«Cybersoviet», il nuovo saggio di Carlo Formenti per Raffaello Cortina.
Finite le speranze di potere sperimentare l'altro mondo possibile nel
Web rimane una realtà colonizzata dalle imprese
di Benedetto Vecchi
La dichiarazione di indipendenza del cyberspazio di John Perry Barlow fu
lanciata, nel lontano 1996, come un sasso nello stagno e a cerchi
concentrici di diffuse su Internet. Un testo che letto ancora oggi ha il
fascino indiscusso del pamphlet, con quel misto di preveggenza,
semplificazione che raramente hanno i documenti politici. John Perry
Barlow aveva fatto parte del mouvement contro la guerra del Vietnam,
scritto poesie e, soprattutto, era stato nei Grateful Dead, il gruppo
rock interprete di quell'attitudine underground che in California
stabiliva una linea di continuità tra il free speech di Berkeley, la
produzione artistica «di strada» e le prime tecnologie digitali. La sua
dichiarazione di indipendenza divenne così il documento politico di chi
considerava la frontiera elettronica il luogo, seppur virtuale, dove
sperimentare forme diverse di relazioni sociali, di sottrazione dal
potere soffocante delle corporate company e del governo federale, nonché
di costruzione della decisione politica all'insegna di una democrazia
radicale che vedeva nel principio della rappresentanza un fardello da
cui liberarsi al più presto. Per anni quel testo è stato il background
teorico a cui attinto filosofi, economisti, sociologi e mediattivisti.
Internet, il personal computer e il free software erano una «tecnologia
della liberazione» che consentiva al cyberspazio di essere un habitat
socio-tecnico altero, se non antagonista dell'economia di mercato.
Pragmatici e visionari
Una convinzione che ha caratterizzato anche la produzione teorica di
Carlo Formenti, che ha dedicato a Internet due saggi (Incantati dalla
rete e Mercanti di futuro, pubblicati rispettivamente da Raffaello
Cortina e Einaudi) fortemente condizionati da quella visione libertaria
del cyberspazio, seppure con una capacità innovativa e interlocutoria
verso il pensiero critico di ispirazione marxiana. A sei anni dalla
pubblicazione dell'ultimo saggio Carlo Formenti affronta nuovamente lo
stato dell'arte della Rete nel volume Cybersoviet. Utopie
postdemocratiche e nuovi media (Raffaello Cortina, pp. 279, euro 23).
Gran parte delle tesi del passato sono passate al setaccio di un
principio della realtà e con onestà intellettuale l'autore afferma che
le speranze riposte nella Rete come laboratorio sociale per sperimentare
nuove forme di democrazia - i soviet del postmoderno - e di produzione
alternativa della ricchezza - l'«economia del dono» - si sono dissolte
al sole della trasformazione di Internet in un luogo dove è invece
egemone una logica capitalista.
Saggio autocritico, dunque, che ha il merito di ripercorrere
criticamente il meglio della produzione teorica attorno alla Rete - le
teorie di Manuel Castells e Yoachai Benkler, ma anche le riflessioni del
media theorist Geert Lovink, del «cripto-marxista» Wark McKenzie e del
visionario Richard Florida - mettendolo in un rapporto di tensione
polemica con il percorso di ricerca che Formenti definisce
«postoperaismo», in particolare con il concetto di moltitudine di Toni
Negri.
Macchine dell'innovazione
È noto che lo studioso catalano Manuel Castells ha considerato le
tecnologie digitali il medium per l'affermazione di un «capitalismo
informazionale» che ha «colonizzato» gran parte del pianeta e che è
rappresentato come un flusso di capitali, informazioni, merci, uomini e
donne che può essere governato solo grazie alla presenza di
organizzazioni produttive reticolari e attraverso l'uso intensivo di
tecnologie digitali. Allo stesso tempo lo studioso catalano considera le
relazioni di complementarietà anche conflittuale delle quattro
componenti culturali - tecno-scientifica, hacker, imprenditoriale e
degli utenti - presenti nella Galassia Internet come fattori dinamici
che garantiscono la costante innovazione della rete sia dal punto di
vista del software, dei prodotti e dell'organizzazione produttiva della
rete. Una teorizzazione, quella di Castells, che auspica un rinnovamento
del compromesso tra capitale e lavoro che consenta una riqualificazione
dei diritti sociali di cittadinanza in un mondo che prevede una
flessibilità della forza-lavoro complementare a quella
dell'organizzazione produttiva reticolare.
Più radicali sono le posizioni di Yochai Benkler, che parla di un
«capitalismo in assenza di proprietà privata»; o quelle di Richard
Florida che sostiene l'egemonia della «classe creativa» rispetto
all'insieme della forza-lavoro; lettura speculare a quella di Wark
McKenzie che parla della formazione di una nuova classe sociale che
chiama «vettoriale» e caratterizzata da un'etica hacker del lavoro.
Un accumulo di sapere che, seppur diversificato e spesso divergente
rispetto agli esiti politici, ha rappresentato Internet come un'anomalia
rispetto al mondo fuori allo schermo. Ed è con la convinzione che questi
autori siano riusciti a mettere a fuoco alcune tendenze del capitalismo
a partire da un'analisi di come funziona Internet che Carlo Formenti
giunge alla conclusione che il World wide web è stato colonizzato dalla
cultura corporate. Ma più che colonizzato sarebbe meglio parlare del
fatto che quel laboratorio chiamato Internet ha funzionato a pieno
regime e che ha rotto lo schermo del video, diventando il sistema
vigente di produzione della ricchezza. E che i nodi e le aporie nel
rapporto tra cooperazione sociale produttiva e capitale cognitivo
attendono ancora di essere sciolti in un'ottica di un superamento del
regime del lavoro salariato.
Sovranità in formazione
C'è infine un aspetto minore di Cybersoviet che invece apre un terreno
di ricerca fin qui poco esplorato. È quando l'autore parla del
«neomedievalismo istitutuzionale» che caratterizza le norme
internazionali e la legislazione nazionale sulla rete. In questo caso è
avvenuto che il processo in corso nella formazione di una nuova
sovranità che stabilisca un rapporto dinamico e flessibile tra locale,
nazionale e sovranazionale da fuori lo schermo venga esteso anche a
Internet. Lo stato, così come gli organismi sovranazionali, hanno
infatti perso il monopolio della decisione politica a causa della
presenza di factory law private che definiscono norme e regole che
spesso aggirano quelle istituzionali. La sovranità ha dunque necessità
di una governance dove organismi sovranazionali, stati nazionali,
imprese, factory law private e associazioni della cosiddetta società
civile «cooperino» tra di loro in un rapporto asimmetrico di potere.
Sgomberato il campo dalle illusioni che il web potesse essere esso solo
l'habita per costruire l'altro mondo possibile, il panorama è occupato
da quella cooperazione sociale produttiva che deve essere precaria, e
quindi assoggettata al capitale cognitivo, senza però che questa
precarietà le impedisca di essere la fonte dell'innovazione. Dunque
libertà e assoggettamento, gerarchie light ma all'interno del regime del
lavoro salariato. Il problema dunque non è immaginare un cybersoviet, ma
un soviet adeguato a una forza-lavoro che manipola manufatti linguistici
e manufatti «fisici». Un soviet, cioè, che sia dentro e fuori lo
schermo. Come dentro e fuori il video è il capitalismo cognitivo.