A Genova da martedì
Loro sono tornati, e noi?
Giuliano Giuliani
Chi fu autore di un lodo teso a rendere non punibile il suo "maestro", oggi occupa la seconda carica dello Stato e ha diretto i lavori per l'approvazione di quel lodo ammodernato.
Chi diresse la repressione, ordinò la Diaz, costrinse suoi sottoposti alla falsa testimonianza e a smentire precedenti dichiarazioni, dopo una breve pausa trascorsa sulla spazzatura della Campania dirige oggi il complesso dei servizi, che spesso si scoprono deviati.
Chi diresse e coprì la "macelleria messicana" è stato promosso e oggi, con l'ennesima legge ad personam, è ancora più sicuro della prescrizione. Naturalmente la cosa vale anche per chi "torturò" (le virgolette non diminuiscono la colpa, ma indicano che in Italia quel reato non è contemplato).
"Scendendo per li rami", cioè per i gradi, persino chi lanciava sassi ai manifestanti e poi ne accusava uno di avere ucciso Carlo con un sasso, è stato recentemente promosso e oggi è questore.
Si sollecita e si esaspera un clima di tensione e paura per estorcere consenso intorno a leggi razziste e liberticide che valgono al Paese il biasimo dell'Europa. La militarizzazione del territorio è la traduzione concreta di questa manovra in gran parte mediatica, che si avvale di un'informazione spesso asservita che fa il resto, sorvolando, alterando, mentendo. L'allarme lo lanciano non gli estremisti di sinistra, ma i più autorevoli rappresentanti della cultura liberale. Eugenio Scalfari parla del "risveglio di un Paese senza democrazia".
Un tempo c'era chi si lamentava del "lacci e lacciuoli". Chiamavano così i diritti che faticosamente e a duro prezzo si riuscivano a inserire nella legislazione, nei contratti, nel funzionamento della macchina statale. "Lacci e lacciuoli" che imbrigliavano l'economia e impedivano (questa era già allora la litania del padronato grande e piccolo) alle vele dello sviluppo di alzarsi e gonfiarsi. Qualche sera fa "Primo piano" ci ha fornito una versione allucinante della medesima teoria. E' stata riproposta l'intervista televisiva del padrone della fabbrica umbra che chiede risarcimento ai familiari dei quattro lavoratori morti il 26 novembre 2006. Si lamentava del fatto che non fossero ancora stati sgomberati i poco gradevoli resti dell'incendio, perché tutta quella roba e il continuo parlarne rovina il mercato e danneggia l'azienda!
Oggi lacci e lacciuoli non esistono più, non esistono nemmeno le stringhe delle scarpe, e ancora non basta. Uccidono ogni giorno sul lavoro, perché non ci sono protezioni, non si rispettano le regole, non c'è la sicurezza di cui ci si dovrebbe occupare davvero, quella sul lavoro. Ma il padronato non vuole, e il governo della destra di nuovo insediato toglie di mezzo anche i timidi tentativi di introdurre qualche regola.
Occorre produrre, correre, competere, produrre e competere, per il mercato, per lo sviluppo. Dire per il profitto, per il padrone non sta bene, sembra che se ne vergognino. "Spara prima la mina, mezz'ora si guadagna, me ne infischio se rischio se di sangue poi si bagna, tu prepara la bara minatore di zolfara", grida una canzone di Michele Straniero e Fausto Amodei, degli anni Sessanta.
Quella canzone la potremo ascoltare alla mostra che il Comitato Piazza Carlo Giuliani (con Progetto Comunicazione) allestisce al Munizioniere di Palazzo Ducale dal 15 al 22 luglio. La ascolteremo insieme a tante altre che ci fanno ritrovare la storia e le passioni di quegli anni e ci fanno comprendere meglio quello che accade oggi. Perché è ancora così, anzi è peggio. E a morire sono quasi sempre gli ultimi, i più deboli, i più indifesi. Sarà una mostra sul lavoro e su quello che gli sta attorno. Le lotte, i morti, i diritti, i morti, l'abbandono del campo, i morti. Canzoni e filmati e manifesti e fotografie e storie. Già, storie. Che insieme fanno un pezzo di storia.
Noi la storia la cominciamo da Piazza Alimonda, da Carlo, dall'omicidio che lo ha privato dei suoi vent'anni, del diritto a conoscere un pezzo di futuro, con gli altri, per gli altri.
Sono sette anni che ripetiamo che si è trattato di un assassinio. Che persone meschine gli hanno negato persino il diritto a un processo che potesse affermare la verità, che chiarisse gli imbrogli, i sotterfugi, le omissioni, le falsità di cui si sono avvalsi.
L'assassinio di Carlo resta il simbolo della repressione genovese, il punto più alto, ciò che determina poi la Diaz e Bolzaneto e gran parte delle stesse violenze di strada. Alcune anime belle (non parlo ovviamente della destra!) provano a distinguere. In Piazza Alimonda ci sarebbero stati i cattivi, quelli che se la sono andata a cercare. Alla Diaz e a Bolzaneto i bravi, quelli che non c'entravano. E' un modo poco attento a quella che non è più soltanto cronaca. Sono il clima cileno e la vendetta politica della destra che costruiscono la sospensione dei diritti democratici. In Piazza Alimonda Carlo è fra quanti hanno deciso di operare un "reato di resistenza", cioè di rispondere alle cariche violente e ingiustificate di reparti speciali di carabinieri. Lo ha implicitamente riconosciuto il Tribunale di Genova che nella sentenza al processo contro 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio ha derubricato l'accusa per la maggior parte di essi. Carlo sarebbe stato condannato in primo grado a tre anni. Invece è stato condannato a morte con esecuzione immediata.
Ecco perché ci pare giusto che una mostra sul lavoro, sui diritti del lavoro, sulle morti sul lavoro e quindi sui diritti negati, incominci da Carlo.
Per questo siamo ancora a Genova, Per questo, il 20 luglio, siamo ancora in Piazza Alimonda.