PROCESSO DIAZ Per l'accusa vanno condannati l'ex numero due dell'antiterrorismo e il direttore del Dipartimento anticrimine della polizia, nonché Canterini e Fournier, che denunciò la «macelleria messicana». La richiesta più alta è per l'agente che portò le finte molotov nella scuola. Riconosciuta la catena di comando LE RICHIESTE · 28 condanne e una assoluzione. Chiesti 4 anni e 6 mesi per Gratteri e Luperi
Una notte quasi «cilena»
Sara Menafra
INVIATA A GENOVA
Una condanna sostanziale. Non eclatante, perché contro «servitori dello stato che ritenevano di agire per una nobile causa» non avrebbe senso, ma neppure moderata, perché «i fatti addebitati minacciano la democrazia più delle molotov lanciate nel corso dei cortei di quei giorni». Sono 109 anni e 9 mesi in tutto, le pene chieste per i poliziotti che la notte del 21 luglio 2001, alla ricerca dei black bloc, organizzarono l'incursione nella scuola Diaz, non impedirono che gli agenti malmenassero le 93 persone che si trovavano nell'edificio e accusarono i ragazzi, molti dei quali stranieri, di essere la parte violenta del movimento e di essere armati, tra l'altro, di due bottiglie molotov trovate sulla strada del corteo mattutino e portate nella scuola nel tentativo di aumentare il magro bottino della perquisizione. La condanna più dura, cinque anni tondi, è stata chiesta per Pietro Troiani, il vicecommissario del reparto mobile di Roma che arrivò nella scuola con le due bottiglie in una busta, togliendosi i gradi dalla divisa. E' complicato fare il conto degli anni di condanna che spettano a ciascuno dei 29 poliziotti alla sbarra (per uno di loro, Alfredo Fabbrocini, responsabile della perquisizione alla Pascoli, è stata chiesta l'assoluzione). Soprattutto perché nell'elenco ci sono due dei poliziotti oggi al vertice del sistema di sicurezza italiano: Gianni Luperi - ex numero due dell'antiterrorismo, oggi capo dipartimento dell'Aisi e in lizza per il posto di vice negli stessi servizi segreti - e Francesco Gratteri - direttore del dipartimento anticrimine della polizia. Per i quali è stata chiesta anche l'interdizione dai pubblici uffici. E' per questo che Enrico Zucca, autore dell'inchiesta insieme a Francesco Cardona Albini, dedica proprio a loro l'ultima delle sei giornate di requisitoria. Per i due superpoliziotti chiederà quattro anni e sei mesi, la stessa richiesta avanzata per Vincenzo Canterini, all'epoca comandante del I Reparto Mobile di Roma che assaltò la scuola malmenando chiunque trovasse all'interno, per Gilberto Caldarozzi, all'epoca vicedirettore dello Sco, per Filippo Ferri, dirigente della squadra mobile della Spezia, Massimiliano Di Bernardini, vicequestore aggiunto, Fabio Ciccimarra, vicequestore aggiunto, Nando Dominici, capo della squadra mobile di Genova, Spartaco Mortola, dirigente all'epoca della Digos di Genova, e Carlo Di Sarro, vicequestore aggiunto presso la Digos di Genova. Quella di Luperi e Gratteri è la posizione più complicata. Quella su cui commentatori e politici si sono soffermati a lungo, perché salvare loro vuol dire salvare la Polizia di stato. E condannarli viceversa sarebbe un atto d'accusa contro le forze dell'ordine. L'accusa nei loro confronti è tra le peggiori. Avrebbero di fatto gestito la perquisizione nella scuola, ordinando ai loro sottoposti di piazzare le due bottiglie molotov all'interno della scuola Diaz. Contro di loro ci sono le immagini raccolte dalla tv privata Primocanale, che li mostrano ricevere le due bottiglie molotov contenute in un sacchetto, discutere all'esterno della scuola alla presenza degli altri poliziotti accusati di calunnia, e infine indicano Luperi mentre consegna le bottiglie a Daniela Mengoni della Digos di Firenze, che le porterà all'interno della scuola per metterle assieme al resto del materiale sequestrato all'interno. Non è stato un complotto ai danni dei manifestanti, non lo pensa neppure il pm che ha esaminato quei minuti attimo per attimo per sette anni. Quei comportamenti, dice Zucca, «non sono il frutto di una premeditata azione ritorsiva, ma di una risoluzione avvenuta sul campo». Non un piano studiato da giorni, ma un esempio di quella che il magistrato chiama «corruzione per una nobile causa», cioè «l'idea che aggiustare le prove contro i presunti colpevoli sia di aiuto all'azione della polizia e che le garanzie siano d'impaccio all'operare delle forze dell'ordine». Con lo stesso criterio si spiega la presenza dei dirigenti sul luogo della perquisizione che doveva rappresentare la «svolta» dell'ordine pubblico. L'arresto clou, capace di riportare in alto l'onore delle forze dell'ordine. Se fossimo davanti a un tribunale penale internazionale, la responsabilità dei dirigenti sarebbe dimostrata dalla loro «posizione sul campo», «i generali Luperi e Gratteri sono scesi in battaglia con casco e manganello al fianco delle loro truppe». Per loro, come per tutti gli imputati, i pm hanno chiesto le attenuanti generiche. Ma si aspettano una condanna più dura di quella chiesta per il vice di Canterini, Michelangelo Fournier, quello che in aula parlò di «macelleria messicana» ma senza per questo rendersi credibile agli occhi degli inquirenti (3 anni e 6 mesi). Quattro anni anche per l'agente scelto Massimo Nucera, che finse di aver ricevuto una coltellata, o per il suo superiore Maurizio Panzieri, che avallò nel verbale il finto accoltellamento. E per il commissario capo Salvatore Gava, l'ispettore Massimo Mazzoni (Sco), il sovrintendente Renzo Cerchi e l'ispettore superiore Davide Di Novi, assieme a Michele Burgio, autista di Troiani, il poliziotto che portò le molotov alla scuola Diaz a bordo del Magnum della polizia. Pene più alte persino dei tre anni e sei mesi chiesti per gli otto capisquadra accusati di lesioni per non aver impedito che i no global nell'edificio fossero malmenati. O dei tre anni chiesti nei confronti di Luigi Fazio, sovrintendente Ps, accusato di percosse. Non è importante che la condanna sia lunga, spiega a tutti Lena Zulkhe, la cui foto in barella è diventata simbolo di quella notte. Ma non si farà giustizia, le risponde il pm dall'aula, «se non si riconoscerà come queste azioni siano state commesse con il concorso di questi comandanti». LA MANIFESTAZIONE A GENOVA DELLO SCORSO ANNO PER RICORDARE IL G8 /FOTO REUTERS
MEMORIA · Meglio i libri che le sentenze
Di nuovo a Genova, senza aspettarsi nulla
Roberto Ferrucci
GENOVA
Entri nella sala del Monumentale di Palazzo Ducale, a Genova, ed è come se un interruttore dentro la tua testa facesse clic. Sulla parete di destra è srotolato a pannelli il Libro Bianco di Genova, le foto di quei giorni del 2001, gli stessi di questo mese di luglio, sette anni dopo. Non volevo nemmeno scriverlo questo articolo. C'era la coincidenza con la sentenza del processo Bolzaneto e scrivendolo, quest'articolo, avrei dovuto commentarla. Da quando ho finito di scrivere Cosa cambia (Marsilio), romanzo pubblicato un anno fa, racconto dei fatti del G8 di Genova del 2001, sei anni di convivenza con la scrittura, un corpo a corpo quotidiano con quei giorni, quei ricordi, quelle ferite, da quando è uscito, fatico ogni volta a riscriverne. Perché quel «cosa cambia» del titolo, senza il punto di domanda, ha un vago tono di rassegnazione. Lacerazioni non rimarginabili, giustizie che non arriveranno mai. È come se l'indignazione accumulata in quei giorni avesse scaricato l'intera sua energia sulle 188 pagine del romanzo. Io non ne possiedo più e un po' mi avvilisce, questa cosa. Ma poi penso che aver riversato quel sentimento in una storia ha fatto sì che ora sia a disposizione di chi magari non ne ha mai provata, di indignazione, per quel che successe a Genova nel 2001. Mi domando a chi, a quanti, oggi, interessi davvero sapere cosa accadde in quei giorni, sette anni fa. Abbiamo memorie di farfalla, ormai, altro che elefanti. Allora c'è un libro, adesso, a parlare per me, e ce ne sono molti altri (quelli di Stefano Tassinari, di Concita De Gregorio, di Giulietto Chiesa, per esempio) a parlare per tutti e a tutti. Poi, però, alcuni lettori mi hanno scritto. «Ma come, non la commenti la sentenza del processo di Bolzaneto?». E poi, ancora, oggi, mi ritrovo qui, sulla soglia di Palazzo Ducale, invitato da Haidi e Giuliano Giuliani per un reading. Dentro la sala, la mostra «Al lavoro, Genova chiama». Foto, installazioni, e la macabra lista, scandita lungo tutto il perimetro del percorso, i nomi delle morti bianche e, a guardarne la successione, la quantità, pensi che si tratti dell'elenco di anni e anni di tragedie e invece sono solo i primi sei mesi di quest'anno. Scrivo, e allora la commento, la sentenza, adesso. E dico: ma che cosa vi aspettavate? Che cosa potevamo pretendere in un paese che non si indigna più, nemmeno per le impronte digitali ai bambini rom? Un paese alla deriva sociale, politica, culturale, economica, dominato da media che propagandano paure fittizie, timori artefatti. Che cosa vi aspettavate da uno stato concentrato a salvaguardare se stesso? Da un paese dove anche il governo di centro-sinistra si è ben guardato dall'istituire una commissione d'inchiesta (peraltro prevista dal programma elettorale) che facesse luce sulle responsabilità del mattatoio di Genova? Che cosa poteva cambiare in un paese che va all'indietro, che richiama a governare chi aveva già devastato la giustizia e non solo, un paese che crede che il nemico da sconfiggere sia l'extracomunitario? Cosa aspettarsi da un paese convinto che il problema da combattere quest'estate siano i venditori ambulanti sulle spiagge? Come può cambiare uno stato che dal 1988 a oggi non ha voluto trovare il tempo di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell'Onu contro la tortura, ratificata dal nostro paese in quell'anno? Per questo non volevo commentare la sentenza di Bolzaneto. Non ci sono le parole e, anche trovandole, le ascolteremmo in pochi, sempre gli stessi. Quei quattro imbecilli che credono ancora nei valori, nella giustizia, nella democrazia e magari sperano che al processo per la Diaz vada diversamente. Genova fu l'inizio di quello stato di polizia diffuso nel quale viviamo adesso, fu la prova generale, perfettamente riuscita. E l'esito positivo di quell'esperienza è stato sancito con la sentenza dell'altro giorno. Oggi sappiamo che un'altra Genova sarà possibile, non appena qualcuno, lassù, lo vorrà. Ma poi proprio per tutto questo, alla fine, il reading di Cos a cambia è stato un abbraccio. Un modo per stringere forte Haidi e Giuliano Giuliani, e tutti quelli che, torturati a Bolzaneto, massacrati alla Diaz, manganellati lungo le strade di Genova nel luglio 2001, non otterranno mai giustizia. Perché le parole dei libri, e l'indignazione di cui sono pregne, quelle almeno, tengono vivo il sentimento di cui raccontano. Lo trasmettono, forse. E le parole rimangono per sempre.
www.robertoferrucci.com
THE GUARDIAN
Inchiesta del quotidiano inglese: «Al G8 polizia fascista»
Una lunga inchiesta sui fatti di Genova, senza peli sulla lingua e parlando apertamente di «polizia fascista». A proporla ai lettori è stato ieri il quotidiano britannico The Guardian, che ha descritto le punizioni infernali inferte dai poliziotti, armati di manganelli e con il volto coperto, agli occupanti della scuola Diaz per il solo gusto della tortura.«I cellulari degli ufficiali avevano come suonerie le canzoncine fascisti» -si leggee i prigionieri erano «obbligati a urlare viva il duce». Il quotidiano non risparmia i politici, chiamando in causa Gianfranco Fini: «Era presente nel quartier generale della polizia. Non gli hanno chiesto di spiegare che ordini avesse dato, e se l'aveva fatto». La maggior parte dei funzionari coinvolti non ha ricevuto alcuna penale, alcuni sono stati promossi, nessuno è stato accusato di tortura perchè la legge italiana non riconosce il reato. La dittatura in Italia è caduta 60 anni fa però «Genova ci insegna che se lo Stato si sente minacciato, la legge può essere sospesa. Ovunque».
LE REAZIONI
Parlano solo i protagonisti
Non sono molte le reazioni alle richieste dei pm genovesi. La maggioranza proviene dai politici che ne furono in qualche misura protagonisti, dall'ex portavoce della Rete no global Francesco Caruso («Basta dare le pagelle ai magistrati, la storia non si scrive nei tribunali») a Paolo Cento dei Verdi («i pm hanno confermato il metodo cileno della polizia»), dall'ex portavoce del Genoa social forum Vittorio Agnoletto («le richieste del pm sono proporzionate alla gravità dei fatti») a Gigi Malabarba di Sinistra critica («i poliziotti vengano sospesi»). Unica voce esterna, quella di Roberto Giachetti del Pd, che si chiede: «È giusto che chi ha giurato fedeltà allo Stato e viene condannato per falso ideologico torni ad occupare nuovamente il suo posto?». La domanda è ovviamente caduta nel nulla.