito tutti i gradi di giudizio; e in questo caso, le condanne e le
sentenze
saranno cancellate dalla prescrizione, l’anno prossimo. Nel frattempo, i
politici che erano responsabili per la polizia e per il personale
penitenziario,
non hanno mai dato alcuna spiegazione. Le domande fondamentali, su come
tutto
ciò sia potuto accadere, rimangono inevase e alludono alla terza e più
importante ragione per ricordare Genova. Non è semplicemente la storia di un
funzionario di polizia che esce dai ranghi, ma qualcosa di peggiore e più
preoccupante sotto la superficie. Il fatto che questa storia possa essere
raccontata è frutto di sette anni di duro lavoro di un gruppo di coraggiosi
pubblici ministeri, guidati da Emilio Zucca. Aiutato da Covell e dal proprio
staff, Zucca ha raccolto centinaia di testimonianze e analizzato
cinquemila ore
di video, oltre che migliaia di fotografie. Messi assieme, raccontano
una storia
incotrovertibile, che iniziò a svilupparsi mentre Covell sanguinava a
terra. La
polizia fa irruzione nella scuola Diaz. Alcuni di loro gridavano «Black
bloc! Vi
uccideremo!», ma se avessero davvero pensato di avere di fronte gli
anarchici
del Blocco nero che avevano causato un violento caos in alcune zone
della città
nei giorni precedenti, avrebbero commesso un errore. La scuola era stata
concessa dalla municipalità di Genova come base per i manifestanti che non
avevano nulla a che fare con gli anarchici: avevano anche messo qualcuno di
guardia per evitare infiltrazioni. Uno dei primi a vedere la squadra
antisommossa fu Michael Geiser, un 35 enne economista belga, che poi ha
descritto come in quel momento si era appena messo il pigiama e stava
facendo la
coda per il bagno, con tanto di spazzolino in mano, quando il raid ebbe
inizio.
Giesere crede nella forza del dialogo e all’inizio andò verso gli agenti
dicendo
«Dobbiamo parlare». Poi vide i giubbotti imbottiti, i caschi, i manganelli e
cambiò idea scappando per le scale. Altri sono stati più lenti. Erano
ancora nei
sacchi a pelo. Un gruppo di dieci spagnoli si svegliò con i colpi dei
manganelli. Alzarono le mani in segno di resa. E sempre più agenti li
picchiavano in testa, tagliando e ferendo e rompendo arti, compreso il
braccio
di una signora di 65 anni. Da un lato della stanza, alcuni giovani sedevano
davanti ai computer e mandavano email a casa. Una di loro era Melanie
Jonasch,
28 anni, studente di archeologia a Berlino, volontaria nella gestione
dell’edificio, che non era nemmeno stata alle manifestazioni. Lei ancora non
riesce a ricordare cosa è successo. Ma molti altri testimoni hanno
raccontato
come gli agenti le si sono lanciati addosso, picchiandola in testa così
forte da
farle perdere subito i sensi. Quando cadde, gli agenti la circondarono,
picchiandola ancora e prendendola a calci, sbattendole la testa contro una
lavagna e lasciandola in una pozza di sangue. Katherina Ottoway, che ha
visto
tutto questo, ricorda: «Tremava tutta. I suoi occhi erano aperti ma girati.
Pensavo che sarebbe morta». Nessuno di quelli che erano a terra è riuscito a
evitare ferite. Come Zucca ha scritto nel suo atto d’accusa: «Nel giro
di pochi
minuti, tutti gli occupanti del piano terra erano stati ridotti in uno
stato di
completa impotenza, i lamenti dei feriti si mischiavano con il suono delle
richieste di ambulanze». Poi i tutori della legge sono saliti lungo le
scale.
Nel corridoio del primo piano trovarono un gruppo di persone, compreso
Geiser,
ancora con lo spazzolino in mano. «Qualcuno consigliò di sdraiarci, per far
vedere che non facevamo resistenza. E così ho fatto. Gli agenti sono
arrivati e
hanno iniziato a picchiarci, uno per uno. Mi sono protetto la testa con
le mani
e ho pensato ‘Devo sopravvivere’. La gente attorno gridava, ‘per favore,
basta’.
Anche io l’ho detto. Pensavo a una macelleria, ci stavano trattando come
animali». Gli agenti abbatterono le porte delle stanze che portavano
fuori dal
corridoio. In una stanza trovarono Dan MacQuillan e Norman Blair,
arrivati da
Stansted per mostrare il loro appoggio «a una società libera e uguale
dove le
persone vivono in armonia». I due inglesi e il loro amico neozelandese Sam
Buchanan avevano sentito l’attacco ai piani inferiori e stavano cercando di
nascondersi sotto alcuni tavoli nell’angolo di una stanza buia. Una
decina di
agenti fece irruzione e li scovò con una torcia e, per quanto MacQuillan
stesse
con le mani alzate dicendo ‘Piano, piano’, li picchiarono, causandogli molte
ferite e tagli e rompendo il polso di MacQuillan. Norman Blair ricorda:
«Potevo
sentire il veleno e il loro odio». Gieser era nel corridoio: «La scena
attorno a
me era coperta di sangue, dappertutto. Un poliziotto gridò ‘Basta’. Una
parola
che sembrava una speranza. Eppure non si fermavano. Continuavano con
piacere.
Alla fine si sono fermati, ma come se si togliesse un giocattolo a un
bambino,
riluttanti». In quel momento c’erano agenti in tutti i quattro piani
dell’edificio, che prendevano a calci e picchiavano. Molte vittime hanno
descritto una specie di sistema della violenza, con ogni agente che
picchiava
ogni persona che si trovasse davanti, prima di passare alla successiva,
mentre
un collega picchiava quella di prima. Sembrava importante che chiunque fosse
ferito. Nicola Doherty, 26 anni, un’assistente di Londra, ha descritto
come il
suo partner Richard Moth si sia sdraiato per proteggerla: «Potevo
sentire ogni
colpo sul suo corpo. I poliziotti si spostavano oltre Richard per
colpire ogni
mia parte esposta». Ha cercato di proteggersi la testa con le mani e le
hanno
rotto un polso. In uno dei corridoi, gli agenti avevano ordinato a un
gruppo di
giovani uomini e donne di inginocchiarsi per poterli picchiare meglio sulle
spalle e sulla testa. E’ stato in quel momento che Daniel Albercht, 21 anni,
studente di violoncello di Berlino, ha riportato una frattura alla testa
talmente profonda da avere bisogno di un’operazione chirurgica per fermare
l’emorragia celebrale. Attorno all’edificio, gli agenti avevano impugnato i
manganelli al contrario, per usare l’impungatura a L come un martello. E in
tutta questa violenza, ci sono stati momenti in cui la polizia ha preferito
l’umiliazione: l’agente che stava a gambe divaricate di fronte a una donna
ferita e inginocchiata, le ha preso la testa per tirarsela verso l’inguine,
prima di girarsi e fare la stessa cosa con Daniel Albercht, inginocchiato
accanto a lei; l’agente che durante i pestaggi ha usato il coltello per
tagliare
una ciocca di capelli alle sue vittime, compreso Nicola Doherty; gli insulti
continui; l’agente che ha chiesto a un gruppo di persone se stavano bene
e ha
reagito con una nuova manganellata a chi ha detto ‘No’. Qualcuno è sfuggito,
almeno per un po’. Karl Boro è riuscito a raggiungere il tetto ma poi ha
fatto
l’errore di rientrare nell’edificio, dove lo hanno ridotto con un braccio
ferito, una frattura cranica e sangue nel petto. Jaraslaw Engel, dalla
Polonia,
era riuscito a usare le impalcature attorno all’edificio per uscire dalla
scuola, ma è stato intercettato in strada da alcuni agenti, che gli
hanno rotto
la testa, prima di mettersi a fumare mentre il suo sangue bagnava
l’asfalto. Due
degli ultimi a essere presi sono stati una coppia di studenti tedeschi, Lena
Zuhlke, di 24 anni, e il suo compagno Niels Martensen. Si erano nascosti
in un
armadietto delle pulizie, al piano superiore. Hanno sentito gli agenti
avvicinarsi, sbattendo i manganelli lungo i muri. La porta
dell’armadietto si
aprì, Martensen è stato trascinato fuori e picchiato da una decina di
agenti in
semicerchio attorno a lui. Zulkhe è scappata nel corridoio e si è
nascosta nei
bagni. Gli agenti l’hanno vista, inseguita e trascinata per i dreadlock. Nel
corridoio, hanno giocato con lei come cani con un coniglio. E’ stata
picchiata
in testa e presa a calci quando era a terra, fino a che non le hanno
rotto le
costole. E’ stata bloccata al muro, dove un agente le ha dato una
ginocchiata
all’inguine, mentre gli altri continuavano a pestarla con i manganelli.
Quando è
scviolata a terra, hanno continuato a picchiarla: «Sembrava che si
divertissero
e quando gridavo sembrava che si divertissero di più». Gli agenti
trovarono un
estintore e spruzzarono la schiuma sulle ferite di Martensen. La sua
compagna è
stata trascinata per le scale, dai capelli, testa in avanti. Hanno portato
Zulkhe fino al piano terra, dove avevano radunato tutti i prigionieri dagli
altri piani, in un caos di sangue ed escrementi. L’hanno gettata su
altre due
persone, immobili, tanto che Zulkhe chiese cautamente se erano ancora vivi.
Senza risposta, anche lei si accasciò sul pavimento, incapace di muovere il
braccio destro, e di fermare il tremore al braccio sinistro e alle
gambe, nonché
il sangue. Un gruppo di agenti passava lì vicino, e ciascuno si tolse il
fazzoletto per sputarle addosso. Perché dei tutori della legge possono
comportarsi con tanto disprezzo della legge? La semplice risposta può essere
quella che veniva gridata dai manifestanti fuori dalla scuola, che
scelsero una
parola che sapevano i poliziotti avrebbero capito. «Bastardi». Ma c’è
qualcos’altro, qui, qualcosa emerso più chiaramento nei giorni successivi.
Covell e decine di altre vittime furono portate nell’ospedale San
Martino, dove
gli agenti camminavano nei corridoi facendo suonare i manganelli nel
palmo delle
mani, ordinando ai feriti di non guardare fuori dalla finestra o di non
muoversi, tenendoli ammanettati e poi, spesso con le ferite ancora non
chiuse,
portandoli con decine di altri manifestanti nel centro di detenzione di
Bolzaneto. I segni di qualcosa di peggiore apparvero all’inizio in modo
superficiale. Alcuni agenti avevano canzoni fasciste come suonerie dei loro
telefonini e parlavano con entusiasmo di Mussolini e Pinochet. Più volte, è
stato ordinato ai prigionieri di gridare «Viva il duce». Alcune volte, i
prigionieri sono stati minacciati per costringerli a cantare canzoni
fasciste.
Le 222 persone detenute a Bolzaneto sono state sottoposte a condizioni che i
pubblici ministeri hanno descritto come tortura. Al loro arrivo, venivano
marchiati con una croce di vernice su ogni guancia e molti di loro sono
stati
costretti a camminare in mezzo a due linee parallele di funzionari che li
prendevano a calci e a manganellate. La maggior parte è stata ammassata
in celle
grandi, con oltre 30 persone. Lì venivano costretti a rimanere in piedi per
molto tempo, con la faccia verso il muro, le braccia alzate e le gambe
larghe.
Chi non ce la faceva, veniva insultato, picchiato umiliato. Mohammed
Tabach, con
una gamba artificiale, non poteva farcela e si è beccato due spruzzate
di spray
urticante in faccia e poi un pestaggio particolarmente brutale. Norman Blair
avrebbe poi ricordato che mentre stava in questa posizione, un agente gli
chiese: «Chi è il tuo governo»? «La persona prima di me aveva risposto
Polizei e
io ho fatto la stessa cosa per non essere picchiato». Stefan Bauer ha osato
replicare: quando un agente che parlava tedesco gli ha chiesto di dove
fosse,
lui ha risposto che era dell’Unione europea e aveva il diritto di andare
dove
voleva. E’ stato preso, picchiato, spruzzato con lo spray urticante,
spogliato
nudo e gettato sotto una doccia gelata. I suoi vestiti sono stati
gettati via ed
è stato rimandato nella cella gelata solo con addosso una tuta da ospedale.
Tremando sul freddo marmo della cella, i prigionieri non ricevevano né
coperte,
né cibo e gli veniva negato il diritto di fare una telefonata a un
legale, cui
avrebbero avuto diritto. Dalle altre celle si sentivano urla e pianti. Agli
uomini e alle donne con i dreadlock sono stati tagliati grossolonamente i
capelli fino alla cute. Marco Bistacchia è stato portato davanti a un
agente,
spogliato, fatto inginocchiare, abbaiare come un cane e gridare «Viva la
polizia
italiana». Un agente ha detto al quotidiano italiano La Repubblica, in
condizioni di anonimato, di aver visto alcuni agenti urinare addosso ai
detenuti
e picchiarli per essersi rifiutati di cantare Faccetta nera, una canzone
dell’era fascista. Ester Percivati, una giovane donna turca, ricorda le
guardie
che la insultavano mentre andava in bagno, dove un’agente donna l’ha
costretta a
infilare la testa nella tazza, mentre un maschio commentava, «Bel culo!
Ci vuoi
un manganello?». Molte donne hanno riferito di minacce di stupro. Perfino
l’infermeria era pericolosa. Richard Moth, coperto di tagli ed
escoriazioni, ha
avuto suture sulla testa e sulle gambe senza anestesia: «Un’esperienza molto
dolorosa. Dovevano tenermi fermo. ». Tra i condannati di lunedì c’è anche
personale medico della prigione. Tutti sono d’accordo che non si
trattava di un
modo per far parlare i detenuti, ma solo di un esercizio di paura. Che ha
funzionato. Nelle dichiarazioni, i prigionieri hanno descritto le loro
sensazioni di impotenza, di isolamento dal resto del mondo, in un mondo
senza
leggi né regole. La polizia ha perfino fatto firmare delle dichiarazioni di
rinuncia a tutte le tutele legali. Un uomo, David Laroquelle, ha
testimoniato di
essersi rifiutato di firmare, e di aver avuto tre costole rotte. Anche
Percivati
si è rifiutata, ed è stata sbattuta contro un moro, occhiali rotti e naso
sanguinante. Il mondo esterno ha ricevuto alcuni resoconti molto distorti di
tutto questo. Nell’ospedale di San Martino, il giorno dopo il suo pestaggio,
Covell si sentì scuotere da una persona che gli sembrò essere
dell’ambasciata
britannica. Solo quando ha visto il fotografo accanto a lei ha capito
che era
una reporter del Daily Mail. In prima pagina, il giorno dopo, c’era un
resoconto
del tutto falso che lo descriveva come il cervello delle rivolte. [Quattro
lunghi anni più tardi, il Mail ha chiesto scusa e ha pagato a Covell il
risarcimento per l’invasione della privacy]. Mentre i suoi cittadini
venivano
picchiati e tormentato in uno stato di detenzione illegale, i portavoce del
primo ministro Tony Blair, dichiarava: «La polizia italiana ha dovuto
svolgere
un compito difficile. Il primo ministro crede che lo abbiano fatto». La
polizia
italiana ha fornito ai media una ricca messe di falsità. Perfino mentre
i corpi
sangunanti venivano portati via dalla Diaz, gli agenti dicevano ai
giornalisti
che le ambulanze che erano sul posto non avevano nulla a che vedere con
il blitz
e che le ferite, chiaramente freschissime, erano vecchie e che
l’edificio era
pieno di violenti estremisti che avevano attaccato gli agenti. Il giorno
dopo,
alti funzionari hanno tenuto una conferenza stampa per annunciare che
tutte le
persone trovate nell’edificio sarebbero state accusate di resistenza e di
associazione a delinquere finalizzata al saccheggio. I tribunali
italiani hanno
fatto cadere ogni capo d’accusa contro ogni persona. Compreso Covell. I
tentativi della polizia di accusarlo di una serie di reati molto gravi sono
stati descritti dal pm Zucca come «grotteschi». In quella stessa conferenza
stampa, la polizia mostrò un bagaglio di quelle che secondo loro erano armi.
C’erano sbarre, martelli, chiodi che gli agenti stessi avevano preso da un
magazzino di edilizia vicino alla scuola. C’erano strutture di zaini in
alluminio, presentate come armi offensive; 17 macchine fotografiche; 13
paia di
occhialetti da piscina; 10 coltellini e una bottiglia di lozione solare.
Mostrarono anche due bottiglie molotov che, ha concluso Zucca, la
polizia aveva
trovato prima in un’altra zona della città e portato alla Diaz dopo la
fine del
raid. Questa disonestà pubblica era parte di un più ampio sforzo per
insabbiare
quello che era successo. Nella notte del raid, un reparto di 59 poliziotti è
entrato nell’edificio di fronte alla Diazx, dove Covell e altri avevano
allestito il loro centro media e dove, elemento cruciale, era sistemato un
gruppo di avvocati che avevano raccolto le prove della violenza della
polizia
nelle manifestazioni dei giorni precedenti. Gli agenti sono entrati
nella stanza
degli avvocati, minacciato gli occupanti, distrutto i computer,
sequestrato gli
hard-disk e portato via qualsiasi cosa contenesse foto o filmati. Mentre i
tribunali rifiutavano di convalidare le accuse contro gli arrestati, la
polizia
riuscì ad ottenere un ordine di espulsione per tutti gli stranieri, con il
divieto di ritorno in Italia per cinque anni. Così, i testimoni venivano
tolti
di scena. Come per le accuse, gli ordini di espulsione sono stati poi
cancellati, in quanto illegali, dal tribunale. Zucca si è aperto la strada
attraverso anni di dinieghi e insabbiamenti. Nel suo resoconto, ha
scritto che
tutto i funzionari di alto rango hanno negato di aver avuto un ruolo:
«Non un
solo funzionario ha ammesso di aver avuto un ruolo di comando in qualche
aspetto
dell’operazione». Un funzionario che aveva era stato ripreso in un video sul
posto, ha poi spiegato che era fuori servizio e che era lì sono per
assicurarsi
che i suoi uomini non fossero feriti. Le dichiarazioni della polizia
sono state
mutevoli e contraddittorie e contraddette dalla valanga di prove delle
vittime e
di molti video: «Non un solo agente dei 150 presenti ha riferito
informazioni
precise su un episodio individuale». Senza Zucca, senza l’atteggiamento
fermo
dei tribunali italiani, senza il lavoro di Covell nell’assemblare i
video girati
durante il raid alla Diaz, la polizia avrebbe potuto schivare la
responsabilità
e avrebbe potuto assicurarsi false accuse e perfino sentenze di condanna
contro
le vittime. Oltre al processo per Bolzaneto, concluso lunedì, 28 altri
agenti,
alcuni molto in alto nei ranghi, sono sotto processo per il raid alla
Diaz. E di
nuovo la giustizia è stata compromessa. Nessun politico italiano è stato
chiamato a rispondere, nonostante il forte sospetto che la polizia abbia
agito
come se qualcuno avesse promesso l’impunità. Un ministro ha visitato
Bolzaneto
mentre i detenuti venivano maltrattati e apparentemente non ha visto nulla
oppure non ha visto nulla che ha pensato di dover fermare. Un altro,
Gianfranco
Fini, ex segretario nazionale del partito neo-fascista Msi, e allora
vice primo
ministro–secondo i resoconti dei media di allora–era nel quartier
generale della
polizia. Non gli è mai stato chiesto di spiegare che ordini abbia dato.
Molti
delle centinaia di tutori della legge coinvolti nella Diaz e a Bolzaneto
se la
sono cavata senza alcuna punizione o accusa. Nessuno è stato sospeso; alcuni
sono stati promossi. Nessuno degli agenti processati per Bolzaneto è stato
accusato di tortura–la legge italiana non prevede questo reato. Alcuni alti
funzionari che in origine avrebbero dovuto essere accusati per il raid
alla Diaz
sono stati scagionati semplicemente perché Zucca non è riuscito a provare
l’esistenza di una catena di comando. Anche adesso, il processo a 28
agenti è a
rischio perché il primo ministro Silvio Berlusconi sta spingendo un
disegno di
legge per rinviare tutti i processi che hanno a che fae con fatti
accaduti prima
del giugno 2002. Nessuno è stato incriminato per la violenza inflitta a
Covell.
Come dice uno degli avvocati delle vittime, Massimo Pastore: «Nessuno vuole
ascoltare ciò che questa storia ha da dire». Si tratta di fascismo. Ci sono
molte voci sul fatto che la polizia, i carabinieri e il personale
penitenziario
appartenessero a gruppi fascisti, ma non sono state trovate le prove.
Pastore
dice che così, comunque, si manca il punto principale: «Non è questione
di pochi
fascisti ubriachi. Nessuno ha detto ‘no’. Questa è la cultura del
fascismo». Al
cuore, tutto ciò coinvolge quello che Zucca nel suo rapporto descrive
come «una
situazione in cui ogni stato di diritto è stato sospeso». Cinquantadue
giorni
dopo l’attacco alla scuola Diaz, 19 uomini hanno usato aerei carichi di
passeggeri come bombe volanti e hanno modificato il nucleo dei principi
su cui
le democrazie occidentali si erano basate. Da allora, politici che mai
accetterebbero di essere chiamati fascisti, hanno accettato intercettazioni
telefoniche di massa e controllo delle email, detenzioni senza processo,
torture
sistematiche, annegamento simulato dei detenuti, arresti domiciliari
illimitati
e l’uccisione mirata dei sospetti, mentre le procedure dell’estradizione
sono
state sostituite dalle extraordinary rendition. Non è fascismo con
dittatori in
stivali e schiuma alla bocca. E’ il pragmatismo di politici rovesciati dal
didentro. Ma l’esito sembra molto simile. Genova ci dice che quando lo
stato si
sente minacciato, lo stato di diritto può essere sospeso.
Ovunque.

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